Boom, boom, boom: chi é che mi sta dando delle martellate in testa?
Sbatto ripetutamente le palpebre per abituarmi alla potente luce della stanza. Aprire gli occhi è una penitenza: ogni volta è come trovarsi in una campana di ferro che sta suonando. Mi costringo a tenerli aperti per una dozzina di secondi, il tempo sufficiente per osservare il posto in cui mi trovo. Sembra essere una stanza d'ospedale: bianca e asettica. In effetti sono distesa su un lettino, uno di quelli che ho visto tante volte dopo i giochi e nel 13 a causa dei danni subiti. Mi porto le mani sul viso per non essere assalita dal panico: dove sono? Cosa vogliono da me? Non ho bisogno di chiedermi chi è stato a farmi questo perché conosco già la risposta. Cerco di alzarmi, di mettermi seduta ma la testa mi gira così forte da provocarmi dei conati. Il freddo si infila sotto la mia pelle sottile e rovinata fino a farmi rabbrividire, ma non è questo che mi porta a tremare come una foglia. La paura si impossessa di me, mi trova disarmata, addirittura spogliata dei miei vestiti. Mi sento di nuovo come quando venni presa dagli artigli dell'hovercraft nell'edizione della memoria.
Prima un piede, poi l'altro. Finalmente riesco ad alzarmi ma devo tenermi sempre attaccata al lettino per non cadere. Indosso solo la biancheria intima e ho i capelli raccolti in una traccia spettinata. Mi avvicino ad uno dei tre grandi specchi attaccati al muro, lascio correre lo sguardo sulle forme, sulle curve del mio corpo: sono più magra di quanto ricordassi, lividi blu e viola mi colorano le braccia sottili e prive di grasso. I miei occhi sono rossi, iniettati di sangue. Da quanto tempo sono qui? da quanto tempo non mi danno da mangiare?
Mi avranno sicuramene drogata per tenermi buona. A giudicare dalla mia eccessiva magrezza la mia permanenza qui deve essere già di una settimana e mezza. Perché mi hanno permesso di tornare cosciente? Sicuramente non per fare conoscenza, vorranno qualcosa da me. Incrocio le braccia e mi guardo intorno, poi i miei occhi si posano finalmente su quello che stavo cercando. Mi avvicino ad un piccola telecamera posta in un angolo alto della stanza, raccolgo tutte le forze che ho per restate lucida e per pronunciare parole ferme: "allora, posso sapere perché sono qui?" Domando con ironia. Come mi aspettavo non ricevo alcuna risposta. "Beh, da quanto ho visto in questo specchio state cercando di farmi morire di fame." Faccio una breve pausa "non mi importa. Anzi, credo che vi risparmierò la fatica." Concludo tenendo gli occhi fissi sulla telecamera. So che mi stanno guardando e so che mi vogliono viva, non avrebbe senso tenermi in una stanza vuota per più di una settimana. Giro intorno al lettino e mi avvicino alla porta: non ho bisogno di provare ad aprirla per sapere che è chiusa. In ogni caso non é scappare che mi interessa. Proprio di fianco a quella che sembra l'unica via di fuga da questo posto vi è uno sgabello. Sono talmente debole che anche il minimo sforzo di alzarlo mi provoca lancinanti fitte di dolore. Lo prendo e mi avvicino alla specchio, la forza la trovo nella rabbia che mi provocano le persone che mi hanno fatto questo.
Urlo, urlo il più possibile, uso tutto il fiato che ho in gola, spreco l'intera quantità di ossigeno che possiedono i miei polmoni. Sollevo lo sgabello e lo lancio contro il mio orribile riflesso: tutto va in frantumi: lo specchio, la lampada bianca, io.
Cado in ginocchio priva di vita, prosciugata della mia dignità e della mia sanità mentale. Afferro un pezzo dello specchio irrimediabilmente distrutto: lo rigiro tra le dita. Sto per farlo ancora: senza pensarci lo avvicino al collo, proprio sulle vene che so essere quelle più importanti. Mi rivolgo di nuovo alla telecamera "Avete vinto. Mia sorella è morta. Mi avete privato di tutto, anche di me stessa. Non ho idea di cos'altro vogliate da me, ma non l'avrete mai."
Non voglio farlo, non voglio morire, ma se per avere risposte devo rischiare allora lo farò. Faccio strisciare il più lentamente possibile il pezzo di specchio sulla gola. Inizialmente applico poca pressione, ma poi capisco che non verranno fino a quando non vedranno il sangue.
Con tutto il coraggio che mi resta premo con più forza: una piccola, sottile striscia rossa mi cade giù per la gola. Il dolore è atroce.
Non posso morire, non prima di vivere davvero. Voglio stendermi sul prato e crogiolarmi al sole, voglio andare a trovare Gale e dirgli che so che non è colpa sua, voglio vedere gli occhi verde mare del piccolo Finnick, voglio perdonare mia madre, ubriacarmi e ridere con Haymitch, addormentarmi nelle braccia di Peeta, sentirmi al sicuro e parlare con lui, sapere cosa voleva dirmi l'altra notte.
Quando ormai penso che mi lasceranno fare, che lasceranno che mi uccida la porta si spalanca improvvisamente. Istintivamente mi alzo, tengo la mano ben ferma sulla gola, lotto contro me stessa per non svenire. Occhi color cioccolato, pelle scura, denti affilati come lame: Enobaria mi fissa con rabbia, è circondata da due uomini alti e muscolosi ovviamente armati fino ai denti. "Fermi o mi ammazzo" urlo. Devo sembrare davvero pazza, davvero disperata. I due omoni si lanciano su di me e io sono troppo debole e stanca per reagire. Mi afferrano le braccia già malconcie, me le stringono con forza generando dolore quando le loro grosse dita premono sui lividi. Cerco in tutti i modi di liberarmi ma è impossibile. "Il tuo desiderio verrà esaudito, ragazza di fuoco. Stai tranquilla" dice Enobaria con un ghigno soddisfatto sul volto. "Non prima di aver incontrato Antonius" continua poi. Vengo sollevata e solo in quel momento realizzo di avere la mano sanguinante per aver tenuto stretto il pezzo di specchio. Il sangue cola sulla gamba dell'uomo che mi tiene il braccio destro, la vista di ciò mi fa venire in mente un modo per scappare. Con uno strattone improvviso riesco a liberarmi, tiro un calcio sul petto dell'uomo alla mia sinistra, poi mi giro e senza pensarci conficco il pezzo di specchio nella gamba del suo collega. Il primo cade a terra, il secondo si accascia urlando. Enobaria si gira di scatto. È un secondo: i suoi denti letali si infilano nella mia carne del mio braccio, il dolore mi fa quasi vomitare. Le tiro un pugno con il braccio sano, lei cade a terra con un tonfo sordo.
Faccio l'errore di fermarmi per un secondo per respirare, giusto il tempo per sentire di nuovo l'uomo a cui ho tirato il calcio prendermi le mani e legarle con violenza dietro la schiena.
Enobaria si alza e si pulisce il naso sanguinante "cambio di programma, ragazza di fuoco. Facciamo prima una tappa alla vasca" dice.
Ho paura quando un sorriso malvagio le appare sul volto.
STAI LEGGENDO
Katniss e Peeta: senza fare rumore. / COMPLETA
FanfictionPenso alle ciglia lunghissime di Peeta, alle mani forti ma dal tocco leggero, al potere curativo dei suoi abbracci e non posso fare a meno di arrossire. Dal testo: Raccolgo i pezzi di me stessa e provo a ricompormi asciugando le lacrime. Sento una v...