Capitolo 5.1 - Due occhi blu

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La sveglia sul cellulare suonò troppo presto. Le sei e quarantacinque erano arrivate troppo in fretta e Calen era ancora distrutto e bisognoso di almeno altre quattro ore di sonno ristoratore. Si sentiva un vero straccio, ma non gli si potevano dare tutti i torti visto quello che aveva appena passato.
Con ancora gli occhi chiusi, si sporse verso il comodino e, con gesti precisi e calcolati, spense la sveglia senza selezionare la ripetizione, poi come se niente fosse si rigirò fra le coperte e si addormentò di nuovo.
Sognò di alzarsi, scendere a fare colazione, prepararsi ed incamminarsi per andare a scuola.
Vedeva scorrere le immagini veloci e ininterrotte senza che lui potesse prendere il controllo della situazione. Sulla strada, oltre a persone comunissime, vedeva vagare alcune delle strane creature conosciute a Erim mentre tranquillamente prendevano l'autobus o salivano in macchina per andare a lavorare, il tutto nella normalità più assoluta. Arrivato all'angolo della strada dove solitamente si dava appuntamento con Fran e Samuel, vide comparire persino Cassidy e Scarlett che, come se si conoscessero da una vita, lo salutarono prendendolo sotto braccio.
La cosa raggiunse la follia però, quando varcato il cancello dell'istituto, sentì distintamente il rombo della moto di Chase che faceva il suo ingresso nel cortile. Al posto del biondo quarterback, sotto il casco si nascondeva il viso perfetto di un ragazzo dai capelli neri e con due zaffiri al posto degli occhi. La linea delle labbra carnose era sottile e dura; il naso dritto, piccolo e perfetto e gli occhi, ora severi e impegnati a squadrarlo con gelida indifferenza, erano contornati da folte ciglia scurissime che mettevano ancora più in risalto il mare blu delle sue iridi.
Con un'agilità ed un'eleganza mai viste, il ragazzo scese dalla moto, depositò il casco sotto al sellino e si diresse a passo spedito verso di lui con un ghigno preoccupante. Julian gli si fermò proprio di fronte e una volta che lo ebbe afferrato per il colletto, gli parlò a denti stretti a due millimetri dal suo viso terrorizzato.
«Ciao principessa, spero che tu abbia salutato tutti i tuoi cari perché credimi, non li rivedrai mai più!»
Calen ebbe un sussulto.
Si agitò nel letto sentendo il cuore battere velocissimo. Si impose di svegliarsi in quel preciso istante e, mentre apriva gli occhi completamente sconvolto, si accorse di stare urlando disperato.
Quello era sicuramente il peggiore incubo della sua vita.
Nonna Maggie attirata dalle urla, si precipitò nella sua camera trovando il ragazzo steso di traverso nel letto, con le gambe penzoloni e la testa piegata all'indietro. Altri due centimetri e avrebbe cozzato contro il pavimento.
Maggie rimase interdetta. «Tesoro?» lo chiamò piano.
Calen si tirò a sedere sul materasso a fatica, massaggiandosi poi le tempie per cercare di riprendersi. Alla fine quando si girò verso la nonna, ne notò solo l'espressione severamente preoccupata.
«Ma come dormi? È tutto a posto? Ti ho sentito urlare.» sparò a raffica.
Calen per tutta risposta scosse il capo, dando ad intendere che non fosse successo nulla di grave. Il secondo dopo scivolò fuori dal letto correndo ad abbracciarla forte, depositandole un bacio sulla guancia. «Ti voglio bene. Lo sai? Davvero tanto.»
Margaret rimase per un momento basita chiedendosi che miracolo fosse mai avvenuto durante la notte, poi strinse le braccia intorno al sottile corpicino del nipote, coinvolgendolo in un abbraccio caloroso che sapeva di casa e zucchero. Era da un'infinità di tempo che non sentiva quelle tre semplici parole uscire dalla bocca di Calen. Sapeva perfettamente quanto grande fosse il sentimento che li legava, ma sentirselo dire a voce ogni tanto era molto meglio. Dopo essere rimasti stretti l'uno all'altra per parecchio tempo, il biondo si scostò schioccandole un altro bacio e iniziò a prendere i vestiti per andare a scuola.
«Piccolo, lo sai che ore sono?» chiese la donna con voce dolce.
L'altro scosse la testa afferrando il cellulare. Le nove e quindici.
«Porca bomba!» sbottò iniziando a correre dappertutto, girando come una trottola all'interno della stanza. Non si capacitava di come avesse potuto dormire così tanto.
«Perché non rimani a casa oggi?» propose la nonna «È la prima volta che ti svegli così tardi durante la settimana, si vede che sei stanco. Resta a casa e riposati.»
«Nonna vorrei tanto, ma non posso. Oggi ho un compito in classe di storia e, se lo salto, la Pence mi farà recuperare con un'interrogazione impossibile e non ho davvero tempo anche per quello.» le rispose infilando alla buona gli ultimi libri nello zaino e dirigendosi in bagno.
«A che ora hai il compito?»
«Avve fiefi!» urlò l'altro con lo spazzolino in bocca.
«Alle dieci, caspita, se il nonno fosse stato a casa avrei detto a lui di accompagnarti.»
Calen uscì dal bagno come un fulmine prendendo le scarpe, iniziando ad allacciarle.
«Non c'è problema, prendo l'autobus così arrivo prima e ne approfitto per ripassare un po'.»
«D'accordo, ma fermati almeno a mangiare due biscotti. Non fa bene saltare la colazione.»
Il ragazzo alzò gli occhi al cielo. Possibile che Maggie pensasse sempre e solo al cibo?
«Nonna non ho tempo. Prenderò qualcosa ai distributori quando sono arrivato.» le sorrise rassicurante.
L'anziana sbuffò, ma si dovette arrendere per forza «D'accordo. Ah, prima che mi dimentichi, portati le chiavi di casa perché oggi tuo nonno ha un appuntamento con l'illustratore che si occupa della copertina del suo prossimo libro ed io andrò in palestra con Sonya, cominciamo un nuovo corso di pilates per over sessanta!» trillò entusiasta.
«Che te ne fai della palestra se sei uno splendore e hai già il marito?» la prese in giro con un sorrisetto da canaglia sulle labbra.
L'altra gli mollò uno schiaffetto sulla testa. «Non fare lo scemo, fare attività aiuta a mantenersi giovani sia dentro che fuori!»
«Certo, certo.» continuò a scimmiottarla, un pochino invidioso del fatto che sua nonna, a sessantotto anni, avesse una vita sociale più florida della sua.
Con rapidità il ragazzo prese la tracolla e scese le scale, salutò la nonna, soffiò un bacio alla foto dei suoi genitori ed uscì di casa sperando di riuscire ad arrivare alla fermata dell'autobus in tempo.
Samuel guardava fuori dalla finestra decidendo se fosse il caso o meno di mandare un messaggio al suo migliore amico e chiedergli perché ancora non si fosse fatto vivo. Erano quasi le dieci e di lì a poco sarebbe cominciato il compito di storia. Perderlo sarebbe stata una tragedia. La Pence non aveva mai sopportato gli alunni che restavano a casa durante i test, per questo invece di farne di due tipi diversi, preferiva umiliare con delle interrogazioni impossibili i suoi studenti, fino a raggiungere il suo scopo di piazzare una bella "F" sul registro che non sarebbe mai più stato possibile recuperare. L'amico lo sapeva perfettamente e allora perché non si presentava?
Nella classe tutti erano seduti al loro posto con la testa fissa sul banco, nonostante l'ora fosse praticamente finita. Tutti incollati con gli occhi al libro per il famoso ripasso dei dieci secondi prima.
Ormai stufo di quella tensione Sam prese il cellulare dalla tasca aprendo la conversazione con Calen. Non fece nemmeno in tempo a digitare il messaggio che la porta dell'aula si aprì mostrando quest'ultimo che, trafelato, si mosse verso la cattedra per consegnare all'insegnante di matematica la sua giustificazione per il ritardo. Quando finalmente Calen gli si piazzò davanti, pronto per andare nell'aula della Pence, Samuel lo guardò torvo. «Mi hai fatto venire un colpo.»
L'altro gli sorrise mentre correvano per il corridoio, prendendo posto ai loro banchi, tirando l'astuccio fuori dalla tracolla.
«Scusami, ma stamattina ho deciso di ignorare la sveglia e ho dormito fino a tardi. Ho corso come mai in vita mia per arrivare puntuale, non ci tenevo a fare un'interrogazione con la dittatrice!»
Poi, come se si fosse sentita chiamare in causa, la donna fece la sua comparsa sulla soglia dell'aula zittendo subito il vespaio che si era alzato.
«Tutti al vostro posto!» abbaiò senza aver messo neanche un piede nella stanza.
Lucinda Amelie Michaela Lotondo Pence, meglio conosciuta come la dittatrice, era una donnona sulla sessantina, bassa e rotonda, con i capelli grigio-lavanda cortissimi e due fondi di bottiglia al posto delle lenti che coprivano un paio di occhi piccoli e marroni. Uno spettacolo di novanta chili sempre fasciato in completi elegantissimi e immancabilmente colorati con le tonalità più scure mai create dall'uomo. Era persino incredibilmente coniugata e madre di quattro - poveri - figli. Per lei la disciplina era la sorgente di tutte le cose: niente pantaloni sopra al ginocchio in estate, niente magliette senza maniche o con uno scollo che mostrava le clavicole, niente cibo sul banco, al massimo l'acqua che tanto nessuno beveva perché nelle sue ore non era consentito recarsi alla toilette, niente gomma da masticare fra i denti e addirittura niente astucci. Solo penna, gomma e matita. Aveva una passione per la storia e la filosofia incredibili ed era bravissima nello spiegarle, purtroppo l'unica pecca era la severità smisurata ed il suo senso del dovere e della giustizia così profondo, che le consentiva di essere irreprensibile in ogni cosa che faceva. Secondo molti avrebbe dovuto insegnare nelle caserme militari e non a dei poveri adolescenti liceali.
«Avete esattamente quarantacinque minuti per completare il compito e cinque minuti per ricontrollarlo e consegnarlo.» stava spiegando con la sua voce stridula mentre faceva scorrere i compiti tra i banchi
«Se al termine dell'ora non avrò perfettamente impilati in ordine i vostri compiti sulla cattedra, quelli che mancano non verrò certo a strapparveli di mano, ma sappiate che per me sarà un non classificabile!» tuonò sistemandosi meglio gli occhiali sul naso e gettando un'occhiata intimidatrice verso i suoi alunni, fermandosi poi a fissare il fondo dell'aula.
«Per coloro di voi che questa mattina si sono presentati con la speranza di poter copiare, sappiate che ogni prova ha un ordine diverso delle domande. Quindi signor Levine e signor Cameron non pensateci neanche.»
Quando Samuel si vide arrivare davanti la verifica avrebbe voluto urlare. Non sapeva un accidenti di niente ed il solo pensiero di prendere una "F" anche quella volta lo terrorizzava. Alla sua destra Calen non sembrava altrettanto preoccupato, ma del resto lui era una specie di piccolo genio. Non aveva ancora capito come facesse, ma a lui bastava leggere le cose un paio di volte per memorizzarle perfettamente, in più ricercava tutti i nessi logici fra le cose riuscendo a semplificare i concetti e a renderli in maniera tutta sua.
«Signor Fairman.» chiamò la professoressa dopo aver dato uno sguardo al registro.
«Sì?» rispose l'altro timoroso.
«Sono felice che lei abbia deciso di ripensarci, mi sarebbe dispiaciuto parecchio doverle dare un'insufficienza.»
Calen non rispose, si limitò a sorriderle deglutendo a vuoto, senza nemmeno tentare di spiegare.
Ci credevano tutti che le sarebbe dispiaciuto rovinare la media di Calen, aveva una "A" tonda come una sfera! Forse lui era una di quelle poche persone che potevano rapportarsi con la dittatrice senza uscirne particolarmente ferita. Quello era anche fondamentalmente uno degli altri motivi per cui se la prendevano con lui, ma, pensò Samuel, meglio essere presi di mira per questo che per il fatto di avere gusti diversi.
Non era mai stato facile per Calen vivere bene a scuola. Per un motivo o per un altro, qualcuno aveva sempre una parola o un giudizio cattivo da esprimere nei suoi confronti. Calen solitamente non ci badava troppo, forse perché ormai ci aveva fatto il callo o forse semplicemente perché non avrebbe saputo cosa replicare o come difendersi. Per sua indole non era un tipo a cui piaceva discutere, anche se la discussione riguardava la sua stessa dignità. Se ne stava per i fatti suoi e lasciava correre. Anche in quelle occasioni in cui la situazione degenerava e non si trattava solo di parole, ma anche di gesti. Non aveva mai cercato di farsi valere, né di spiegare il suo punto di vista per far capire a quei decerebrati, con niente di meglio da fare, che chi sceglieva di frequentare e amare erano solo affari suoi e dell'eventuale altro interessato. Samuel veramente non capiva come certe persone potessero accanirsi contro di lui senza alcuno scrupolo e vergogna. Spesso si chiedeva come mai la gente si sentisse in dovere di giudicare e tormentare chi, con il suo essere, non faceva del male a nessuno. Non l'aveva mai capito e probabilmente non l'avrebbe mai fatto. Tutto quello che sapeva era che lui, contrariamente alla massa, aveva imparato a conoscere Calen col tempo. E sempre col tempo aveva sviluppato una sorta di ammirazione mistica nei suoi confronti, oltre che ad un affetto fra amici che si sarebbe potuto paragonare all'affetto per un familiare. Calen era incredibilmente sveglio e intelligente, sincero, solare a modo suo ed estremamente gentile. Quello che però Samuel più gli invidiava era tutta la materia grigia che possedeva. Non solo a livello scolastico, ma in generale nella vita. Era molto più maturo dell'età che aveva e dimostrava una sensibilità ed un acume che molte persone impiegavano anni per sviluppare. Non importava quanto complesso fosse il problema, quanto spinosa fosse la questione o quanto impossibile sembrava l'impresa. Calen avrebbe sempre trovato una soluzione per uscirne con il minor spreco di forze, con i minori danni e il massimo risultato. Quello era anche il motivo per cui sia lui che Fran si rivolgevano a lui per qualsiasi cosa.
Come a rimarcare i suoi pensieri, Sam vide il biondo alzarsi per consegnare la prova ad ancora cinque minuti dal suono della campanella. Calen aveva addosso l'espressione rilassata, serena e soddisfatta di quando sapeva di aver fatto una bella figura. A conferma di ciò si aggiunse anche la soddisfazione negli occhi della Pence che già aveva preso ad esaminare il suo compito.
Samuel sospirò affranto e, con un ultimo sforzo, si decise a completare le ultime due domande a risposta multipla. E proprio prima che la campanella suonasse, consegnò per un pelo il proprio compito, certo di aver appena fatto un altro disastro.
Per fortuna dopo l'esame era iniziato l'intervallo. Né Calen né Samuel avrebbero retto qualcos'altro che non fosse stato una pausa. I due amici si stavano incamminando verso i distributori del secondo piano per prendere da mangiare, lo stomaco macinava dolorosamente a vuoto e intanto chiacchieravano del più e del meno.
«Alla fine hai pensato alla mia offerta?» chiese Samuel, facendo riferimento alla sua proposta di organizzargli la festa di compleanno.
«Sì.» rispose semplicemente l'altro.
Samuel lo guardò storto «Sì ci hai pensato o sì accetti?»
Il biondo scrollò le spalle «Sì ci ho pensato e sì, accetto.»
Samuel si bloccò al centro del corridoio per poi saltare addosso all'amico con un urlo di felicità. «Evvai! Vedrai che non te ne pentirai, ho già un sacco di idee e credimi, questa sarà la più bella festa di compleanno che tu abbia mai avuto!» esultò coinvolgendo Calen nella sua euforia.
«Ma ti avverto.» fece quest'ultimo «Niente strip-club o cose del genere!»
«Non ne avevo intenzione.» sorrise innocente.
«Ho la sensazione di aver appena fatto lo sbaglio più grande della mia vita.» lo prese in giro mentre l'altro gli circondava le spalle con un braccio.
«Non dire sciocchezze, Samuel Bennett non sbaglia mai. Almeno non sulle feste. Bisogna festeggiare in grande i tuoi diciassette anni, sono un evento.»
Calen scosse il capo ridacchiando. Non era ancora sicuro che fosse una buona idea, ma per una volta aveva deciso di tentare e di affidarsi a qualcun altro. Doveva pur decidersi a lasciarsi andare un po'. Sembrava sul serio un vecchio ottantenne in pensione a pensare sempre ai pro e ai contro di ogni cosa. In qualunque modo fosse andata, ne avrebbe conservato il ricordo almeno.
Arrivarono finalmente davanti ai distributori continuando a ridere e a lanciarsi frecciatine nella spensieratezza più totale. Erano così concentrati a scherzare tra di loro che si accorsero del pericolo troppo tardi. Calen aveva allungato una mano verso la fessura per infilare le monete, quando una mano gli colpì con forza il braccio facendogli cadere sul pavimento tutti i soldi.
Un biondo ossigenato tutto muscoli e pochissimo cervello, si avvicinò pericolosamente a lui, mentre una folla abbastanza corposa di studenti accorrevano disponendosi a cerchio pronti a seguire la scena in diretta.
Che divertimento assurdo. Pensò Calen sospirando scocciato.
«Fame piccolo Fairman?» chiese Paul con tono di scherno.
Calen come al solito rimase muto e immobile ad aspettare. Ogni volta che si trovava in quelle situazioni si paralizzava. Entrava completamente nel pallone. Avrebbe benissimo saputo rispondere a tono o dirgli di andarsi a fare un giro, ma come sempre le parole non ne volevano saperne di uscire dalla sua bocca. Era una sorta di ansia da prestazione mista a paura che lo faceva completamente rimanere schiavo del suo carnefice. Col tempo aveva anche capito che forse, ad ogni modo, rimanere in silenzio era la soluzione meno dolorosa.
«Sempre di molte parole vedo. Non parli perché hai paura o perché sei stupido? Non che faccia differenza, in entrambi i casi rimani uno sfigato!» ghignò Paul facendo ridere qualche compagno.
Calen si strinse nelle spalle abbassando il capo diventato rosso. Possibile che non ci fossero insegnanti nelle vicinanze?
In un attimo Paul si avvicinò ancora di più e, una volta afferratolo per il bordo della maglia, gli ordinò di chinarsi a raccogliere tutte le monete sparse sul pavimento.
«Almeno puoi fare una cosa utile all'umanità comprandomi da mangiare. Voglio le patatine, il numero trentaquattro.»
Calen indugiò qualche istante. Gli era già capitato e non solo una volta. Non sapeva neanche quantificare quanti soldi aveva speso per essere lasciato in pace e accontentare le prepotenze di chi credeva fosse divertente spremerlo a quel modo. Lo faceva essenzialmente per non creare ulteriori casini. Gli avrebbe preso da mangiare, Paul si sarebbe allontanato e lui non avrebbe più dovuto pensarci per il resto della giornata. L'equazione era sempre semplice.
Anche in quel caso fece come gli era stato detto, si chinò a raccogliere i suoi soldi sentendosi dare del buono a nulla, dello smidollato e dello sfigato da alcuni compagni del più grande. Normale routine.
Prima di raccogliere l'ultima moneta alzò lo sguardo alla ricerca di Samuel. Anche se sapeva che non avrebbe potuto fare granché, era di conforto avere la certezza che gli fosse accanto. Di solito Sam evitava che situazioni del genere potessero accadere guardandosi bene intorno e accertandosi che non ci fossero quegli imbecilli nei paraggi o dissimulando e portandolo via prima che potesse rimanere invischiato in un qualcosa del genere. Alle volte aveva anche cercato di contrattare con gli aguzzini rischiando la sua stessa pelle. Però, proprio in quel momento, sembrava completamente sparito nel nulla.
Calen ci rimase di sasso.
Spostò varie volte lo sguardo in giro, non credendo alla possibilità che avesse deciso di andarsene lasciandolo lì da solo. Eppure non riuscì a trovarlo.
«Qualche problema Fairman?» lo riprese Paul.
L'altro scosse il capo afferrando il tondino di metallo, sollevandosi poi per dirigersi verso il distributore. Inserì le monete una ad una sentendo lo sguardo di tutti puntato addosso. Era maledettamente umiliante. Le mani tremavano un po' anche per la stizza, ma soprattutto per quella strana sensazione d'ansia che aveva provato quando non aveva visto Samuel nei paraggi. Sentiva un groppo alla gola, ma non erano lacrime. Era qualcosa di diverso, qualcosa che non aveva mai provato prima. Sempre con mani incerte si apprestò a digitare sulla pulsantiera il numero trentaquattro, come gli era stato detto, ma l'immagine di due occhi blu che lo guardavano con disgusto e delusione si fecero largo nella sua mente facendolo bloccare.
Rimase impietrito con una mano a mezz'aria a cercare di capire perché in quel momento il suo cervello avesse deciso di pensare proprio a Julian. Lui non c'entrava assolutamente niente con tutto quello, anzi, non c'entrava proprio niente con lui in tutti i sensi. Eppure nella testa di Calen quello sguardo glaciale era ancora incredibilmente vivido e forte, come se quell'impressione di disagio fosse reale.
Aveva proprio addosso la sensazione di venir osservato di sottecchi, come se Julian fosse nascosto da qualche parte in quella folla di studenti che lo stavano guardando. Si ricordava perfettamente cosa aveva detto di lui e il modo in cui l'aveva screditato senza farsi il minimo scrupolo. "Senza una qualche particolare qualità, inutile" ecco come lo aveva definito. E Calen sapeva perfettamente che, quella, era esattamente l'immagine che tutti avevano di lui. Solo perché non aveva mai sentito il bisogno di parlare e difendersi. Eppure, se mai in quasi diciassette anni di vita gli aveva dato fastidio, in quel misero e insignificante attimo in cui Julian aveva espresso lo stesso giudizio, Calen si era sentito terribilmente offeso e arrabbiato.
Era esattamente la stessa rabbia che sentiva inspiegabilmente avanzare in quel momento, solo perché, nella sua mente, quegli occhi blu non erano ancora spariti. Se Julian avesse saputo quello che faceva, o meglio, che non faceva quando veniva trattato in questo modo, probabilmente gli avrebbe dato del debole e del vigliacco e lui non avrebbe potuto biasimarlo. Non capiva perché gli desse così fastidio sapere che Julian avesse quell'opinione di lui, ma quello che gli faceva salire ancora di più la stizza era il fatto che sapeva di non potergli dare torto. Non aveva mai voluto prendere posizione, non aveva mai voluto fare niente per se stesso e quello era il risultato. Alla fine se doveva incolpare qualcuno per come si erano evolute le cose nel corso degli anni, doveva incolpare solo se stesso. Se a Julian erano bastati cinque minuti per costruirsi quell'opinione di lui, non osava immaginare quello che doveva apparire agli occhi di chi lo aveva visto cedere per anni.
In quel momento non capiva neppure perché si stesse interessando così tanto a cosa avrebbe pensato Julian di lui. Non era neppure lì, anzi, forse se gli andava bene, non lo avrebbe rivisto mai più. Eppure più si sforzava di ricacciare indietro quell'immagine, più questa si imponeva nel suo cervello facendogli perdere completamente la capacità di pensare. Infatti quello che stava per fare non aveva assolutamente senso.
Non aveva senso, ma allo stesso tempo gli sembrava la cosa più giusta che potesse fare. Era una di quelle decisioni istantanee che si prendono quando si è annebbiati dalla foga, una di quelle decisioni non ragionate, ma puramente istintive che portano a fare quello che non ci si aspetterebbe. Con estrema calma Calen riprese a muoversi proprio mentre Paul sbuffava insofferente. Sotto ai suoi occhi che mano a mano si scurivano per la rabbia, il biondo non solo prese qualcosa di diverso da quello che gli era stato chiesto, ma si girò con un sorrisetto strafottente che prima mai si sarebbe sognato di indossare. Guardò Paul negli occhi mentre intascava il resto e faceva per allontanarsi.
«Alla tua età dovresti imparare a prenderti da solo le cose che vuoi.» affermò voltandogli le spalle.
Bastò quella frase per far scatenare il finimondo nel corridoio.
Paul ci vide rosso.
Non riusciva a capacitarsi di quanto era appena successo. Non concepiva come quel moccioso spaurito avesse avuto il coraggio di metterlo in ridicolo davanti a tutti. C'era chi ridacchiava, chi si copriva la bocca spalancata per la sorpresa e chi già si allontanava percependo aria di guai. Tutti sapevano che Paul non era mai stato un tipo riflessivo, ma che agiva sempre d'impulso. E l'unico modo che conosceva per sistemare le cose era la prepotenza. Infatti con un cipiglio minaccioso si era già avvicinato a Calen posandogli una mano sulla spalla per indurlo a voltarsi. «Ti sei appena scavato la fossa, Fairman!» urlò con la mascella serrata e un braccio alzato già pronto a colpirlo.
Calen dovette fare appello a tutta la sua forza di volontà per non scappare e non arretrare. Le avrebbe prese, ne era certo sin da quando aveva aperto bocca e ancora doveva capire perché lo avesse fatto, ma questa volta sarebbe stato orgoglioso del livido che avrebbe sfoggiato.
Proprio mentre la mano di Paul andava a cozzare contro il suo zigomo, dal fondo del corridoio si udì la voce della signora Pence echeggiare furibonda. I pochi rimasti se la filarono immediatamente correndo in direzioni opposte, come uno sciame impazzito e, in tutta quella concitazione, quasi nessuno fece caso al pugno che Calen aveva appena ricevuto.
Paul respirava velocemente ancora in preda all'ira.
Non si rese conto di quello che aveva fatto finché non vide Calen inginocchiato a terra, con le mani premute sulla faccia e del sangue che gli scivolava giù lungo il mento. Velocemente portò di nuovo il braccio lungo il fianco guardandosi intorno preoccupato, ma fu comunque troppo tardi.
«Doherty! Credo proprio che adesso io e te ce ne andiamo in presidenza e facciamo una bella chiacchierata anche col tuo allenatore, che ne dici?» tuonò la Pence trascinando Paul via per un braccio, seria e adirata come nessuno l'aveva mai vista prima.
«Bennett, tu accompagna Fairman in infermeria e assicurati che sia tutto a posto. Voglio essere informata delle sue condizioni prima che lasci l'istituto.» aggiunse precisa e autoritaria, incamminandosi poi verso le scale.
«Certo.» mugugnò questo ancora spaventato.
Era la prima volta che vedeva di persona una cosa del genere.
«Stai bene?» chiese tremante, inginocchiandosi a sua volta per guardarlo in faccia, fissandosi ad osservare il grosso taglio sul labbro inferiore ed il principio di un rigonfiamento dove era stato colpito.
Calen non rispose. Era troppo perso nei suoi pensieri.
Che accidenti ho combinato?
Era proprio quello il motivo per cui non si era mai deciso a prendere posizione. Aveva sempre immaginato che sarebbe andata a finire a quel modo e ora che ne aveva avuto la prova, si sentiva ancora più stupido. Per di più era sicuro che avrebbero sospeso Paul per almeno una settimana e che molto probabilmente lo avrebbero messo in panchina per non aveva idea di quante partite. Aveva appena innescato un bel casino. Se prima si limitavano ad infastidirlo di tanto in tanto, era sicuro che ora lo avrebbero addirittura inseguito per fargliela pagare. Tutta colpa di un attimo in cui aveva creduto di poter davvero cambiare le cose, come se fosse possibile cancellare tutto dall'oggi al domani.
«Andiamo in infermeria, d'accordo? Ti serve del ghiaccio.» riprovò Sam aiutandolo ad alzarsi.
Calen continuava a tacere e a tenere gli occhi puntati sul pavimento. Non disse niente per tutto il tempo in cui Samuel lo aiutava a reggersi in piedi e camminare fino alla porta della saletta gialla.
Era stato uno stupido.
Avrebbe dovuto tenere a freno la lingua, avrebbe dovuto ricordarsi che nel mondo reale le cose non andavano mai come voleva lui.
«Ti fa tanto male? Non riesci nemmeno a parlare? Ti prego, dimmi qualcosa!» insistette l'amico fuori di sé dalla preoccupazione.
«Sto bene.» replicò lui lapidario, staccandosi da Samuel per guardarlo negli occhi.
«Tu piuttosto dov'eri?» chiese con tono forse troppo aggressivo.
«I-io mi sono allontanato per cercare un professore. Volevo che intervenisse qualcuno una volta tanto, non va bene che inizino ad infastidirti anche nei corridoi.» rispose sincero.
Calen aggrottò le sopracciglia sentendo gli occhi inumidirsi. «Non avresti dovuto. Io ti stavo cercando, speravo di trovarti lì pronto a darmi una mano e invece te la sei filata!» lo aggredì.
L'altro sgranò un po' gli occhi non aspettandosi quella risposta. Calen era sempre stato il primo a dirgli di non rischiare mettendosi in mezzo, lui aveva sempre preferito non coinvolgerlo e ora sentirsi accusare in quel modo faceva male.
«No, io non me la sono data a gambe.» rispose anche lui urlandogli in faccia «Sono corso per mezza scuola cercando un professore che potesse fermare Paul, cercando qualcuno che potesse fare qualcosa per te!»
«Oh, grazie tante. Così ora sarà ancora peggio!» calde lacrime iniziarono a rigargli il viso mentre iniziava a tremare scosso dai singhiozzi. «Adesso l'unica cosa che faranno sarà sospendere Paul e quello che otterrò io sarà venire perseguitato più di prima.»
Si accasciò al suolo stringendo le gambe al petto circondandole con le braccia, mentre si lasciava andare ad un pianto incontrollato.
Samuel allargò le braccia non sapendo più cosa fare. «Come potevo avere idea che quello fosse completamente spostato? Calen tu non hai fatto niente di male, anzi se venisse anche espulso se lo meriterebbe! Meriterebbe una denuncia.»
«Odio tutto questo.»
Samuel si accosciò di fronte a lui accarezzandogli la schiena con movimenti lenti, fino a prenderlo fra le braccia e cullarlo dolcemente cercando di farlo calmare.
«Lo so.»
Calen si aggrappò alla stoffa grigia della sua maglia tirando su col naso. «Mi dispiace.» sussurrò sinceramente dispiaciuto, soffocando le parole contro il tessuto leggero.
«Non ci pensare.» fece l'altro aiutandolo a rialzarsi. «Vieni, entriamo.»

RIFTWALKERS I - Il Grimorio Di Diamante - [Viaggio Tra Due Mondi]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora