28- Il boss

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HARLEY WOOD ♡

Ogni angolo di quella casa mi faceva sentire più piccola, più insignificante. Ogni superficie su cui i miei occhi si posavano era lucida. Ogni angolo era illuminato da luci soffuse che sembravano voler nascondere la realtà, facendomi venire la pelle d'oca. Le pareti sembravano sussurrare segreti, e la vastità di tutto mi soffocava. Sembrava che ci fosse un muro invisibile che mi separava da qualsiasi speranza. Mi sentivo intrappolata. Ma, in fondo, era questo che volevo.

Il lusso di quella casa era sfacciato, ma non era bello. Era inquietante, come tutto ciò che riguardava quel posto. Ogni pezzo di arredamento sembrava essere stato scelto da un uomo che voleva far sentire gli altri piccoli, insignificanti, come me in quel momento. Non c'era calore né umanità, solo il freddo della ricchezza e del potere.

Sedevo su una poltrona di pelle nera con le mani ammanettate dietro la schiena, e non potevo fare a meno di guardare il quadro appeso alla parete di fronte a me. Un dipinto astratto, dai colori cupi, ma troppo perfetto per essere naturale. Era come me, come tutto lì. Un'illusione di perfezione, un'illusione di controllo.

La porta si aprì, e il mio corpo si tese. Non perché mi stessi preparando a lottare, ma perché sapevo cosa stava per accadere. Entrò un uomo.

Era giovane, ma il suo aspetto tradiva una sicurezza che andava ben oltre la sua età. La pelle pallida, quasi eterea, contrastava con i capelli neri come l'ebano, tagliati con precisione. La sua fronte era alta, gli occhi di un azzurro gelido che non esprimevano emozione, ma una calma inquietante. Quegli occhi sembravano scrutare e pesare ogni cosa, come se avesse sempre il controllo della situazione, come se non ci fosse nulla che potesse sfuggirgli. Ero abituata a quel tipo di sguardo, ormai non lo temevo più.

Indossava un completo scuro, perfetto in ogni dettaglio. La giacca era tagliata su misura, stretta sui fianchi, con il collo alto che gli dava un'aria ancora più autoritaria. La camicia bianca brillava come un faro, ma era l'orologio d'oro che portava al polso ad attirare davvero l'attenzione. Era grande, pesante, e scintillava sotto le luci fredde della stanza, simbolo di un potere che non aveva bisogno di parole.

Il suo portamento era calcolato, misurato. Ogni passo, ogni gesto, sembrava studiato per infondere timore, ma con una naturalezza che non lo faceva sembrare artificiale. C'era una durezza nei suoi lineamenti, una rigidità nelle sue mani che non lasciavano spazio a debolezze. La sua bocca, sottile e appena accennata in un sorriso che non raggiungeva mai gli occhi, tradiva una consapevolezza gelida di essere il centro del mondo. Era il tipo di uomo che non avrebbe mai abbassato lo sguardo, nemmeno per un secondo, e che non avrebbe mai esitato a calpestare chiunque si fosse messo sulla sua strada.

Ma c'era qualcosa di strano in lui, una specie di aria di solitudine che lo avvolgeva. Nonostante il suo carisma, non sembrava davvero appartenere a quel mondo di lussi e potere. Era come se, dentro di sé, sapesse che non sarebbe mai stato abbastanza. O forse era solo la mia impressione, un tratto di debolezza che avevo voluto vedere per sentirmi meno vulnerabile di fronte a lui. Ma quella sensazione svanì presto, quando i suoi occhi incontrarono i miei e il suo sorriso si allargò, rivelando qualcosa di inquietante.

Mi guardò come se fossi una preda, sembrava avere l'acquolina in bocca e per un attimo sentii un brivido lungo la schiena.

«Finalmente ci conosciamo» quel sorriso era odioso. «Mi avevano detto della tua bellezza, ma...» portò il suo sguardo sporco al mio seno «non immaginavo dicessero sul serio» sentenziò, riguardandomi negli occhi. «Capisco perché il tuo adorato paparino ti voleva tutta per sé» Non risposi. Non volevo dargli la soddisfazione di vedermi spaventata, ma dentro di me sentivo solo urla strazianti. Ogni cellula del mio corpo era in allerta, ogni fibra pronta a scattare. Ma sapevo che non era ancora il momento. «Quel bastardo. Sarebbe bastato così poco per rimettere le carte in regola. Tz»

Si avvicinò ancora di più, tanto da poter sentire il suo respiro, il suo odore di cologne pesante, misto a fumo e cuoio. Un mix che mi faceva venire la nausea. Mi afferrò il volto dal mento e lo ruotò di poco, come se stesse cercando di studiare ogni mio dettaglio. Poi, con una mossa rapida, si inginocchiò davanti a me, posando le sue mani grandi sulle mie ginocchia, e... il suo sguardo divenne possessivo. Tanto da farmi tremare.

«Sai» disse con un sorriso beffardo «è un peccato doverti tenere legata. Non hai idea di quanto potrei farti sentire viva.» Sentii la mia pelle accendersi di rabbia. Ogni muscolo del mio corpo era teso, pronto a reagire. Lui rise, divertito, come se il mio silenzio fosse un segno di resa. Mi guardai attorno, cercando una via di fuga,
ma non c'era. «Non è troppo tardi» sussurrò «Facciamo così: posso darti due opzioni» si fermò per riportare lo sguardo al mio volto disgustato «O... farla finita... o...» la sua mano arrivò a toccare il centro delle mie cosce, facendomi sussultare e desiderare di spezzargli le ossa «essere mia

"Out of control" - Gabriel Guevara FFDove le storie prendono vita. Scoprilo ora