𝗗𝗲𝗻𝘂𝗱𝗮𝘁𝗶²

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Alzai lo sguardo e, pensieroso, mi passai una mano fra i capelli. Per quanto non mi andasse di parlare del mio passato, una parte di me riconosceva che non fosse giusto che io fossi venuto a conoscenza dei suoi mostri in quella maniera.

«Stavamo parlando di te ...» mormorai, volendo evitare la questione. « ... e, comunque, non è nulla d'importante.»

Ella, che fino a quel momento aveva tenuto lo sguardo fisso sul soffitto, scosse lentamente la testa. Un gesto piccolo, quasi impercettibile, ma carico di determinazione. Io lo riconobbi subito: quel modo silenzioso di opporsi, che tanto contrastava con il suo carattere pacato. Era come se stesse cercando di affermare qualcosa senza dirlo apertamente. Un lato di lei che, pensandoci, non avevo mai visto così chiaramente, se non quando lavorava.

«No.» sbatté le palpebre, usando un tono di voce leggermente più alto del solito. «Non nascondermi le cose.» disse.

Sentii un nodo in gola. Non si trattava delle parole scelte, ma di come le aveva pronunciate. Il suo timbro, per quanto stanco, non lasciava spazio a repliche. Ero abituato a farmi carico di tutto e ora non sapevo come reagire di fronte a una richiesta tanto schietta.

«Non dovresti preoccuparti per queste cose.» provai a farla ragionare. «Sei ancora debole. Dovresti riposare, piuttosto.» le indicai il ventre. «Hai anche validato l'ipotesi che ci eravamo fatti tutti mentre eri in ospedale, non hai bisogno di stressarti ulteriormente.»

Il suo volto si corrugò in un broncio. « ... sto bene.» assicurò. «Anzi, se non provassi dolore, riprenderei volentieri con la danza.»

Una fitta nel petto mi colpì mentre la osservavo. «Ti vedo impaziente.» mi massaggiai una spalla, sentendo il peso della conversazione farsi sempre più evidente. «Ma non c'è motivo di affrettare le cose. Sei ancora in stato di guarigione, il tuo organismo deve abituarsi e riprendersi. Più ti vessi e peggio è.»

La diciassettenne fissò la tazza di tè per una manciata di secondi, prima di stropicciarsi il volto con una mano. « ... è solo che ... mi dispiace.»

«Eh?» alzai un sopracciglio, confuso. «Ti dispiace?» ripetei. «Ma di che cosa?»

Il silenzio che seguì fu così denso che sembrava riempire tutta la stanza. Maiko non rispose subito e, io, ebbi l'impressione che stesse cercando le parole giuste. Quelle che, forse, non aveva mai detto a nessuno prima. Abbassò gli occhi verso la tazza, le dita che ne tracciavano i bordi in modo nervoso. Sembrava che ogni parola pesasse come un macigno e, nel suo silenzio, percepii una fragilità che raramente lasciava trasparire. Finalmente sospirò, parlando piano, come se le stesse costando uno sforzo tremendo.

«Non è facile da spiegare.» cominciò. «Forse ... forse all'inizio pensavo che comportandomi in quel modo sarei riuscita a renderti felice. O almeno, a non farti arrabbiare con me.»

Non dissi nulla, aspettando che continuasse, tuttavia il suo tono umile e esitante mi si scagliò contro come un pugno allo stomaco. Lei non parlava mai così di sé.

«Ero ancora spaventata, soprattutto i primi tempi.» andò avanti, con voce tremante. «Ero spaventata di finire come... loro.» deglutì, evitando di palesare i diretti interessati, tuttavia sapevo esattamente a chi si stesse riferendo: i suoi genitori. Li avevo visti di rado, ma bastarono quelle poche volte per capire quanto fosse profondo il solco che si era scavato tra di loro. Una coppia frammentata, il cui unico legame era ormai il disprezzo reciproco.

«Pensavo che ... se mi fossi comportata come una sorta di serva, sottomettendomi, piegandomi a qualunque cosa, tu non ti saresti mai arrabbiato con me. Che non avresti ... fatto come mio padre.»

𝐁𝐥𝐚𝐧𝐤 𝐒𝐩𝐚𝐜𝐞┋𝕊𝕒𝕟𝕖𝕞𝕚 𝕊𝕙𝕚𝕟𝕒𝕫𝕦𝕘𝕒𝕨𝕒Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora