Capitolo 6

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RICORDA: La versione caricata su wattpad è la bozza precedente alla pubblicazione di Blackout, potrebbe contenere sviste o errori di formattazione e di caratteri, causati dal passaggio da Word a Wattpad.



È quasi mezzanotte, siamo da poco sbarcati a Telanya, capitale di Hiberna. Abbiamo preso un pullman che ci ha portato dall'aeroporto al centro città, adesso dobbiamo raggiungere l'hotel. Mio padre sta facendo una telefonata di lavoro, mentre il suo assistente è seduto pensieroso sulla sua valigia, sembra stanco.

«È arrivato il taxi» mi informa Sion.

Alla fine si è deciso a venire. Meglio così, almeno durante le dieci ore di volo mi ha fatto compagnia e non mi sono annoiato più di tanto. Ha detto che sua madre l'ha spronato a venire con noi perché tanto, a casa, non avrebbe potuto fare nulla per suo padre, e non aveva senso star lì con le mani in mano. Anche lui ha dato il consenso, per cui eccolo qui.

Mio padre chiude la telefonata e si avvicina a noi, il tassista ci aiuta a caricare le valigie nel portabagagli, dopodiché saliamo.

«Dove andiamo?» chiede l'autista.

Mio padre risponde porgendogli un bigliettino.

Non abbiamo problemi di lingua. Da secoli, ormai, i vari linguaggi del mondo si sono uniformati in un unico idioma internazionale che mischia termini e significati delle lingue degli antichi Paesi che una volta abitavano il pianeta.

Mentre il taxi si avvia per la sua strada, mi guardo attorno. Una volta questa era una delle città più importanti del mondo. Anche qui hanno ricostruito molto, ma non è ancora ai fasti dell'anteguerra, nonostante i palazzi siano molto più alti di quelli di Nashé e le strade molto più larghe. È tutto un gioco di luci attorno a me, da quelle calde degli appartamenti a quelle più appariscenti delle insegne dei locali.

«La chiamata di prima riguardava la riunione di domani, è stata spostata al primo pomeriggio» dice mio padre, rivolgendosi al suo collaboratore.

«Bene, così io e Sion potremo farci un giro in zona, prima di andare all'incontro» mi intrometto io.

Mio padre, seduto accanto all'autista, si gira verso di me. Mi guarda, poi squadra Sion. Ha i capelli corti e brizzolati, è anche un po' stempiato. È alto, anche se da seduto non si nota, indossa un abito scuro, cravatta blu notte a pois bianchi e una camicia bianca. Di solito è molto severo, specialmente in ambito lavorativo, ma non mi ha mai fatto mancare nulla. «Certo, non vedo perché no. È una bella città, vale la pena farsi un giro.»

Il taxi si ferma, a quanto pare siamo già arrivati. C'è voluto meno del previsto. Il tassista scende e apre il bagagliaio, prendiamo le valigie e ci avviamo verso l'entrata dell'hotel mentre mio padre paga.

Sul marciapiede c'è un gran viavai di gente. Alcune ragazze parlano e ridono, poggiate a un muretto al lato delle scale che conducono all'ingresso dell'albergo. Le guardo per un po', alcune sono carine.

«Ti ricordo che sei fidanzato» dice Sion. E ha ragione.

«Lo so, ma guardare non è peccato.»

All'ingresso dell'hotel troviamo un receptionist dietro un bancone, e un facchino che si occupa delle nostre valigie caricandole su un carrello che fa sparire all'interno dell'ascensore; sul pavimento una soffice moquette rossa.

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