Per Lucrezia era necessario andare a letto con suo marito. Sperava infatti che il seme di Crisso avesse fatto il suo dovere, facendola rimanere incinta, ma era necessario che Batiato si ritenesse padre del bambino, o per lei sarebbero stati guai. Aveva convocato Pseca, la vecchia esperta di erbe e veleni, perché l'aiutasse, con qualche preparato, a risvegliare il desiderio del marito, che sembrava sopito, dietro a mille impegni e preoccupazioni. Non che Lucrezia anelasse ad andare a letto con lui: si era ormai stufata, della loro vita insieme; mai che le facesse un regalo o un complimento, mai che la rendesse partecipe della sua vita. Era evidente che la reputava una stupida, incapace persino di dargli un figlio. Mentre osservava Pseca trafficare con le boccette che si era portata dietro, Lucrezia desiderò di chiederle un veleno, da versare nel vino di Batiato, che magari lo potesse portare a una lenta agonia, tanto da fargli implorare la morte. Ma fu solo un momento: strinse gli occhi, sforzandosi di calmarsi. Sapeva bene di non potersi disfare di lui. A Roma, erano gli uomini a comandare, non certo le donne: era Batiato ad avere il coltello dalla parte del manico, e doveva stare molto attenta non solo a quello che faceva, ma anche a quello che pensava. «Allora, Pseca? Cosa mi proponi, per la cena di questa sera?» chiese, scuotendosi dai suoi pensieri. La vecchia, come sempre vestita di nero, la guardò: «Dipende dall'effetto che vuoi ottenere, domina. Cosa vuoi da tuo marito? Che sia loquace? Che provi il desiderio di sedurti? O magari farlo dormire, così da dedicarti ad altri piaceri?» indagò, prendendo una boccetta diversa ad ogni opzione. Lucrezia si alzò in piedi, nervosa. La vecchia sapeva ormai molte cose di lei, che certo non avrebbe spifferato, e Lucrezia sentiva un grande bisogno di sfogarsi con qualcuno. «Pseca, ho bisogno che mio marito provi il desiderio di sedurmi. Ho seguito il tuo consiglio: ho preso il seme di un altro uomo, di un uomo virile. Capisci?». La vecchia annuì, lentamente. «Quando è stato?» chiese, avvicinandosi per tastare la pancia di Lucrezia. «Due settimane fa.» Pseca le fece segnò di stare ferma, e cominciò a tastare la pancia con le dita ossute e ricurve. «Non mi sembra sia successo ancora nulla.» sentenziò, togliendo le mani. Lucrezia impallidì: «Quindi il suo seme non è fertile?» chiese. La vecchia scosse la testa. «Non ho detto questo. Ma una volta può non essere sufficiente, specie alla tua età.» fece una pausa, avvicinandosi con fare cospiratorio. «Avrei bisogno di vedere l'uomo, per capire se è virile.» mormorò. Lucrezia annuì, facendo un cenno alla sua schiava personale. Quella si avvicinò, compunta. «Vai a chiamare Crisso e portalo qui.» le ordinò Lucrezia, e la schiava eseguì, sparendo in corridoio.
Erano ormai passati parecchi giorni da quando Liviano si era trasferito a Capua, e Livia era preoccupata: suo padre sembrava assente, malinconico; passava la maggior parte del tempo in giardino, seduto su una panchina a guardare il cielo, rifiutando di ricevere le personalità della città che, allertate dalla sua presenza, erano venute a rendergli omaggio. In più, si era rifiutato di dire il motivo del suo repentino trasferimento. Sembrava sentisse la pungente mancanza di qualcosa. Liviano era stato informato della presenza di Ferunto, e aveva approvato il piano di Livia. Ma aveva concordato sul fatto che il ragazzo dovesse lasciare Capua al più presto, sotto falso nome e con una degna scorta: se Batiato lo avesse scoperto, sarebbe stato marchiato come Fugitivus, e condannato a morte. Gemina però, nonostante le insistenze di Livia, si rifiutava di rivolgersi a Obscurus, adducendo strane scuse, che servivano solo a rimandare l'inevitabile.
Ferunto era guarito dalle ferite, e passava le sue giornate chiuso in casa, non potendo uscire per nessun motivo. «Madre?» invocò, seguendo Gemina per le stanze. «Dimmi» rispose la donna, sovrappensiero, sorvegliando il lavoro della schiave. «Chi era quell'uomo che mi ha salvato?». Era quella la domanda che la vecchia liberta aveva temuto di più, che aveva cercato di evitare con tutta se stessa. Ma ora, sentendo il cuore battere più forte, capì di non poter più scappare.
Livia raggiunse suo padre in giardino. Si sedette accanto a lui, prendendogli una mano. «Padre...» mormorò, e Liviano si voltò verso di lei, sorridendo. «Dimmi cosa ti angustia. Perché sei fuggito da Roma? Cosa ti preoccupa? Dimmelo, ti prego.» disse, e il padre le fece una leggera carezza. «Sei sempre stata così perspicace, fin da piccola. Ti ricordi che i primi tempi ti rifiutavi di chiamarmi "Padre"? Lo sapevi benissimo che non lo ero, e non capivi perché dovessi fingere...» iniziò Liviano, malinconico. «Sono stato minacciato, Livia. Crasso mi ha proposto di entrare a far parte della sua cricca, e io ho rifiutato. E sono dovuto fuggire, o me l'avrebbe fatta pagare cara. Ѐ un uomo potente, e senza scrupoli...» aggiunse, sospirando. Livia annuì lentamente. Ricordava bene Crasso, quella volta che era venuto alla domus di Liviano, promettendo di fare di tutto per catturare l'assassino di Claudio. Le era sembrato già da allora finto, falso; ostentava una commozione che non provava. «Hai dovuto rinunciare alla politica, quindi...» concluse, capendo finalmente il motivo della tristezza di Liviano. Sapeva che per suo padre la politica era importante: lo faceva sentire utile al popolo di Roma, gli faceva pensare che la sua vita avesse ancora senso. Si sentì in colpa: era stata così presa dal suo dolore per la morte di Claudio, da non pensare alla solitudine di Liviano. Suo padre annuì, sorridendo tristemente. «Ma ora siamo insieme, è questo l'importante» rispose, stringendo forte la mano della figlia. Livia cercò di dire qualcosa che potesse scuoterlo, distrarlo. Sapeva, per esperienza, che l'unica cosa che riuscisse a distrarre dai brutti pensieri era il darsi da fare. «Padre, lascia che ti racconti dello strano omicidio avvenuto in casa di Liviano. Ho bisogno di un tuo parere...»
Pseca tastò il gladiatore ovunque, dalla testa all'inguine, emettendo piccoli sbuffi che potevano essere di soddisfazione come di qualsiasi altra cosa. «Allora?» la interrogò Lucrezia, impaziente. La vecchia si scostò da Crisso, guardando la donna. «Mi sembra virile e forte. Ma avrei bisogno di fargli alcune domande, per esserne sicura.» replicò, con la sua voce resa roca dall'età. Lucrezia fece un cenno di assenso. Pseca si rivolse a Crisso: «Quanti figli ha avuto tuo padre?» chiese. «Tre, oltre a me.» replicò il gladiatore, con voce stentorea. «E i fratelli di tuo padre?» volle sapere Pseca, accarezzandosi il mento con la mano ossuta. «Ognuno di loro ne ha avuti quattro». La vecchia si dichiarò soddisfatta, annuendo verso Lucrezia: «Non ci sono dubbi: è fertile.»
Obscurus era nella sua solita taverna, mangiando controvoglia i piatti poco appetibili dell'oste. La solita servetta gli passò accanto, versandogli del vino, senza rivolgergli la parola, probabilmente offesa dal suo rifiuto di andare a letto con lei. Dalla porta entrarono due figure, che Obscurus riconobbe subito, rischiando di strozzando con il vino. Gemina e Ferunto, che indossava ancora il cappuccio, per non farsi riconoscere, si sedettero di fronte a lui. «Ciao, Milone.» lo salutò Gemina, tendendogli una mano, che lui strinse con forza. Ferunto, a quel gesto, sorrise. «Salve, padre.»
Lucrezia si era vestita di tutto punto, stando attenta a scegliere una tunica che le lasciasse scoperta la schiena, e molto scollata sul seno. Su consiglio di Pseca aveva versato nel vino una erba che avrebbe acceso il desiderio di Quinto. E ora aspettava, sdraiata sul triclinio, bevendo vino nella coppa. Dove si era andato a cacciare Quinto? Era quasi un'ora che lo aspettava. Uno schiavo entrò nella stanza e le si inchinò. «Domina, ti reco un messaggio di tuo marito. Tornerà questa notte, poiché impegnato...» Lucrezia smise di ascoltare, sentendo la rabbia impadronirsi di lei. Il vestito, le erbe afrodisiache...tutto inutile! Con un urlo di rabbia scagliò la coppa al centro della stanza. Si alzò in piedi, sentendo il cuore uscire dal petto. La sua schiava la guardava con un misto di preoccupazione e rabbia, non sapendo cosa fare. Non aveva mai visto la sua padrona in quel modo. Lucrezia la guardò: «Vai a chiamare Crisso. Ora!» urlò, con tutto il fiato che aveva in corpo. La schiava esitò, sapeva bene che così facendo andava contro il padrone. «Sei forse sorda? Ti ho dato un ordine!» ruggì Lucrezia, e la ragazza corse via. Rimasta sola, Lucrezia si passò una mano sul viso, sentendolo caldo. Lacrime di rabbia pungevano i suoi occhi. Sentiva il bisogno di una sola cosa: vendetta.
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Il Leone e la Lupa #Wattys2016
FanficDamone è un gladiatore della scuola di Capua. È bello, sfrontato e così abile nei combattimenti che il suo lanista, Batiato, lo ha soprannominato Leone. Livia è la figlia di Antonio Liviano, un ricco patrizio di Capua molto vicino al senato di Rom...