Sempiternus (II parte)

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Da sempre Vulpes si trovava a suo agio nel buio. La prima volta che aveva sperimentato l'utilità di muoversi nell'ombra, e l'invisibilità che la notte può dare era molto piccola. Stava dormendo vicino a sua madre, nel bordello, quando un uomo ubriaco aveva fatto irruzione nella stanza. A quell'ora il bordello era chiuso, e infatti si sentivano gli strilli della vecchia Nuyade, che imprecava pregando Giove di fulminarlo. Sua madre l'aveva spinta fuori dal letto, intimandole di nascondersi. Vulpes aveva eseguito, nascondendosi dietro un vecchio tavolo, nascosta dall'ombra della stanza. L'uomo si era gettato su sua madre, afferrandole le gambe e divaricandole, per penetrarla. Il cuore di Vulpes aveva cominciato a battere all'impazzata, così forte che aveva dovuto tapparsi le orecchie, tale era il rumore dei battiti. Sua madre urlava, cercando di dibattersi, quando dietro all'uomo era apparsa una giovane donna, anche lei una prostituta, che gli aveva assestato una botta in testa con una brocca piena d'acqua. L'uomo si era accasciato, e sua madre aveva sospirato di sollievo. «Grazie, Mesia» aveva detto alla sua amica, che aveva sorriso. Vulpes era sgusciata fuori dal suo nascondiglio, piangendo sul petto di sua madre. Quando aveva riaperto gli occhi, ne aveva percepito due neri, scuri, che la fissavano con benevolenza. Una bambina, leggermente più grande di lei, era sbucata dietro alla schiena di Mesia e le porgeva una manina. Lupa.

Zigzagando per i vicoli, veloce e agile, Vulpes pensò alla fortuna di aver reincontrato Lupa. Dopo la morte di Mesia, nessuno sapeva che fine avesse fatto sua figlia. La vecchia Nuyade non rispondeva a nessuna domanda, borbottando come suo solito. Sua madre, qualche anno dopo, aveva fatto la stessa fine, stroncata da una vita dura e impossibile. E così la piccola Vulpes era stata venduta, ed era passata di padrone in padrone. L'ultimo, Gaio Marzio, era stato gentile. Le aveva dato il nome di Marzia, che lei reputava troppo femminile, e la trattava bene. Ma era vecchio e malato, e alla sua morte Vulpes era stata venduta, e portata a Capua. Chiunque, al suo posto, si sarebbe abbattuta. Non aveva nemmeno vent'anni, e aveva condotto una vita durissima. Ma Vulpes non si era mai persa d'animo, neanche quando Lucrezia l'aveva arruolata come spia. Aveva fatto male i suoi conti, quella donna. L'aveva venduta a Livia, e ora la sua arma le si era ritorta contro: Lupa l'aveva fatta lavare, mangiare e trattata come una sua pari. L'aveva liberata, adottandola come sua liberta. Vulpes aveva dormito, per la prima volta dopo anni, su un letto vero. Ma nessuno doveva sapere che era una liberta. Vulpes avrebbe dovuto continuare, apparentemente, a servire Lucrezia, passandole finte informazioni.

Arrivata alla scuola di Batiato, Vulpes, evitando i legionari, giunse alle celle dei gladiatori. Scorse Damone e lo richiamò con un fischio. Quello, vedendola, si incupì: «E tu chi sei? Che vuoi?» le disse, infastidito. Vulpes sorrise, avvicinandosi alle sbarre: «Mi devi seguire, Leone. Mi manda Lupa».

Merula scorse la figura di Damone uscire dalla scuola. Si appiattì al muro per non essere vista, e socchiuse gli occhi. Avrebbe dovuto avvertire Lucrezia, ma decise di non farlo. Non avrebbe aiutato quella donna più di quanto non avesse già fatto.

Damone si incamminò dietro alla ragazzina, che sembrava avere i calzari alati di Mercurio, per quanto procedeva veloce. Vulpes gli raccontò ogni cosa: del suo passato, della sua amicizia con Livia, e di dove lo stesse portando. Damone ascoltò sempre più interessato, in silenzio. Quando Vulpes gli rivelò dove lo stesse portando, pensò di sognare: «Livia vuole sposarmi?» chiese, guardandosi intorno, pensando di stare sognando. La ragazzina mise su un sorriso furbo: «Non è un sogno, gladiatore. Ѐ ora che la lupa e il leone diventino una cosa sola».

Dopo aver attraversato piccole viuzze buie, arrivarono a una piazza, dove la mattina, probabilmente, si teneva uno dei tanti mercati rionali. Davanti a un piccolo tempio Livia e Gemina, insieme a un'altra figura incappucciata, li aspettavano.

Come vide la sua donna, Damone si paralizzò. Erano tanti, troppi giorni che non sentiva il profumo della sua pelle. Livia gli corse incontro, e il gladiatore la sollevò, stringendola a sé e sostenendola con la forza dei suoi bicipiti. «Mi sei mancato...ti penso ogni minuto» gli sussurrò Livia, prima di baciarlo sulle labbra. Damone la depose a terra, delicatamente, ma tenendola stretta. Le baciò le labbra ringraziando gli Dei di essere ancora vivo per farlo. «Plutone ha ancora rifiutato la mia anima. Dei, Livia, sei così bella da levarmi il fiato» mormorò Damone, accarezzandole il viso. Poi si incupì: «Stai bene? Gemina mi ha detto che hai scoperto l'identità dell'assassino di tuo marito». Livia lo guardò, sorridendo teneramente: «Si, è vero. Ha confessato la sua colpa. Ma l'ho perdonato. Claudio avrebbe voluto così». La figura incappucciata intervenne, prima che Damone potesse replicare. «Non c'è tempo, per i convenevoli. Il matrimonio deve essere celebrato prima della fine della secunda vigilia» disse. I due amanti si voltarono verso di lei, e a Damone parve di riconoscere una voce familiare. La figura si tolse il cappuccio e rivelò la sua identità: era la sibilla, colei che da mesi li guidava attraverso i sogni. «Entrate nel tempio. Dobbiamo celebrare la vostra unione» aggiunse, con un sorriso ieratico, incamminandosi per prima. Gemina la seguì, precedendoli, per lasciarli da soli prima della cerimonia. «Livia...un matrimonio? Io...non ho diritti sulla mia persona» mormorò Damone, a disagio. Livia gli prese il mento tra le dita, facendogli una carezza. «Tu appartieni a te stesso, Damone. E nessuna legge di nessun uomo potrà mai dire il contrario. Il matrimonio è una promessa di fronte agli Dei, non agli uomini. Qualsiasi cosa, da domani, potrà accadere, saremo legati indissolubilmente. Una cosa sola. Lo vuoi?» chiese. Il gladiatore la strinse a sé, sentendo il profumo della sua pelle, di cui non poteva fare a meno. «Più di ogni altra cosa».

La sibilla li attendeva, in silenzio. Era stato sacrificato un vitello al dio Apollo, perché permettesse lo svolgimento del matrimonio nel suo tempio. Apollo era un dio scapolo, che detestava il matrimonio, ma avrebbe accettato di ospitare i due amanti.

Livia intrecciò la sua mano con quella di Damone, in un gesto che pensava di non poter più compiere. Pensi di aver finito il pane, ma altro ne mangerai aveva detto la profezia, e così era stato. «Giurate davanti agli Dei» iniziò la sibilla «Che nessun uomo, mai, potrà scindere il legame che ora sancisco. Livia e Damone, Damone e Livia: insieme, per sempre» aggiunse, e i due amanti si sorrisero. «Giuriamo» dissero, all'unisono. «Ubi ego Gaia, tu Gaius» mormorò Livia, con le lacrime agli occhi, prima che il gladiatore posasse un bacio sulle sue labbra.

Quella notte non importavano i legami, le condizioni sociali. Non importava che era uno schiavo e una donna libera, che non avrebbero mai dovuto neanche sfiorarsi. Quella notte apparteneva a loro, a due amanti che sapevano di dover lottare ancora per il loro amore. Nella cella del tempio che la sibilla gli aveva concesso, si toccarono piano, accarezzandosi, quasi con timidezza, come se non conoscessero già ogni anfratto del corpo dell'altro. Poi la passione prese il sopravvento: diventarono un corpo solo bruciante di passione. «Ti appartengo» le sussurrò Damone, all'orecchio. Livia sospirò per l'orgasmo che sentiva crescere dentro di lei. «T'appartengo. Per sempre» rispose, stringendolo a sé.

Sempiternus

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Mi piaceva il fatto che fosse Livia a chiedere di sposarla. Oltre che per ragioni di libertà, mi piaceva che fosse lei a prendere l'iniziativa.

Le sibille non celebravano matrimoni, ma anche qui mi piaceva invertire l'ordine.

Secunda vigilia: dalle 21 a mezzanotte

Il Leone e la Lupa  #Wattys2016Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora