Capitolo 19- Minacce

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Roma

C'era stato un periodo in cui a Liviano non era importato nulla della politica. Si era avvicinato alle dottrine epicuree, e preferiva passare il tempo con sua figlia, vivendo nel suo piccolo, felice, universo. Ma quando Livia si era sposata, Liviano aveva capito che aveva bisogno di occuparsi di qualcosa. Qualsiasi cosa, per non sentire il rumore della sua solitudine. E così, aveva intrapreso la carriera politica. Quando poi Livia era rimasta vedova, gli era sembrato che occupare una carica importante, come quella di senatore potesse permettergli di fare luce sull'omicidio di Claudio. Aveva convinto Marco Licinio Crasso ad interessarsi del caso, ma non aveva ottenuto nulla: non era riuscito a dare un volto all'assassino del marito di Livia, che si era dato alla macchia. Crasso aveva ben presto chiuso il caso, liquidandolo tra i tanti disordini che la plebe causa, eccitata dal sangue. Non avrebbe mai preso provvedimenti, andando contro il popolo. Liviano aveva quindi allontanato la figlia da Roma, per cercare di farla reagire, e anche per cercare di calmare il suo senso di colpa: adottandola, aveva promesso di darle una vita migliore, proteggerla da tutto e da tutti, e non ci era riuscito.

Entrando nella casa di Crasso, Liviano si sentì a disagio. Nel tempo il suo giudizio su di lui era cambiato: si era rivelato un uomo avido, uno capace di corrompere anche la dea vergine Diana, se si fosse messo d'impegno. Crasso lo fece accomodare, offrendogli frutta e vino che Liviano rifiutò con un cenno del capo. Si sentiva nervoso, e non riusciva a capire cosa Crasso potesse volere da lui. «Ѐ molto tempo che non parliamo faccia a faccia, mio caro Liviano.» iniziò, sorridendo al suo ospite. «Hai ragione, Marco Licinio. Mi chiedo infatti perché mi hai fatto chiamare.» rispose Liviano, rimanendo sulle sue. Crasso sorrise, e un lampo gelido passò nel suo sguardo. «So di averti deluso, chiudendo il caso sull'omicidio di tuo genero. Ma tu capirai: non potevo processare tutta la plebe di Roma.» si interruppe, fingendosi dispiaciuto. «Ma comunque, è acqua passata. Tua figlia, a quanto ho saputo, si è trasferita a Capua. Ѐ una città meravigliosa, a quanto dicono.» aggiunse, bevendo dalla sua coppa. Liviano si limitò a un cenno affermativo del capo. Crasso ripose la coppa sul tavolino che aveva accanto, e tornò a guardare il suo ospite: «So che le permetti di vivere da sola, senza un uomo che la controlli. Sei davvero coraggioso». Liviano, innervosito, strinse le labbra. Era chiaro che Crasso voleva provocarlo. «Non so di che coraggio parli. Mia figlia è circondata da una familia di schiavi che soddisfa ogni sua necessità. E può sempre contare su di me.» chiarì, sentendosi sempre più nervoso. Crasso lo guardò, piegando leggermente il collo: «Si, non ne dubito.» commentò. «Vedi, Liviano, io ho molto denaro. La guerra civile tra Mario e Silla, anziché impoverirmi, mi ha arricchito» riprese, ridacchiando in modo sguaiato alla sua battuta di pessimo gusto. Tutti sapevano che, stando dalla parte del dittatore Silla, vincitore della guerra civile, si era appropriato dei beni dei Mariani che Silla aveva fatto uccidere. Liviano trattenne un moto di disgusto. «Questo lo so, Crasso. Perdona la mia indiscrezione, ma posso sapere per quale motivo mi hai fatto venire qui?» ribatté. Marco Licinio annuì. «Sei qui perché mi servi, Liviano. Ho bisogno di un uomo della tua esperienza, e della tua levatura morale. Voglio fare carriera in politica. Tutti, me compreso, ti stimano come saggio. Perciò ti chiedo: ti schiererai dalla mia parte?».

Capua

Livia, guardando Gemina occuparsi di Ferunto, ebbe un moto di commozione. Erano stati separati così a lungo, ma sembrava che non si fossero lasciati neanche un minuto. Gemina cambiava le bende al figlio sorridendo, accarezzandolo sulle guance. Livia si ritrasse, non volendo essere di troppo. Ma Ferunto, incrociando il suo sguardo, le sorrise: «Livia! Entra, te ne prego.» la chiamò. Livia entrò, sorridendo. «Come ti senti, Ferunto?» chiese, accostandosi al letto dove era posto il ragazzo. Ferunto le sorrise. «Bene, grazie a te. Voglio ringraziarti, Livia. Senza di te sarei ancora in quel posto, accusato di omicidio. Ma lo giuro: non sono stato io.» La donna annuì, mentre Gemina non smetteva di accarezzare la testa del figlio. «Lo so bene che non sei stato tu.» rispose. Poi alzò lo sguardo, chiedendo un tacito permesso a Gemina, che annuì. «Senti, Ferunto...Non voglio affaticarti, ma per caso ricordi che cosa è accaduto? Chi ha ucciso quella schiava e ti ha ferito?» Il ragazzo sbatté le palpebre, sforzandosi di ricordare. «Ho dei ricordi confusi, a dire il vero. Mi ricordo che quella schiava mi ha liberato, facendomi uscire dalla cella. Ha detto che tu mi stavi aspettando insieme a quel gladiatore...» si interruppe, guardando Livia. «Damone! Come sta?» chiese. Gemina alzò un sopracciglio in direzione di Livia, che finse di non vedere l'espressione della liberta. «Sta bene. Ma vai avanti, ti prego.» Il ragazzo annuì. «La ragazza mi ha detto di starle dietro, che si sarebbe incaricata di distrarre i legionari, e così avrei potuto raggiungerti. Aveva una coppa di vino, che aveva detto di portarti. Me la stava dando quando una figura incappucciata si è stagliata davanti a noi. Era armato di un pugnale, e si è diretto verso la schiava, che ha cominciato ad urlare. La coppa è caduta in terra, scivolando lontano. Io ho cercato di fermarlo, ma è riuscito a ferirmi e a farmi cadere. Ho perso i sensi. Il resto lo sapete.» Livia e Gemina si scambiarono uno sguardo: «Del vino?» chiese Gemina, nervosa. Ferunto annuì. «E ha detto espressamente che era per me? Non per Damone?» chiese Livia, aggrottando le sopracciglia. Ferunto annuì di nuovo, perplesso. La liberta cominciò ad imprecare: «Quella puttana! Ti voleva fare fuori!» esclamò, sputando in terra. «Non lo sappiamo con certezza, Gemina. Ma certo è molto strano.» ribatté Livia. Ferunto era sbalordito: «Volete dire che era del vino avvelenato?» esclamò. Gemina annuì. «Già, così sembra. E in ogni caso, ha fatto la fine che meritava.»

Livia, seduta in giardino, rilesse la strana lettera che il padre le aveva fatto pervenire quella stessa mattina:

Liviano saluta la sua amata Livia.

Credo sia tempo, mia cara figlia, che io ti venga a trovare.

Sarò a Capua tra due giorni.

Vale

Una lettera stringata, che le causava inquietudine. Perché suo padre aveva improvvisamente deciso di recarsi a Capua? Rilesse la lettera ancora una volta, cercando dei significati che, però, le sfuggivano. Gemina le si sedette accanto, dando indicazioni alle schiave, che Livia neanche udì. «Cosa non ti convince, Livia?» le chiese la liberta, interpretando il suo silenzio. Livia alzò lo sguardo. «Sembra che mio padre voglia scappare da qualcosa. O da qualcuno.» Gemina annuì lentamente, assimilando l'informazione. Livia piegò la lettera, rigirandola tra le mani. Guardò la liberta: «Tu credi davvero che Syria volesse avvelenarmi?» chiese. La liberta alzò le spalle: «Secondo me si. Altrimenti, perché avrebbe dovuto portare del vino solo a te? Ѐ chiaro che ti vedeva come una minaccia, e ha cercato di farti fuori. Una donna gelosa è capace di tutto.» sentenziò. «Quindi quell'uomo incappucciato voleva proteggermi.» concluse Livia. Gemina si meravigliò: «Cosa te lo fa dire?». La donna colse un fiore, porgendolo alla liberta. «Pensaci: si è diretto contro Syria, stando a quanto ci ha detto Ferunto. Quindi, è con lei che l'aveva. E perché una spia dovrebbe uccidere una schiava?» Gemina alzò le spalle, sistemandosi il velo. «Non lo so. In effetti è strano. Ma aspetta Livia, come fai a dire che era una spia? Poteva essere un malintenzionato...». Livia scosse la testa: «No, era un professionista. Lo ha detto anche Obscurus. » Gemina sobbalzò a quel nome, volgendo lo sguardo all'orizzonte. Livia prese coraggio. «Gemina...perché non dici a Ferunto che suo padre è vivo? Ha diritto di saperlo.» La liberta rimase in silenzio, dando l'impressione di non avere udito. Dopo qualche minuto scosse la testa. «No. Milone gli farebbe solo del male.» mormorò. Livia piegò il capo, guardandola con tenerezza: «A me non è sembrato molto pericoloso. Mi hai raccontato la vostra storia, e capisco le tue ragioni. Ma non ti sembra che Ferunto sia adulto abbastanza per scegliere da solo? Basta segreti». Gemina la guardò. «Anche tu hai segreti, mi pare. Ѐ da mesi che sei strana. Credi non abbia capito che sei andata a letto con quel gladiatore? Ѐ un comportamento, Livia, che non è da te. Quindi, finché non mi dici cosa è successo, non farmi la morale.» concluse, alzandosi dalla sedia, per rientrare in casa. Si era allontanata di qualche passo, quando Livia la richiamò: «Aspetta, Gemina.» La liberta si voltò, in attesa. Livia sospirò. Era il momento di dire tutto. «Ti ricordi la sibilla che vedemmo alla festa di Batiato?». Gemina annuì. «L'imbrogliona?» chiese, sedendosi di nuovo. «No, non era un'imbrogliona. Gemina, sto per raccontarti una storia che ha dell'incredibile.»

Lucrezia scese nei sotterranei, scambiando uno sguardo di intesa con uno dei legionari che si allontanò, discreto. Batiato era uscito, e sarebbe tornato solo a sera. Aveva perciò campo libero per mettere in atto il suo piano. Spinse la grata della cella dove Damone, stremato dall'allenamento, dormiva. Ne ammirò il profilo, così virile, le gambe toniche e scattanti; i pettorali che sembravano scoppiare. Per ultimo, si soffermò sull'inguine, fasciato dal subligaculum, un perizoma di tela che fasciava alla perfezione la forma del suo membro. Lucrezia si morse il labbro, immaginando quel membro dentro di sé, vigoroso e forte, pronto a spruzzare il suo seme fecondo. Si avvicinò, poggiandogli una mano sul braccio. Il gladiatore aprì gli occhi e, quando la mise a fuoco, sobbalzò. «Domina...cosa...cosa fai qui?» chiese, stupito. Lucrezia gli sorrise, seducente. «Oh, non formalizzarti troppo, Damone. In fondo, sono qui per proporti un affare.»




Il Leone e la Lupa  #Wattys2016Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora