Capitolo 14.

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Quando il mondo dice, "Rinuncia", la speranza sussurra, "Prova ancora una volta."

[...hai rabbia dentro di te...]

Questa pezzetto di frase mi rimbombava nelle orecchie, lo faceva da ore. Lei aveva ragione, ero pieno di rabbia dentro. Rabbia perché non riuscivo a schioccare le dita e tornare indietro nel tempo, a quando io e lei eravamo una coppia felice. Era solo un desiderio che per il momento restava nel cassetto, e chissà per quanto tempo ancora doveva starci chiuso lì dentro.

E così quella notte decisi di scusarmi, di chiederle perdono, e darle anche anche qualche risposta con un messaggio. Non potevo passare la notte ad occhi aperti con il bruciore nel petto per il mio pessimo modo di fare.

Ma finì che lei mi ignorò ed io quel bruciore non lo mandai più via. La incontravo al solito semaforo. Fingevo di essere tranquillo e rilassato ai suoi occhi, e invece dentro avevo il caos più assurdo. Stavo soffrendo come un animale al patibolo, la sua assenza mi lacerava come non mai.

Era la vigilia di natale, ed ero sempre più convinto di passare quelle feste nel modo peggiore di sempre. Triste, malinconico e dolorante.

Quell'idiota di McColle mi ordinò di andare a prendere il suo solito caffè. Un giorno o l'altro glielo avrei affogato in quel caffè. Tra tutti i colleghi con cui avevo lavorato fino a quel momento lui era il più odioso. Mi comandava come voleva, e lo odiavo particolarmente.

Sbuffando andai al bar, e mi fermai ancora prima di raggiungere l'entrate. Lei era seduta fuori, con un bicchiere XL pieno di caffè. Stava male, era evidente, e tutto questo mi feriva ancora di più.

Mi fermai ad osservarla, e finii per chiamare il suo nome. Alzò lo sguardo e mi sembrò di vedere una scintilla di gioia nei suoi occhi.

«Cosa ci fai qui?» chiese con voce debole. Stava realmente male, e le sue occhiaie coperte dal trucco ma ancora un po' evidenti erano la prova delle sue notti insonni.

«Dovrei prendere un caffè per il mio collega ma... visto che sei qui posso parlarti?»

«Prego.» mi fece cenno di dar sfogo alle mie corde vocali.

«Vieni con me.» le porsi la mano, e dopo aver esitato qualche secondo la afferrò. Era fredda, ghiacciata. Bevve l'ultimo sorso di caffè e gettò il bicchiere in un cestino. La portai nel, ormai nostro, angolo dietro al bar. La feci mettere con le spalle contro il muro e le afferrai anche l'altra mano. «Sei fredda.» confermai mentre provavo a riscaldarle tra le mie.

Lei non rispose, ma non stacco il suo guardo dal mio viso, a differenza mia che non sapevo dove guardare. Non ero decisamente a mio agio, ma volevo giocarmi un'altra carta, sperando di passare il natale con lei nella mia vita. Impresa un po' ardua, ma valeva la pena tentare.

«So che stai soffrendo, e anche se non sembra lo sto facendo anche io.» cominciai «So anche di averti detto che avrei cercato di non metterti fretta.» dissi riferendomi al messaggio di scuse che le avevo inviato «Ma non ci riesco. Non riesco a starti lontano e non riesco a sopportare tutto questo. Ti prego perdonami, fallo ora. Non posso continuare così.» quasi ero sul punto di piangere, ma non lo feci per orgoglio.

«Perché dovrei farlo?» cercò di fingersi forte, ma in quella situazione era debole, tanto quanto me.

«Per farmi stare bene e per far stare bene te stessa.» Non c'erano altri motivi, il principale era quello.

«Io sto bene così.» Mentiva, eccome se mentiva.

«Non è vero. Tu non stai bene. Posso vederlo nei tuoi occhi, nel tuo viso. Tu stai morendo dentro.» la misi a nudo «Perdonami, ti supplico.»

«Va bene, ti perdono.» disse lasciandomi stupito. Pensavo quasi di aver capito male, e invece era tutto vero.

La abbracciai. E quando lei ricambiò il gesto la strinsi forte forte. Avrei voluto non lasciarla andare via mai più.

«Stasera ti andrebbe di stare con me?» le chiesi tenendola ancora tra le mie braccia.

«E' la vigilia, non posso.» disse dispiaciuta.

«Ti prego, so che non lavori, sta con me per favore.» la pregai. Volevo recuperare il tempo sprecato di quei due giorni passati da poco.

«Ho una cena con i miei parenti, non posso non andare.»

E aveva pure le sue ragioni: chi ero io per impedirle di stare con la famiglia? Nessuno. Ma la volevo con me. La volevo per me.

Mi allontanai di poco, e guardandola negli occhi glielo chiesi ancora una volta. «Ti prego Emily, ho bisogno di te, giuro che non farò più l'idiota, ti dirò tutto. Non in una volta ma lo farò, cercherò di non evitare più le tue domande. Ma ti prego, inventa una scusa e sta' con me 'stasera, ne ho davvero bisogno.» Le lacrime minacciavano di strabordare dalle palpebre, ed io mi imponevo di cacciarle dentro.

«Va bene, starò con te.» le sentii dire.

La strinsi a me ancora una volta prima di trascinarla per tornare a lavoro, ma lei mi fermò ricordandomi di prendere il caffè per l'idiota. Ma fanculo McCole, il caffè poteva andare a prenderselo con le sue gambe se proprio ci teneva. 

Quegli occhi verdi come la speranzaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora