Capitolo Undici

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CONNOR

Sono alto praticamente due metri, ed è tutto molto bello quando devo arrivare a prendere qualunque cosa dai ripiani più alti senza sforzo, un po' meno quando vorrei passare inosservato e fondermi con la carta da parati. Odio le feste, e stare qui senza Martha e con Sophie che va e viene per poter intrattenere tutti mi fa sentire i nervi a fior di pelle, quindi sono dovuto ricorrere a un rimedio estremo che non mi rende proprio per niente un sociopatico agli occhi degli altri.

Fortuna che non me ne frega un cazzo.

Il piano è semplice. Resto in questo sgabuzzino dispensa per la prossima ora, e a mezzanotte mi defilerò. In fondo qui si sta bene. Entrando, mi accorgo che non è una vera e propria dispensa, sembra più un luogo di passaggio lasciato a sé stesso. Nella parete opposta all'entrata c'è un'altra porta che non ho intenzione di aprire per non curiosare troppo; alle pareti a lato, invece, un quadro con una grossa cornice dorata è appoggiato a terra. C'è dipinto un uomo dai capelli bianchi e lo sguardo burbero: Sir Paul Moore, il nonno di Sophie, il suo viso mi è familiare. È stato un membro della Camera dei Lord, assoluto conservatore e, a giudicare dallo sguardo, un gran pezzo di merda. È morto due anni fa. È così diverso da Sophie che non avevo minimamente collegato il suo cognome a lui.
Sulle mensole di legno appaiono un peluche di panda usurato - ci avrei scommesso -, braccialetti di perline verdi e libri, tra cui Harry Potter. Perfetto, passerò il tempo che mi separa dall'anno nuovo leggendo il mio volume preferito. Abbasso lo sguardo su una piccola bacheca di sughero con dei disegni e una foto di Sophie. La vedo e il cuore mi salta un battito, sbloccandomi un ricordo.
Io ho già visto questa foto.

***

Undici anni prima...

Londra è bella e sono contento di essere venuto a visitarla questo fine settimana con papà, Caleb e la nostra tata Karen. Mi piace un po' meno la confusione, però la sopporto perché siamo ad Hyde Park e abbiamo appena visto una parata di Carnevale bellissima. Cal e io dovevamo vestirci da Super Mario e Luigi, ma io alla fine ho optato di nuovo per il Principe Eric perché i baffi mi davano fastidio. Cal non se l'è presa perché mi capisce, e a volte penso di non meritarmi un fratello come lui.

Mi stringo nel cappotto mentre sono seduto su una panchina insieme a Cal. Lui sgranocchia delle noccioline caramellate e il suono che fa è molto fastidioso, ma lo sopporto perché lui sopporta me.

«Sei sicuro che non ne vuoi nemmeno una?» mi chiede ancora una volta.

«No, papà mi ha detto che mangiare troppo uccide,» borbotto. Mi ha beccato la settimana scorsa mentre mangiavo una vaschetta intera di gelato e da allora tutto quello che assaggio non ha più lo stesso sapore.

«Anche essere stronzi uccide, e papà lo è,» dice semplicemente lui.

«Cal, non si dice!» esclamo indignato.

Karen, in piedi accanto a noi, chiude la chiamata con papà e non sembra aver sentito quello che ha detto mio fratello. «Vostro padre sta per arrivare a prendervi, volete giocare gli ultimi dieci minuti?»

Io e Cal ci guardiamo, e io noto la tasca della sua salopette piena di coriandoli raccolti da terra. Non facciamo in tempo a rispondere che una bambina si avvicina incerta a noi. È vestita da Principessa Belle, ha gli occhi verdi e i capelli castani sottili acconciati con delle forcine e delle mollette. Sembra avere la nostra età.

«Posso stare qui con voi? Non trovo più il mio papà,» ci dice. La voce le trema, sembra spaventata.

Karen le si avvicina e si abbassa, sorridendole affettuosa. Mi piace il sorriso di Karen, è caldo e rassicurante. Anche alla Principessa Belle deve piacere, perché vedo che si fa contagiare.

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