Capitolo IX

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L'enorme sala, la folla di persone ad osservarli, i soldati che li guardavano sottecchi. Era tutto sfocato, eppure così chiaro. E faceva così male.
Il viso di suo padre occupava tutto il campo visivo. La pelle chiara, solcata da rughe vistose. Gli occhi neri, carichi di tristezza, erano piantati su di lei, e la bocca si apriva e si richiudeva.
Ne uscivano sempre le stesse parole.

«Lo faccio per la nostra famiglia, Nanako. Lo faccio per noi» ripeteva all'infinito.

«Lo faccio per noi»

Quella frase le rimbombava nella testa, e non accennava a voler smettere.
Poi suo padre scomparve, lasciando posto al viso sorridente di un uomo, basso e tarchiato, che la osservava con uno sguardo di compassione.

Si svegliò di soprassalto. Intorno a lei, la tenda era immersa nel buio.
Era seduta su un baule, le spalle appoggiate ad un mobile. Sulle ginocchia, la lama della sua katana.
"Stupida, stupida, stupida". Doveva essersi assopita.
Si alzò di scatto, rinfoderando la spada, e si precipitò verso il padiglione della tenda in cui si trovava l'Imperatrice, sollevando silenziosamente un lembo di tessuto.
Shizumi dormiva beatamente nel lettino da campo, il torace che si alzava e si abbassava regolarmente sotto le coperte.
Tirò un sospiro di sollievo a quella vista.

Attraversò nuovamente la tenda, ritornando al suo posto. Fuori, le sagome in controluce delle due guardie dell'Ordine.
Si guardò intorno per un'ultima volta. Era tutto a posto. Fortunatamente non era successo nulla.

Sedette di nuovo sul baule, sfoderando la katana e appoggiandola sulle ginocchia. Una cosa del genere non sarebbe più successa. Non doveva più succedere.
Recuperò da terra la piccola pietra levigata, riprendendo a passarla delicatamente sul filo della lama avanti e indietro, in un moto continuo.Il rumore stridulo che ne usciva la rilassò. Era stata abituata a quel suono fin da bambina, e aveva lo strano potere di tranquillizzarla. Di farla sentire, in un certo senso, a casa.

"La tua casa è la tua spada" le aveva ripetuto Uchida fino allo sfinimento. Ma lei non ci aveva mai creduto per davvero.
La sua casa era a Shinobi, una villa nel distretto meridionale della città. La sua famiglia viveva lì. Non ci tornava da anni.
I suoi fratelli erano grandi, ormai. Dovevano aver raggiunto e superato i dodici anni, età in cui lei era stata arruolata. Non li aveva più visti da allora. Da quella fatidica sera in cui suo padre l'aveva offerta come tributo per ricevere la cittadinanza, non aveva più visto la sua famiglia.
Sì, non si era arruolata per sua scelta.

La sua famiglia era giunta a Shinobi insieme ad un gruppo di fuggitivi delle terre occidentali. Da cosa scappavano non l'aveva mai saputo. Il periodo coincideva con la caduta del Grande Impero, ma suo padre non le aveva mai rivelato il motivo della fuga.
Il loro nobile lignaggio gli aveva fruttato un incontro con lo Shogun, che aveva acconsentito a concedergli la cittadinanza, e dunque la protezione, se avessero offerto un figlio come tributo.

"Un'antica usanza", aveva detto Uchida. I suoi fratelli, Feanor e Sasuke, erano ancora troppo piccoli, poco più che neonati all'epoca, per servire sotto le armi.
Lei invece, dall'alto dei suoi dodici anni, era stata considerata idonea.
Non aveva pianto durante la separazione. Non aveva versato nemmeno una lacrima. Sapeva che fosse un sacrificio necessario per il bene della sua famiglia. Non c'era stato alcun bisogno di piangere.
Forse per quella dimostrazione di coraggio, forse per un gesto di compassione, o forse per un motivo che non avrebbe mai conosciuto ma, pochi giorni dopo, Uchida la prese con sé ed iniziò ad addestrarla personalmente. Ma, soprattutto, per anni la curò come fosse figlia sua.

La spada che in quel momento era intenta ad affilare era tutto ciò che ancora la collegava con la sua famiglia. Gliel'aveva regalata suo padre, tramite Uchida, per i suoi sedici anni.
Le era stata consegnata insieme ad un biglietto. "Quello che hai fatto per noi non è stato dimenticato. Ti vogliamo bene" recitava soltanto.

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