Un male più grande.

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Ero eccitatissima all'idea di avere un vero appuntamento con Adam. Eravamo usciti molte volte, ma erano sempre state uscite informali a cui davo poco conto, nonostante passassi del tempo con un ragazzo bellissimo. Entrai di corsa in casa, dove incontrai mia madre. Strano, no? Mia madre a casa di mio padre. Ebbene sì, era da un po' che passava del tempo a casa nostra, dopo aver visto come stavano le cose. Ma ero ancora del parere che non mi conosceva per niente. Non conosceva le mie esigenze, ma mi ci trovavo con lei: era comunque mia madre, d'altra parte. Lei era una donna fantastica. Dico era perché adesso è diventata quasi l'opposto. Quand'ero bambina aveva dei capelli biondi lucidi e degli occhi lucenti e pieni d'amore. Occhi che si sono spenti col tempo, con le sostanze proibite assunte, con tutti gli uomini con cui è stata. Ed è questo che probabilmente ci aveva allontanate: la sua esigenza di uscire dalla vita reale, e di viverne una tutta sua. E sono sicura che la mia malattia lei non l'aveva neanche presa sul serio. Non c'era mai stata a nessuna visita, c'era sempre una scusa pronta per non partecipare. Non c'era stata quando mi era stato detto che avevo la leucemia, e non c'era stata quando avevo deciso di non curarmi. Lei non c'era stata mai. Ma non gliene avevo fatto una colpa, ed ero sempre del parere che avesse potuto recuperare. Appunto per questo, se in quel momento avesse voluto far parte della mia vita, io le avrei dato la possibilità di farlo.

«Vado a prepararmi, ho un appuntamento.» le dissi sorridendo mentre lei, che era intenta a leggere una rivista, alzò lo sguardo su di me.

«Con il vicino?» mi chiese aggrottando le sopracciglia ricambiando il mio sorriso, ed io annuii.

Salii in camera e presi un vestitino nero che pensavo mi stesse davvero bene. Lo avevo comprato poco tempo prima, ma non avevo avuto mai l'occasione per indossarlo.
Mi specchiavo e mi sentivo giusta. Giusta e amata. Indossai le mie solite scarpe, e decisi di non truccarmi. Mi piacevo al naturale, e sapevo di piacere anche al mio Adam. Andai in bagno per lavarmi i denti, mancavano solo cinque minuti alle sette. Abbassai la testa nel lavandino, e quando mi rialzai e mi guardai allo specchio, notai che mi colava del sangue dal naso. Quando capii cosa stesse succedendo, iniziai ad allarmarmi.

«No, no, no. Non oggi. Non oggi.» continuavo ad urlare.

Era questo che mi succedeva. La leucemia incombeva su di me come un masso. Mi spingeva a star male e ad odiare la mia vita. Quella vita breve, che non potevo godermi per niente. Al suono delle mie urla, mia madre corse in bagno, e quando vide le condizioni in cui ero sgranò gli occhi. Come darle torto: non aveva mai assistito ad una situazione del genere.

«Tessa, cosa succede? Cosa faccio? Tuo padre non c'è, Tessa.» piagnucolava lei, inutilmente.

Mi diede immediatamente un'asciugamani e prese il suo cellulare per chiamare il 911. Lei era molto agitata, stavo perdendo molto sangue. Ma io non potevo far nulla, come spesso mi avevano detto. Dovevo solo attendere il soccorso sanitario e cercare di non perdere i sensi: cosa alquanto difficile. Ad un tratto però sentimmo suonare al campanello: era Adam. Ed è lì che mi crollò il mondo addosso. Non volevo che mi vedesse così, non volevo che avesse un'immagine di me che andava oltre a tutte le cose possibili. Ero malata, ma non volevo essere vulnerabile agli occhi di tutti. Nemmeno ai suoi. Avrebbe sofferto più di me, ed io non avrei voluto.

«No, ti prego. Non aprire.» dissi urlando a mia madre.

«Come faccio Tessa, eh? Come faccio, deve aiutarmi qualcuno a portarti giù.» disse lei disperata.

Volevo urlare, volevo sotterrarmi. Non volevo che vedesse questo schifo, lo schifo che ero, che mi sentivo di essere. Tutta piena di sangue, con la leucemia che mi sconfiggeva. Sapevo di dover morire, ma non volevo che fosse così. Avevo una vergogna immensa, ma non potevo fare niente. Al ché a gattoni mi nascosi dietro la vasca. Ma cosa ero arrivata a fare? A nascondermi.

Quando Adam arrivò nel bagno, non riusciva a trovarmi, ed io cercavo di fare meno rumore possibile per far sì che non mi trovasse. Quando salì anche mia madre, e mi trovò, chiese in tutti i modi l'aiuto di Adam. Lui mi guardava, guardava spaesato la ragazza che aveva di fronte, con mille problemi e il mondo che le crollava addosso. Non riusciva a muoversi, e lo capivo.

«Cosa fai lì impalato, aiutami!» disse mia madre, ma lui non si muoveva. Nessuna parte del suo corpo si muoveva, mi guardava soltanto sconcertato: come biasimarlo.

«Lascialo stare mamma...lascialo.» dissi io ormai rassegnata. La mia paura più grande, ossia quella di sentirmi diversa, si stava pienamente avverando. Ed io, non ero pronta.

Adam era più vulnerabile di me. Quella era una sfida più grande di se stesso, e non avevo intenzione di premere su di lui, tanto meno volevo che mi stesse vicino se non ce la faceva. Io avevo bisogno di lui, sì. Ma non volevo che fosse così. Non volevo essere il peso sulle spalle di nessuno,io. Fu così che, anche se con un po' di fatica, riuscii ad arrivare al piano inferiore con l'aiuto di mia madre. Il servizio sanitario arrivò poco dopo, e mi trasportò dentro il mezzo per recarsi poi verso la clinica.

«Grazie mamma.» le dissi sorridendole.

Era stata grandiosa, e non era stata male come soccorritrice benché fosse la sua prima volta. Prima che si chiudessero le ante del furgoncino addetto a portarmi in ospedale, l'immagine che vidi di fronte a me, fu quella che probabilmente avrei ricordato per tutta la vita: il sorriso triste di mia madre alle mie dolci parole, e un Adam sconvolto sulla soglia della porta di casa mia.
Ti amo, avrei voluto dirgli al di fuori di tutto quello schifo. Se quella fosse stata l'ultima volta, il nostro ultimo sguardo, glielo avrei detto. Ma sapevo che sarei tornata. Anche distrutta e zoppicante, ma sarei tornata.

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