Capitolo 7

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Sapevo solo una cosa.

Mentre mi sistemavo le staffe, mentre spronavo Honey al passo e mentre fissavo le altre ragazze senza la minima traccia di paura.

Sapevo che Benedetta non avrebbe mai vinto.

Quel maneggio era la mia casa, Michele il fratello che non avevo mai avuto e quei cavalli che ormai conoscevo da anni la mia famiglia. Benedetta e la sua perfidia si erano impadronite pian piano di gran parte del maneggio, partendo da chi lo frequentava. Mi avevano reso la vita insopportabile, mi avevano preso in giro e umiliato, ma non l'avrebbero mai avuta vinta.
Io non me ne sarei andata da lì, e stavolta avevo il coltello dalla parte del manico. In fin dei conti, quella in ospedale con una gamba sfatta e la mente offuscata da perfidi pensieri non ero io.

Svuotai rapidamente la testa da Benedetta appena in tempo, perché la lezione era cominciata. Niente salti quel giorno, solo un leggero lavoro in piano.

Mentre seguivo con pazienza i movimenti di Honey durante il trotto, guardai le ragazze vicino a me, identificando chi avrebbe potuto giocarmi il prossimo scherzo per ordine di Benedetta. Michele sembrò quasi venirmi in aiuto, scegliendo di tanto in tanto una ragazza che facesse un giro di galoppo con il cavallo che montava.

La prima fu Deborah, in sella a Yale, uno dei cavalli prediletti di Michele. Il suo nome, come quello di Harvard, non era casuale. Il mio istruttore era giovanissimo e avrebbe desiderato frequentare un'università all'estero, ma allo stesso tempo nutriva il desiderio di portare avanti il maneggio dei suoi genitori, morti  in un incidente stradale tre anni prima. Diviso fra due strade, due scelte e due carriere, Michele aveva deciso di dedicarsi al maneggio e quindi a noi, ma il suo rimpianto soffocato di tanto in tanto tornava a farsi vivo nei nomi dei suoi primi cavalli, quali Harvard, Oxford, Yale. Mi divertivo a canzonarlo spesso per questo motivo, ma dentro di me lo avevo molto a cuore.

Deborah era abbastanza piccola, ma idolatrava Benedetta, mi faceva quasi venire la nausea. Benny avrebbe potuto manipolarla senza difficoltà per metterla contro di me, nonostante di fondo fosse una ragazzina a posto.

La ragazza che seguì fu Alessia, come al solito insieme al suo Falco. Mi morsi il labbro vedendola, perché per anni l'avevo considerata veramente la mia migliore amica, una di cui mi potessi fidare. La rivelazione di Monica mi aveva fatto aprire gli occhi. Adesso mi rendevo conto di che persona codarda fosse, fedele a Benedetta come un cagnolino, ma forse ancora combattuta all'idea di ferirmi. L'avrebbe fatto, se sua maestà l'avesse chiesto, ma era una persona così superficiale che non aveva ancora deciso da che parte stare, e probabilmente dopo si sarebbe sentita in colpa per me. 

Mi stupii di quanto fossi cinica dei suoi confronti, ma in un secondo momento mi resi conto che Alessia aveva semplicemente raccolto ciò che aveva seminato: troppo buona per farmi del male, ma allo stesso tempo troppo debole per ribellarsi a Benedetta.

In fin dei conti, la nostra amicizia non era mai stata degna di essere definita tale. Affrontare la verità una volta per tutte faceva male, lo sentivo in ogni fibra del corpo mentre stringevo le redini di Honey, tanto che attesi pazientemente che Alessia e Falco finissero di galoppare e tirai un sospiro di sollievo quando non li ebbi più in vista.

Seguirono Alice e il suo cavallo scuro, e altre amiche di Benedetta che avevano giurato fedeltà al tiranno ormai da molto tempo. Da loro non potevo aspettarmi niente di buono.

Interruppi le mie riflessioni solo quando fu il mio turno: spronai dolcemente Honey perché rompesse al galoppo, e svuotai nuovamente la testa da pensieri pesanti per concentrarmi sulla mia posizione e sulla palomina.


Più tardi, mentre pranzavamo sulla panca del Club House, Michele chiese un attimo di attenzione.

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