Capitolo VII

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L'odore del mare, il sapore dell'acqua salmastra, lo scrosciare delle onde... erano come vecchi amici abbandonati per troppo tempo, ma che adesso aveva ritrovato.
Non pensava alla battaglia imminente, e a tutte le vite che avrebbe stroncato. Non pensava alla morte e la distruzione che stava per seminare. Si beava semplicemente di quella sensazione, che per troppo tempo non aveva provato.

Era da quando suo marito Torsthein aveva deciso di smetterla con le razzie estive per darsi al commercio, quattro anni prima, che non aveva più provato l'ebbrezza del viaggio in nave.
E le mancava.
Ma, ciononostante, si ricordava nel dettaglio come fare per condurre uno sbarco in territorio nemico. Nessuno lo sapeva meglio di lei.

«Siamo nel fiordo» disse Gudmundur, avvicinandosi silenziosamente.

«Questo posso capirlo anche da sola, idiota» rispose stizzita «e adesso levati dai piedi. Lasciami sola»

Il soldato annuì, esibendosi in un breve inchino. E poi, veloce come era arrivato, così si allontanò.
Lei spaziò con lo sguardo tutt'intorno a sé: a nord e a sud, le pareti calcaree degli alti monti marittimi che davano vita a quell'insenatura, tanto aguzzi e poco adatti alla coltivazione quanto disabitati. Nessuno ci viveva.
Ma un ricettacolo di piccole luci, a meno di un miglio di fronte a lei, dimostrava che quel posto non era poi così privo di abitanti.
Vehya dormiva, ignara del flagello che stava per abbattersi su di essa.

Lanciò uno sguardo alla sua destra, e poi alla sua sinistra, ma la vista era sempre la stessa: navi lunghe e scure, che navigavano a vele ammainate e spinte dalla forza dei remi, scivolando silenziosamente sulle acque del mare.
Nessuno fiatava, nessuno osava produrre alcun rumore. Nessuno voleva incorrere nell'ira dello Jarl Frejya, se l'attacco a sorpresa fosse saltato per una simile svista.
Tutti quei soldati la ammiravano, ma al tempo stesso la temevano. E lei lo sapeva benissimo.

Tenendosi in equilibro sulla testa oblunga del drakkar, si voltò verso il centro della nave, passando lo sguardo lungo gli alloggiamenti dei rematori. Tutti facevano caso al suo sguardo, ma nessuno osava sostenerlo. Nemmeno Gudmundur, che se ne stava a prua a sistemare il suo equipaggiamento.
I suoi denti bianchi luccicarono sotto il riflesso della luna piena, mentre lei sorrideva maliziosamente.
Si voltò di nuovo, guardando verso est.

Mancava ormai meno di un miglio dalla sottile lingua di sabbia e ciottoli che componeva la spiaggia.
Nulla si muoveva. Ancora non erano stati scoperti.Era comprensibile, dato che lo Jarldom di Vehya era in pace.
O almeno, lo credeva.

Erano ormai ad un paio di tiri d'arco dalla costa, quando finalmente un corno suonò in lontananza, e tante piccole figure iniziarono ad affollarsi lungo la battigia.
Si beò di quella vista. Gli attimi che precedono la battaglia. Goduria pura.
Quello era il momento in cui gli uomini semplici provavano molte emozioni, dalla paura alla determinazione di tornare a casa. Ma lei non provò nessuna di quelle sensazioni. No, lei non era come gli altri. L'euforia iniziò a crescere, mentre iniziava a sentirsi felice, e viva. Viva come mai lo era stata.
Gli occhi si spalancarono sotto l'elmo di ferro, mentre le labbra si fissavano in un sorriso.

«Lance! Scudi!» sbraitò, girandosi nuovamente verso i suoi uomini.

Un servo gli recò le sue armi, e tutti i soldati che non erano impegnati a remare si alzarono in piedi osservandola con timore.
Probabilmente si aspettavano un discorso di incoraggiamento. Ma lei non era quel genere di condottiero.

«Skoll!» urlò con tutto il fiato che aveva in corpo.

«Skollripeterono in coro tutti gli uomini sulla sua nave.

«Skooooooollurlò di nuovo, sollevando al cielo il braccio armato di lancia.

«Skoll! Skoll! Skollcantilenarono nuovamente i suoi uomini.

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