Capitolo tredici

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CECILIA

Il viaggio è ripreso da circa mezz'ora, ma dal silenzio irreale nell'abitacolo sembra siano passate due ore. Guardo la distesa di campi oltre il finestrino e fingo di non notare le occhiate di sottecchi che Caleb mi lancia di tanto in tanto. Lo sento, è a disagio anche lui, perché non si capacita di quello che abbiamo appena messo insieme. Tuttavia, io non sono stupita tanto di sapere che suo fratello era il mio principe Eric che Charlotte aveva trovato - mi sono sentita come se tutto fosse tornato al suo posto, perché in fondo lei aveva promesso che l'avrebbe portato da me - quanto più del fatto che lui non me l'abbia detto quando ha visto la foto. Perché tenermi all'oscuro? Un dubbio pungente serpeggia nella mia testa e mi sussurra che non voleva mettermi in imbarazzo perché è chiaro che per lui non era importante come poteva esserlo per me.
E perché non gli piaccio in quel senso, quindi perché darmi false speranze facendomi pensare che siamo legati da chissà quale destino?
Le parole di James su me e Martha mi tornano in mente e tiro su col naso, lì per lì mi avevano solo infastidito, ma a quanto pare ha scavato a fondo più di quanto pensassi, ripescando e facendo venire a galla tutte le mie insicurezze. Non so come sia possibile che lui abbia tutto questo potere su di me, nel farmi credere di non essere all'altezza. E mi è entrato in testa, facendomi sentire come se avessi sempre bisogno di conoscere la sua opinione, come se fossi completamente dipendente dalla sua approvazione. All'idea di ciò che sto andando a fare a Oxford sento la pressione sul petto affievolirsi.

«Tuo fratello ha visto la foto con me e Charlotte la sera di Capodanno. Secondo te perché non mi ha detto che l'aveva conosciuta?»

La mia domanda rompe il silenzio in mille pezzi, e noto Caleb irrigidire le mani sul volante. Si passa nervosamente una mano tra i capelli.

«Connor è più sensibile di quanto appaia,» risponde. Attendo che prosegua, ma non lo fa.

«Oh... okay.»

È ufficiale, non voleva darmi false speranze.
Caleb si ferma a uno stop e ne approfitta per scrutarmi, come se fosse indeciso se dirmi quello che gli passa per la testa. Riparte guardando davanti a sé.

«Sai che odia il suo secondo nome?» mi domanda.

«Sì.»

«Ti ha detto perché?»

«No.»

Sospira. «Non sopporta il suono che fa. Da piccolo mi disse che per lui era come sentire le unghie sulla lavagna. Tanti rumori lo infastidivano, da bambino. È diventato molto più tollerante, anche grazie alle cuffie antirumore.»

Un po' conosco la sensazione che Caleb sta descrivendo, uso anche io quel tipo di cuffie quando sono in posti affollati, non tanto per il fastidio ma perché mi agita particolarmente il brusio e la mia attenzione peggiora in modo notevole. Mi torna in mente quella volta che ci siamo incontrati alla caffetteria ed entrambi le avevamo dimenticate e sorrido di riflesso. Perché se il suo nome gli dà quella spiacevole sensazione non me l'ha mai detto? Si sente a disagio ogni volta che lo chiamo Simon? Sento montare un fastidio in petto, e mi rendo conto di non conoscerlo per niente.

«Quindi per sensibile non intendi solo... emotivamente.»

Caleb annuisce. «Quando abbiamo visto la vostra foto al notiziario lui... c'è rimasto molto male, anche se non l'ha dato a vedere,» dice soltanto. Sembra molto abbottonato sull'argomento, misura le parole che dice come se temesse di lasciarsi sfuggire troppo. «Non si è più travestito.»

Ricordo quello che mi ha detto su sua madre. Appena ho provato a parlargliene si è chiuso a riccio. Ha questo modo di lasciare piccoli pezzetti di sé, sempre molto esigui, e non è semplice metterli insieme per avere il quadro generale.
«Già. Nemmeno io.»

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