capitolo 6

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Quando la porta si chiuse dietro le spalle larghe del ragazzo, Jackson rientrò nella parte del buttafuori esibendo la sua aria da duro e gli si avvicinò.

«Ragazzo, non puoi stare qui.» La sua voce sembrava cambiata. Molto più dura e ferma.

Il ragazzo guardò prima me, senza dire niente, poi si rivolse verso Jackson, sempre inespressivo e senza parlare. Sinceramente, mi sorprese un po' ritrovarlo lì. Probabilmente si era perso, pensai.

Mi guardò per qualche secondo.
«Tu sei Elsa, giusto?» chiese senza dare ascolto a quello che gli aveva detto Jackson, poco prima.

«Sì, sono io.»

«Ragazzo» lo richiamò il buttafuori, «devi rientrare, non puoi stare qui.» Provò a cacciarlo per la seconda volta. Sapevo bene che la terza non sarebbe stata piacevole. Quel ragazzo ancora inespressivo fece oscillare lo sguardo da me a Jackson un paio di volte, come a valutare la situazione. Nonostante la debole luce a illuminare la zona riuscii a notare gli occhi rossi, quando un leggero odore di birra mi raggiunse. Si soffermò un po' più a lungo sul mio corpo per poi girare su se stesso e tornare dentro chiudendosi la porta alle spalle, senza dire una parola.

Jackson ed io ci guardammo un momento confusi, ma poi accantonammo l'episodio e tornammo a chiacchierare. Non era la prima volta che qualcuno si perdeva in cerca del bagno e si trovava all'esterno, ma di solito le persone erano disorientate, a volte imbarazzate o, nel caso dei più ubriachi, non se ne rendevano nemmeno conto.

Quel ragazzo era completamente impassibile e cercava me.

La mia pausa si concluse troppo in fretta e salutai il mio amico per tornare dentro. I nuovi arrivi diminuirono e questo mi permise di rallentare un po'. Mancava poco alla fine del turno così iniziai a pulire i tavoli vuoti coperti da uno strato appiccicoso la cui causa era sicuramente qualche drink rovesciato. Le persone iniziarono ad uscire dal locale, chi ubriaco da non reggersi in piedi e chi, con occhi stanchi, accompagnava fuori gli amici caricandoseli quasi in spalla. Dopotutto era solo Giovedì.

Mi toccò un viaggio in magazzino per recuperare le bottiglie che erano state svuotate in poco tempo, dopo di che mi fu finalmente permesso prendere le mie cose e andarmene. Avevo appena salutato Jackson quando la porta si aprì di nuovo e lo stesso ragazzo di prima uscì con convinzione. Incuriosita, feci cenno di non preoccuparsi all'uomo che gli aveva prontamente afferrato un braccio per bloccarlo. Non sembrava pericoloso. 

Una volta liberato mi si avvicinò senza parlare.

«Come mai qui?» gli chiesi, mentre cercavo di ricordare il suo nome. Non ero mai stata brava a ricordare i nomi delle persone, in campo di volti non ne sbagliavo uno, ma con i nomi. . .

Lui sembrò risvegliarsi al suono della mia voce.
«Oh, ecco, io. . . io v-volevo. . . darti la mancia.» Tutto mi aspettavo, fuorché questo. Tutta la sicurezza che aveva messo in mostra Lunedì era svanita. «Non ti ho più vista in giro e pensavo te ne fossi andata e volevo, insomma, darti la mancia.» Disse tirando fuori cinque dollari e porgendomeli. «So che non è molto» aggiunse. No, non era molto, ma di solito il Giovedì non ricevevo affatto mance, quindi era qualcosa.

«Nessuno ha mai commesso errore più grande di colui che non ha fatto niente solo perché poteva fare troppo poco.» Parlai senza rendermene conto. Ma ne fui felice perché non avrei dovuto dire il suo nome, che non ricordavo.

«E questa da dove viene?» mi domandò, comprensibilmente sorpreso.

Io abbassai lo sguardo, imbarazzata. «Edmund Burke, era un filosofo irlandese.» Non mi piaceva far vedere che ero così informata su cose così banali, ogni volta che mi sfuggiva i ragazzi iniziavano a pensare fossi strana e si allontanavano.

Profumo di stelle #wattys2020Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora