Casa è dove sei tu

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Quando giungemmo nei pressi di Pomposa, il cielo si era minacciosamente rannuvolato: nell'aria umida e pesante, già presaga di pioggia, il bruno rossiccio dei mattoni dell'Abbazia si stagliava contro le nubi plumbee con un aspetto titanico, possente nella sua semplicità di linee. Pareva una creatura ancestrale che si ergeva sulla terra con le sue massicce zampe, le tre arcate sulla fronte che inghiottivano nella profondità del portico la luce, già fioca, del sole. Il campanile, le lunghe finestre come occhi sdegnosi delle piccole figure umane che sostavano alle sue pendici, si slanciava verso il cielo quasi a volerne sfidare i fulmini prossimi a saettare fino al suolo.

-Sicura che sia una buona idea?- Roger aveva domandato con l'aria di ritenere che non lo fosse affatto. Vide le nostre ombre allungate sul terreno del viale d'accesso sparire sotto l'effetto delle nubi che si addensavano sopra di noi, quindi dette uno sguardo rapido al cielo, per nulla promettente.

-Sì, sono sicura.- ribattei stringendo più forte la sua mano, che da quando avevamo lasciato il vagone del treno era allacciata alla mia.

Roger persistette nella sua meditabonda espressione dubbiosa.

-Fidati- tentai di rassicurarlo. –Tanto fra poco saremo all'interno. Vedrai, ti piacerà: qui dentro si respira come se fossimo in un altro tempo.-

Egli sorrise dolcemente, sebbene il suo volto fosse velato di nostalgia, come se in quel mio improvviso entusiasmo potesse scorgere un'ombra sbiadita di ciò che ero stata anni prima, di ciò che era stato anche lui.

Valicammo la soglia delle tre arcate e la luce del presente svanì. Ancora una volta mi trovavo con Roger ad affrontare un'improvvisa, momentanea oscurità che celava agli occhi di entrambi i veri contorni della realtà circostante. Era come se quelle secolari meraviglie volessero essere ammirate con uno sguardo che fosse tutto interamente per loro, vergine da qualsiasi altra visione che non avesse a che fare con esse; quella buia accoglienza cancellava ogni altra cosa e preparava la vista ad accogliere in sé tutto lo splendore nuovo che le si presentava. Poi lentamente si ricominciava a vedere, ma con sguardo diverso, pieno di un curioso stupore che non avrebbe lasciato inosservato nemmeno il più remoto angolo di quel tesoro. In pochi minuti ci risvegliammo dall'oscurità: la luce non era aumentata, né il sole s'era aperto un varco nella coltre di nubi, ma i nostri occhi s'erano abituati, e soltanto adesso potevamo procedere.

Il tempo all'interno dell'Abbazia s'era come dilatato; anzi, era scomparso, ci teneva sospesi nella nobile, antica austerità del complesso, che da sola era sufficiente a farci percepire gli anni, i secoli, tutti concentrati in ciascuna pietra di quell'edificio. Qualsiasi parola avremmo detto lungo la via, qualsiasi pensiero ci fosse sorto precedentemente, era svanito una volta oltrepassata la soglia, lasciando il posto nelle nostre menti a tutte le immagini di cui esse potessero riempirsi per fissare nei nostri ricordi.

Non smettevamo di tenerci per mano. Eravamo ormai un'unica entità, nuova, davanti alla storia che ci fissava silenziosa. Quel contatto era tutto ciò che potevo sentire e desiderare, forte e delicato al tempo stesso, la vita intera racchiusa nella stretta delle nostre mani che di tanto in tanto si rinvigoriva, come ad assicurarci reciprocamente che ciascuno dei due fosse sempre lì. Era un dialogo, fra noi e l'Abbazia che a volte pareva comprenderci nella nostra complicità di innamorati, altre invece sembrava richiamare l'uno o l'altra ad ammirare le sue vestigia, attirando nuovamente il nostro sguardo su di lei. "Ci sei?" chiedeva la mano di Roger stringendo più forte la mia. "Sì, sì... sono qui." rispondeva la mia contraccambiando la stretta. "Grazie, davvero." E allentava dolcemente la presa. "Oh, grazie a te. Di esserci sempre." E le nostre dita s'intrecciavano. Una fugace intesa di sguardi, poi l'Abbazia ci richiamava a sé, attraendoci con le preziose pareti dipinte della navata centrale: un nastro che si snodava dall'ingresso fino all'abside, raccontandoci una storia fatta di gesti, colori, volti dipinti magari alle volte con le sembianze di qualcuno, qualcuno che ci guardava con i suoi occhi eterni camminare lentamente al suo cospetto. La luce che illuminava la chiesa abbaziale non era la stessa di fuori: quegli edifici parevano capaci di catturarla e farla risplendere dal loro interno, come se noi potessimo godere, ancora nel 1975 della stessa luce che poteva osservare chi avesse camminato per quelle navate nell'XI secolo.

Love, Hope and ConfusionDove le storie prendono vita. Scoprilo ora