Al ritmo delle onde

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Ai bei tempi di High Kensington, io e Clementine abitavamo insieme in un piccolo appartamento al secondo piano di un palazzotto piuttosto antico e in qualche modo decadente, almeno ad uno sguardo esterno; tuttavia, una volta entrati all'interno, l'atmosfera che si respirava era molto più accogliente e confortevole di quanto l'aspetto esteriore potesse ispirare. Entrambi trasferiteci a Londra per studiare, amiche inseparabili, persino avevamo scelto la stessa facoltà, forse più per solidarietà che per passione. Non potevamo lamentarci, se non di qualche stravagante professore, e la nostra esperienza londinese, sebbene agli inizi apparisse piuttosto arrancante, si era rivelata alquanto ricca di vitalità e di sorprese. Alle volte avvertivamo la mancanza dell'aria di casa, la vecchia Cork con i suoi musicisti di strada, virtuosi dalle vite avventurose che non potevi mai incontrare due volte allo stesso angolo dello stesso marciapiede; le sponde del fiume Lee, il suono delle campane della Cattedrale, le luci del porto di notte...

Sospirai, scuotendo la testa, mentre sfogliavo distrattamente le pagine del libro di letteratura che tentavo di studiare ormai da ore, senza tuttavia aver ottenuto risultati incoraggianti.

La giornata trascorreva lenta, come se il tempo avesse deciso di dilatarsi giusto per farmi un dispetto e rendermi ancora meno sostenibile il peso dell'attesa: volevo vedere Roger, a tutti i costi, anche se in cuor mio temevo che lì, sotto la mia finestra, l'incontro sarebbe stato un po' troppo palese. Dopotutto, ci conoscevamo solo da due giorni, anzi, nemmeno due giornate piene erano trascorse dal primo momento in cui avevo vissuto vicino a lui; era troppo presto per azzardare qualsiasi speranza, o persino un desiderio, nemmeno ero perfettamente sicura del genere di sentimento che provassi per lui.

Sollevai lo sguardo dal libro, mi alzai con studiata lentezza e mi avviai mollemente verso la finestra. Mentre percorrevo svogliatamente quei pochi passi, detti uno sguardo all'orologio da tavolo posato sulla scrivania: mancava un quarto alle quattro. Ebbi un improvviso tuffo al cuore: l'idea che soltanto quindici minuti mi separassero da Roger mi fece sobbalzare, eravamo già così vicini... Eravamo. Oh, già pensavo al plurale. Avrei potuto illudermi quanto mi pareva finché fossi stata sola in camera, distesa sul letto a fissare il soffitto con aria sognante, immaginando un roseo futuro di cui avrei prefigurato ogni scena nel minimo dettaglio, ma da dove mi sarebbe derivata la sicurezza di permettermi di pensare a un "noi" riferito a Roger e me? Forse egli in me cercava solo un'amicizia, preziosa, unica, speciale, ma nulla di più. E se invece no, se egli avesse cercato qualcosa di più, io sarei stata pronta? O avrei combinato terribili pasticci ed equivoci, uno dopo l'altro, fino a fargli perdere ogni speranza nei miei confronti? A proposito di pasticci, com'ero vestita? Ridestandomi dalle mie riflessioni esistenziali, realizzai con orrore che al momento non mi trovavo esattamente nelle condizioni estetiche ottimali per un incontro, che fosse sentimentale o meno: una matita infilata (male) nei capelli in assenza di un vero fermaglio, una gonna decisamente stinta, una maglietta in condizioni tali da non farsi invidiare dalla gonna. Come se non bastasse, ero anche a piedi scalzi. Pareva che l'unico avvenimento fortuito della giornata fosse il ritardo di Clementine. Un momento: e se fosse arrivata a casa esattamente quando mi fossi trovata con Roger? Inevitabilmente ci avrebbe visti insieme, e che altro avrebbe potuto pensare se non che... avrei almeno potuto cambiarmi d'abito per l'occasione? Mi precipitai di corsa verso la cassettiera, aprii furiosamente il primo cassetto, poi il secondo, li richiusi entrambi e ripetei l'operazione senza un preciso ordine logico. Già in preda al panico avvertii un netto senso di mancamento, mentre potevo vedere il mio volto scolorire a vista d'occhio, riflesso nell'impietoso specchio appeso alla parete dietro il mobile. Quindi, mentre ormai disperavo, scorsi in fondo al cassetto, sommerso da altri abiti, un angolo di stoffa celeste appartenente a un vestito che nemmeno ricordavo di aver portato con me: lo dissotterrai dalla pila di maglie sovrastanti facendo attenzione a non spiegazzarle in malo modo (erano in gran parte di Clementine, la quale si ostinava a mescolare sistematicamente i suoi abiti con i miei) e lo osservai per qualche istante: le maniche corte a sbuffo adornate di graziose strisce di pizzo in tinta, la gonna vaporosa lunga fino al ginocchio, la scollatura non eccessiva. Era perfetto.

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