Capitolo 11.

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Alle 18 e qualche minuto la vidi davanti al muretto ad aspettarmi, così accesi la macchina ed uscii dal parcheggio fermandomi a pochi passi da lei.

Mi guardava ma non si decideva a muovere un piede, così capii che lei immaginava sarei stato io a scendere da lì. Abbassai il finestrino e le feci capire a parole che non era così.
Dopo aver fatto un po' di storie si decise a salire in macchina, invadendo l'abitacolo del suo bellissimo profumo. Giurai di non lavare più l'interno dell'auto fino a quando non avrei smesso di sentire quell'odore che tanto mi piaceva, e sicuro che ne sarebbe passata di acqua sotto i ponti prima che ciò accadesse.
«Se non hai intenzione di mettere la cintura puoi pure scendere.» le dissi. Non volevo realmente che se ne andasse, ma volevo che mettesse la cintura. Non che le avrebbe salvato la vita al cento percento o che io avrei fatto sicuro un incidente, ma eravamo pur sempre su un'auto e per la strada ne avremmo incrociate altre migliaia, non eravamo di certo al sicuro. L'idea di poterla perdere un'altra volta mi incuteva timore, per cui volevo saperla al sicuro per quel minimo che potevo permettermi.

«Non mi sembra che tu la abbia.» disse dopo aver dato un'occhiata alla mia posizione. E aveva ragione, ma io ero io, lei era lei e veniva prima di tutto.

«Sono responsabile di me stesso, non degli altri, quindi o la metti o scendi.» risultai duro, ma era necessario.

«Ok, ok.» si arrese. «Dove andiamo?»

«Non si possono fare ovunque certe cose.» la presi in giro. E mi voltai dall'altra parte per non riderle in faccia, mantenendo però lo sguardo sulla strada trafficata.

«Forse hai frainteso la mia proposta di ieri.»

«Beh.. Ormai sei nella mia auto, non puoi sfuggirmi.» continuai, finendo per accarezzarle una coscia, giusto per fare scena.
La stavo terrorizzando.

Mi fermai vicino alla spiaggia. Lei si tolse la cintura di sicurezza e fece per aprire la portiera e scappare, ma purtroppo per lei l'avevo bloccata. Non volevo mandarla via, ma nemmeno farle del male come lei credeva.

«Hai davvero paura di me?» liberai la risata che avevo trattenuto per tutto il breve tragitto «Andiamo... stavo scherzando, siamo qui solo per parlare.» la rassicurai.
Ogni volta mi aspettavo un suo colpo al mio punto più debole dato i ricordi fissi delle sue lezioni di autodifesa, e invece sembrava non fosse in grado di metterli in atto con me. Mi ritenevo fortunato.

«Perché proprio qui?»

«Perché non voglio che ci veda nessuno. E poi... perché so quanto ti piace questo posto.» quel pezzo di spiaggia era il suo luogo, che poi era diventato il nostro. Uno dei nostri. Avevo seguito ancora i consigli di mia sorella, e sperai tanto che quel posto le smuovesse qualcosa.

«Come? Come fai a...»

«So più di quel che immagini.» la interruppi «Forse so più io di te che te stessa.»

«Impossibile, sarai anche uno stalker, ma non saprai tutto di me.»

«Non sono uno stalker.» risi ancora.

«E' ciò che sembri.»

«Si, è vero.. Ma non lo sono.»

«Allora... Dimmi il tuo cognome.» voleva già sapere troppo.

«Non te lo dirò, dopo correresti a denunciarmi.» dissi ovvio, ma in realtà sapevo non lo avrebbe mai fatto. Le interessavo. Non so da che punto ma le interessavo.

«Mmh... Ok» sospirò «Allora dimmi, conosci la mia famiglia?»

«Potrebbe essere.» feci il vago. La conoscevo eccome. «Come sai il mio nome?» bramavo di sapere se avesse avuto un minimo di ricordo o altro.

«E' stata mia madre.»

«Non capisco.» ero parecchio confuso. Mi minaccia e poi parlava alla figlia di me? Non quadrava per nulla quella storia. E allora lei mi raccontò di come sua madre per puro caso si fosse trovata ad aprir bocca. Tutta colpa di Alisha e la sua lingua lunga. «Sai che è un bel guaio?» dissi appena terminò.

«Adesso sono io che non capisco.»

«Più persone ci vedono insieme peggio è.»

«Continuo a non capire.»

«Te lo spiegherò quando lo riterrò opportuno.» Non volevo dirle troppo. Forse era anchetanto quello che avevo rivelato. E poi la realtà era che volevo tirarla per le lunghe, in modo da poter passare del tempo con lei, da soli, nel nostro posto preferito.

E poi il suo telefono prese a suonare, e la nostra serata finì dopo la sua breve chiacchierata con chiunque fosse all'altro capo del telefono.

«Devi portarmi a casa prima delle 19.20» se ne uscì così.

«Non sono il tuo tassista...» la guardai «Ma lo farò.»

«Ho capito che stasera non risponderai alle mie infinite domande, anche perché non abbiamo tempo, ma almeno rispondi a questa: perché non vuoi che io ti tocchi quando tu invece lo fai con me?»

Domanda di riserva, dolcezza? «Perché non riuscirei a fermarmi.» ecco, avevo parlato troppo.
Come spiegarle che lei era pericolosa per me? Che se solo mi sfiorava io avrei mandato il mondo a puttane? Come spiegarle tutto l'inferno che avevo dentro? Le paure, le insicurezze... Non riuscivo a spiegarle nemmeno a me stesso, figuriamoci a lei.

«In che senso?»

«Metti la cintura.»

«Perché non rispondi mai?» era arrabbiata, e si arrabbiò ancora di più quando la ignorai.

Arrivammo davanti casa sua, e pregai non sbucasse fuori quell'arpia di sua madre. Uscì dall'auto sbattendo la portiera, arrabbiata e delusa. Ed io mi trattenni dal non imprecare. Respirai ed abbassai il finestrino.

«Emily.» la chiamai sporgendomi leggermente.

«Cosa?»

«Ci incontreremo di nuovo, ti darò altre risposte.»

«Non ci credo molto.»

«Parker.» le diedi quello che era un grande indizio per lei. Doveva solo riflettere e avrebbe capito un paio di cose.

«Che significa?»

«Il mio cognome è Parker.»
La vidi sbattere più volte gli occhi.
«So che non mi denuncerai.» aggiunsi prima di scappare via, lasciandola lì con un mare di sorpresa dentro.
Avevo capito come sconfiggere il mostro senza invadere il suo territorio.

Quegli occhi verdi come la speranzaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora