Capitolo cinque

37 5 4
                                    

MARTHA

Mi rigiro nel letto per l'ennesima volta. Sbuffo. Mi sono svegliata un'ora fa e non riesco a riprendere sonno qui in camera di Connor. È la terza notte che dormo a casa Murphy ed è la mia terza notte in bianco: Caleb trema, suda, vomita da altrettanto tempo, - a nulla sono servite le dannate caramelle allo zenzero - ma per fortuna almeno quando non vomita, dorme, e Connor sta in camera con lui; Cormack mi sta facendo impazzire perchè continua a fare mille richieste una più assurda dell'altra, alterna momenti di lucidità a totale assenza e io credo di non essere mai stata così stressata in vita mia. Fortunatamente mia madre riesce a darmi il cambio almeno la mattina, in modo che possa recuperare un paio di ore di sonno e studiare. Sì, perché nel giro di un paio di settimane cominceranno anche gli esami di metà semestre, e Medicina non è esattamente una facoltà in cui posso permettermi di abbassare la guardia.

Cerco a tentoni il cellulare sul comodino e controllo l'ora. Le tre e mezza del mattino. Decido di alzarmi e sperare che tutti stiano dormendo. Mi dirigo in cucina e metto dell'acqua nel bollitore, apro la credenza per mangiare qualcosa ma no, il mio stomaco si rifiuta di accettare qualsiasi cosa nel bel mezzo della nottata. Il rumore del bollitore mi distrae e lo spengo, non mi va più nemmeno il tè. Io so in realtà perchè non riesco a dormire, e so che finchè non lo farò non troverò pace.

Tentenno sotto la luce della cappa. Sbuffo ancora. Spengo tutto e vado nel corridoio, illuminato solamente da una piccola luce da notte attaccata a un interruttore; supero la camera di Connor e arrivo davanti alla porta di Caleb. È socchiusa, nessun rumore arriva da dentro. La scosto quel tanto da riuscire a entrare. C'è una piccola luce attaccata all'interruttore accanto alla porta, e il resto della stanza in penombra. Avanzo e mi avvicino ai piedi del letto. Entrambi dormono, e anche mentre riposano rivelano quanto sono diversi: Connor, vestito, con solo un braccio fuori per tenersi le coperte, nella stessa posizione in cui si è addormentato, su un fianco, mentre cerca di occupare meno spazio possibile, così come fa anche da sveglio; Caleb, la schiena nuda, è coperto dalla vita in giù. Probabilmente è in mutande, prende i restanti due terzi del letto dormendo prono, un braccio piegato sotto al cuscino e l'altro che pende sul bordo del letto. Pure i comodini accanto a loro parlano chiaro: su quello di Connor una semplice lampada, il cellulare e un libro in spagnolo, su quello di Caleb il punto luce è relegata in un angolo, il resto dello spazio è occupato dal cellulare, un ammasso informe di fili, le sigarette, un quaderno, tutto diligentemente in disordine. Questa netta contrapposizione mi fa sorridere. Ma dura poco, perché mi torna in mente che il cuore della notte è l'unico momento in cui posso venire qui senza essere sbattuta fuori, rifiutata o trattata male da Caleb Martin Murphy. Non so ancora perché ci provo, perché continuo a sperare che tutto possa tornare come era prima, quando ancora non mi ero fatta guidare dalla volontà di sentirmi al sicuro, perché è chiaro che a Caleb non è mai importato nulla di me, non nel modo in cui avrei voluto, almeno. Dovrei odiarlo, eppure non ci riesco. Faccio, invece, la stessa cosa da tre notti a questa parte: scelgo un lato del letto e mi siedo per terra. Mi illudo di scegliere, almeno, perché già so dove andrò. Avanzo e mi siedo sulla moquette, appoggiando la testa contro il comodino. Porto le ginocchia al petto e lo guardo: ha il volto scavato dalla sofferenza, le labbra schiuse, l'espressione corrucciata, insoddisfatta. Non trova pace nemmeno nei sogni; con lo sguardo seguo la linea della sua mascella, del collo, della spalla, fino al braccio, a penzoloni a lato del letto. Senza nemmeno rendermene conto sto allungando la mano verso di lui, mi fermo appena prima di sfiorargli le dita. Rimango ferma così, con il cuore che mi martella nel petto. Se si svegliasse non saprei come giustificarmi. Sto per tirarmi indietro quando Caleb si muove e la sua mano si sposta più avanti, toccando inavvertitamente la mia. Mi si ferma il respiro a quel contatto. Gli guardo il viso sperando che non sia sveglio, e riprendo a respirare quando mi rendo conto che sta dormendo. Le nostre mani si stanno ancora toccando; mi faccio coraggio e gli sfioro il dorso in un movimento quasi impercettibile. Chiudo gli occhi, dilaniata dal senso di colpa per quello che il suo tocco mi ha sempre fatto sentire. Le sue dita sono lunghe e sottili. Mi ricordo i brividi che mi hanno trasmesso ogni volta che mi ha sfiorata anche solo per sbaglio, come si muovevano, insicure, su di me, oppure agili, sulla chitarra, come se la suonasse da tutta una vita e non solo da quando ci siamo conosciuti.

Totally worth itDove le storie prendono vita. Scoprilo ora