13° CAPITOLO

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1 febbraio, notte
(Capodanno Cinese - Anno dell'Ariete)
Chinatown

A volte ci sono dei mondi nascosti dietro altri mondi. Colombo, Magellano, Cook... hanno passato anni a bordo di fetenti navi di legno per scoprire i loro continenti segreti.

Io il mio l'ho trovato in 80 minuti, grazie al treno per la stazione di Richmond e all'autobus per Jackson Street: Chinatown!

Non mi ero resa conto che fosse il Capodanno Cinese finché non ho sentito il coro ghignante di Gong Fat Choy!  quando ogni nuovo passeggero si pigiava salendo sull'autobus.

Donne di mezza età se la chiaccheravano in cantonese, dondolando la testa e sottolineando ogni concetto con uno scrollone delle maniglie dei loro sacchetti di plastica traboccanti.

Quando siamo arrivati a Chinatown l'autobus era pieno come una scatola di sardine.

Quelli che sono scesi come me a Jackson Street sono stati sparati fuori dalle porte posteriori come i semini di un limone. Ero in ritardo... erano già quasi le otto e avevo paura di perdermi Victor.

Chinatown era un casino. Masse di persone si spingevano allegramente su entrambi i lati della strada, riversandosi oltre il marciapiede e nei canaletti di scolo.

Una luce pulsava attraverso il corpo grasso del gioviale Buddha al neon sopra la Macelleria della Doppia Fortuna (Niente gioco d'azzardo).

C'era un rumore incredibile: gente che litigava e rideva e urlava da una parte all'altra della strada, auto che strombazzavano, campanelli di biciclette, tamburi e tamburelli e fanfare di una processione lontana, e il continuo scoppiettio dei petardi, che la gente accendeva a mazzi e lanciava in aria, tanto che la notte odorava di polvere da sparo.

Normalmente non mi sento alta, ma a Chinatown sono alta.

Era impossibile non notarmi, perché la gente continuava a sbattermi contro, sfrecciarmi attorno e tirarmi delle botte con i sacchetti della spesa mentre schizzava fuori da drogherie e fruttivendoli, oppure mi veniva addosso mentre saltavo sul marciapiede per evitare di essere stirata da un'auto.

Quando sono arrivata al ristorante Otto Antenati sono stata quasi travolta da una famiglia vociante che si è riversata fuori dalle grandi porte di vetro ridendo e schiamazzando

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Quando sono arrivata al ristorante Otto Antenati sono stata quasi travolta da una famiglia vociante che si è riversata fuori dalle grandi porte di vetro ridendo e schiamazzando.

La folla mi ha spostata all'indietro finché non sono stata bloccata da uno spintone e un'imprecazione in cantonese.

"Ehi!" ho urlato mentre mi voltavo. "Tieni giù quelle mani del cavolo se non...".

Sono ammutolita. Il tizio che mi aveva spinto sembrava un killer di un film di John Woo.

Portava un abito nero lucido, occhiali a specchio e una cravatta stampata con faccette di Topolino ridenti.

Aveva l'auricolare di un cellulare all'orecchio e due amici accanto. Erano in piedi di fronte a una lunga limousine nera come se avessero ricevuto l'ordine di fare fuori chiunque avesse rigato la carrozzeria.

Quello contro il quale ero finita ha piegato un po' la testa, in attesa che continuassi a parlare. Qualcuno per strada ha accesso una torcia antivento. Scie di fuoco hanno attraversato i suoi occhiali a specchio come lenti proiettili luminosi.

Gulp. "Mi scusi" ho borbottato, dopodiché sono entrata di corsa nel ristorante.

Per quanto incredibile, dentro c'era ancora più rumore, un ruggito di chiacchiere e posate che tintinnavano e camerieri che spostavano carrelli di cibo tra i tavoli.

C'era odore di granchi al vapore e aglio fritto e salsa di soia e sopratutto di sigarette.

In California è proibito fumare nei ristoranti, ma non ero più in California, ero a Chinatown la sera dell'ultimo dell'anno e valevano regole diverse.

Il fumo si raccoglieva in nuvole che si alzavano dalle dita di cinesi sghignazzanti di mezza età. Il ristorante fondamentalmente era un'enorme spazio aperto pieno di tavoli.

Ci saranno stati cinque o seicento clienti e decine di camerieri in uniforme rossa. Ho cercato Victor con gli occhi che mi si riempivano di lacrime per il fumo di sigaretta e ho notato una cosa strana.

Un uomo si stava avvicinando dal fondo del ristorante. Dove passava lui, il silenzio calava come un'ombra. Una o due persone lo hanno visto e hanno fatto un cenno rispettoso del capo, ma erano casi rari.

Gli altri clienti sembravano non notare neanche la sua presenza. Facevano una pausa, come se stessero cercando le parole, ma non si accorgevano di essere stati imprigionati in una specie di rete a strascico di silenzio, non più di quanto un filo d'erba si accorga dell'ombra di una nuvola che gli passa sopra.

E poi quest'uomo passava e i clienti ricominciavano a parlare e a ridere. Era diretto verso la porta. Veniva dritto verso di me.

Mi sono spostata di lato mentre lui superava il tavolo più vicino. I nostri occhi si sono incontrati e l'immobilitá si è chiusa sopra di me come se stessi cadendo dentro un pozzo.

Ciò che riuscivo a vedere della sala ha iniziato a restringersi. E come si restringeva, il rumore si dissolveva: prima un rombo distinto che si allontanava, poi solo le voci del tavolo più vicino. Poi si sono spente anche queste ed è rimasto solo il vecchio e il suono del mio respiro.

Dopo, c'è stato solo il suo volto e il battito del mio cuore. Ho incrociato il suo sguardo. Il mio cuore ha rallentato e infine si è fermato.

In quell'intensa immobilità, il vecchio è scoppiato a ridere.

"Hai un buon occhio" mi ha detto. "Qualcuno ti ha insegnato a guardare".

All'improvviso mi è passato davanti un ricordo.

"Cathy, vieni qui. Guarda cosa succede se spruzzo l'irrigatore per le piante di tua mamma contro un raggio di sole! Arcobaleni!".
"Io vedo...qualcosa di...rosa!".
"Brava! Rosso più blu dà viola. E rosso più giallo dà...?".

"Tocca le cose con gli occhi, Chaty. Maneggiale con lo sguardo, così guardandole potrai dire se sono ruvide o lisce o umide o morbide, come i funghi.
Devi piangere con le mani e ridere con le mani e lasciar cantare le mani.
Devi vedere con il cuore. Devi vedere con il cuore.

Il ristorante ha ripreso a rombare e chiacchierare attorno a me

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Il ristorante ha ripreso a rombare e chiacchierare attorno a me. Mi sono voltata, stordita, ma il vecchio era scomparso.

Non avrei saputo dire quanto era alto né cosa indossava.

Aveva una lunga barba bianca divisa in tre punte, questo me lo ricordavo, e la sua voce non era un suono che ascoltavi, ma una sensazione da cui ti risvegliavi, come un ricordo o un suono.

Il Diario di Cathy-  1° libroDove le storie prendono vita. Scoprilo ora