Certe volte me ne sto sdraiata sul divano, con un libro appoggiato sulla pancia, a pensare. E in quei momenti mi rendo conto di quanto la vita non aspetti nessuno. Di quanto i piccoli e grandi problemi che ci affliggono siano irrilevanti nello scorrere dei giorni. La giostra del tempo non si ferma solo perché noi vorremmo trovare il pulsante per farla smettere di girare, anche solo per un attimo.
E quello che più ti lacera è la presa di coscienza che, attorno a te, le persone continuano a muoversi, al passo giusto, al ritmo che le lancette dell’orologio battono, camminando sui nastri della quotidianità che conoscono e che hanno, con fatica, costruito.
Mentre tu te ne stai fermo, nel piccolo buco che il peso della tua inadeguatezza ha creato, osservandoli. E la tua mente non lavora. Il tuo corpo non collabora. La tua anima non respira più come tu vorresti. Il tuo cuore batte al tempo sbagliato. La tua voce non si sente, perché il frastuono del mondo è troppo forte, e il soffio del tuo grido di aiuto, troppo silenzioso e incomprensibile.
E allora resti immobile, sentendo un male dentro che cresce, vedendo i treni di quelli che ami, correre lungo i loro binari, e gli occhi di chi ha vissuto accanto a te voltarsi indietro ogni tanto per guardarti con aria interrogativa, senza capire perché il tuo vagone si è fermato.
Il mio flusso di riflessione viene interrotto dal suono del campanello della porta. Sospiro grata e contraggo i muscoli, sollevandomi dalla fossetta che il mio corpo ha creato sul divano e dirigendomi verso la porta.
Aprendola vengo salutata dagli occhi azzurri e consapevoli di un amico che, proseguendo sulle rotaie della sua vita, non ha capito perché io abbia smesso di viaggiare.
“Oh, ciao Leo.”
“Posso entrare?” domanda lui con aria seria.
“Certo, vieni.”
La mia voce è incerta e, aprendo di più l’entrata per fargli spazio, mi chiedo se voglio davvero parlare con lui.
Il mio amico si fa strada nel mio appartamento senza ostacoli e poi, in silenzio, si siede sul divano.
Da quell’istante si crea una strana atmosfera: tesa e inusuale per me e Leo.
“Allora, che succede?” dico, tentando di rompere un ghiaccio che non so come si sia formato.
Lui si sfrega i palmi l’uno contro l’altro e appoggia i gomiti sopra le ginocchia, cercando le parole giuste, ma dalla sua bocca escono solo una serie strana di formalità che appesantiscono ancora di più l’aria.
Leo continua ad evitare il mio viso e a far ruotare la testa, fingendo di osservare gli oggetti attorno a noi, come se questa casa gli fosse estranea.
Tace.
“Leo?” lo richiamo all’attenzione e lui si volta verso di me.
“Mmm?”
“Che sei venuto a fare qui?”
“Oh, scusa, ti ho disturbato? Non ci ho pensato. Io...” accenna ad alzarsi in piedi.
“Leo finiscila! Perché ti comporti così? Perché sei così teso?”
“Ok, hai ragione. Non so di preciso perché sono qui. È solo che io...ecco insomma....” balbetta, cercando la frase giusta e, dopo vari tentativi, sembra trovare il coraggio di buttare fuori il peso che lo schiaccia:
“Mi dispiace per ieri sera.”
Io lo fisso sbigottita e confusa: non sono sicura di sapere se si sta scusando per quello che mi ha detto o per altro, ma Leo raramente si scusa, anche quando ha torto; quando lo fa in genere si tratta di un problema che lui considera grave e questa cosa manda in cortocircuito i miei sistemi di difesa.
“Per cosa?”
“Per quello che ti ho detto. Sì, insomma, per averti accusata di avere troppi argomenti tabù” mi spiega guardandomi negli occhi; il mio disagio si manifesta in un insistente tic di ostinata tortura dell’unghia del pollice. No, non la mangio: io la mordicchio fino allo sfinimento; compio un’opera di assottigliamento per usura e la cosa mi rilassa molto più di quanto un morso netto potrebbe mai fare.
“E’ solo che certe volte è frustrante: basta una parola sbagliata e tu scatti.” continua, nella speranza di ricevere un segno da me.
Ma io mi sento improvvisamente inadeguata e mi vergogno per averlo costretto ad arrivare a questo punto: perché avrei dovuto aprirmi con lui come ho cercato di fare con Bet e Jules. Ma la cruda verità è che di Leo io avevo paura. E imbarazzo. Profondo e semplice imbarazzo.
Il mio amico è una persona pratica: non si sofferma su lunghe introspezioni logoranti, non l’ha mai fatto. Il ruolo dell’analisi è sempre spettato a me; io sega-mentalizzavo, lui ideava il piano d’attacco.
Ora: è risaputo che, quando si tratta di problemi degli altri, siamo tutti dei gran fenomeni. Parliamo con cognizione di causa, usiamo un occhio critico e razionale, diamo consigli ponderati e su misura per l’amico di turno: è una scienza collaudata e lo scoprirci così maturi e così arguti e sensibili ci inorgoglisce in modo schifoso.
Ma siamo dei falsi smisurati: o meglio, il consiglio lo diamo sempre col cuore ma, e non provate neppure a negarlo, usiamo costantemente due pesi e due misure quando poi si tratta di noi.
Tanto per cominciare, diveniamo dei sottosviluppati mentali al punto che non siamo più neppure in grado di prendere le decisioni più scontate; poi, allorché ci trovassimo ad affrontare un evento simile a quello per cui abbiamo dato un suggerimento ad altri in passato, d’un tratto, chissà perché, quello stesso consiglio per noi “non andrà bene”.
E, infine, chicca di superlativa dimostrazione di errata percezione, c’è la drammatizzazione; l’incremento del vittimismo e della gravità: noi soffriamo e ci torturiamo molto di più perché, ovviamente, il nostro problema è molto più grave. Dunque, siamo ampiamente legittimati a gongolarci nell’autocommiserazione e non ci è più possibile usare i due neuroni che abbiamo per razionalizzare.
Sto generalizzando? Sì. Sto attribuendo a tutti l’atteggiamento di pochi? Forse. Sono più che certa che, in qualche misura, questa teoria si applichi a chiunque? Assolutamente sì.
Capirete, di conseguenza che, quando la consigliera ero io e Leo era il soggetto con quesito a cui trovare la risposta, la mia analisi dei fatti era puntuale e profonda: e lui agiva di conseguenza. Processo rapido e, per me, anche indolore, direi.
Ma, con l’inversione di ruoli, si è invertita anche la mia capacità oratoria e, piuttosto di risultare patetica ai suoi occhi, ho taciuto.
Sì, è vero, ho sperato di farla franca e che la sua sensibilità da mandria di gnù impazzita gli impedisse di percepire la realtà dei fatti: beh, ho fallito e il mio amico è più scaltro del previsto.
Mi alzo dalla mia posizione sulla poltrona e mi dirigo verso la cucina, senza proferire risposta.
“Med...” si lamenta lui, vedendo la mia reazione.
“Leo, non fa niente, davvero. Tranquillo. Va tutto bene. Io sto bene.” ribatto dandogli le spalle.
“No Med, non va tutto bene. Io sono stato sgarbato ma, porca vacca, non riesco più a capirti.”
“Che vorresti dire?” chiedo indignata, ma in realtà so da dove vengono le sue parole, e non lo posso biasimare. Io sono cambiata negli ultimi mesi, e non certo in meglio.
“Che non so più chi sei. Non ti capisco. Non capisco come ci si deve comportare con te. Non so se sei diventata una stronza a cui non frega più nulla dei suoi amici, o se...se....vedi? Non ho neppure un’alternativa. Non so più nulla.”
“Va tutto bene, è solo un periodo un po’ così. Ho avuto da fare, non mi sono sentita bene e..” cerco di giustificarmi io, accampando scuse banali.
“E cosa, Med? Sono mesi che vai avanti con queste cazzate. Sempre e solo scuse. Quando ti fai vedere sembra che non ti importi più di nulla. Ed è evidente che non te ne fotte niente se sei con noi oppure no!” mi ferma lui, alzando la voce e appoggiando entrambe le mani sul bancone della cucina.
“Leo, non è come pensi.”
“E allora dimmelo tu com’è! Dimmi che ti passa per la testa, Med! Quando è successo che hai smesso di fidarti di me? Non mi parli più. Perché non mi racconti più della tua vita? Che cosa è cambiato?” incalza lui, cercando di spingermi ad aprirmi.
Ed è in quel preciso istante che realizzo che i miei amici non hanno capito. Non hanno visto. Non hanno percepito che stavo sprofondando in qualcosa che, ancora oggi, non so classificare. E quello che più mi spiazza è che non so se è colpa mia o loro. Non so se mi sono inconsciamente chiusa troppo, bloccando i cancelli della mia mente e del mio cuore ai miei amici, o se sono stati loro troppo ciechi per notare cosa stava succedendo.
No, non è vero: so che sono entrambe le opzioni. Le cose si fanno in due: io ho fatto il riccio e loro hanno evitato di andare in profondità. Hanno evitato: però ora Leo ci sta andando in profondità.
“Ti sbagli, io non ho mai smesso di fidarmi di te. Insomma, sei il mio migliore amico!”
“Oh, alla faccia del migliore amico!” ribatte lui, innervosito. “Così migliore che non sa nemmeno che diavolo è successo nella tua vita negli ultimi sei mesi.”
Io abbasso lo sguardo, colpevole.
“Parlami cazzo. Rispondimi. Io so di non avere un carattere facile, di non essere l’amico affettuoso o che se ne esce con frasi poetiche e perle di saggezza profonde. Ma tu sai come parlo. Tu sai che nelle mie risposte scherzose cerco sempre di darti una mano.” mi dice stanco e arreso.
“Non so cosa vuoi sentirti dire...”
“Voglio sapere che cosa ti è successo, perché questa nuova versione di te non la capisco, e, ad essere sincero, non mi piace affatto.” sentenzia lui, spazientito.
Io alzo il viso di scatto alle sue parole e realizzo che sta mollando. Sta dicendo che non ha più intenzione di provare a capirmi, che non ne può più e che rinuncia. Sta dando voce alla mia più grossa paura: quella di perdere i miei amici per quello che mi sta succedendo.
“Dici sul serio?” mormoro timorosa.
“Sì, Med, dico sul serio. Io ci ho provato in tutti i modi, te lo giuro. Ho provato a mandare giù la rabbia che sentivo salire ogni volta che inventavi una balla per non uscire. Ho cercato di non volerti prendere a calci tutte le volte che ti facevi vedere e che ponevi veti su ogni conversazione. Ti assicuro che mi sono sforzato di accettare questa nuova Med; che ho detto a me stesso che mi sbagliavo. Ma la verità dei fatti è che tu mi hai allontanato e io sono stanco di fingere che tutto vada bene, che tu sia la stessa persona di un anno fa.”
Le sue parole sono pungenti; sono esattamente le parole che ho temuto di sentirmi dire per mesi e che sapevo sarebbero prima o poi arrivate. I suoi occhi mi fissano potenti, mentre attende che io dia una risposta a tutte le sue domande: scrutando dentro quegli occhi chiari sento la rabbia salirmi al cervello.
“Quindi tutte le colpe sono mie?” e la mia accusa sembra stupirlo terribilmente.
“Che vorresti dire?”
“Ti sei accorto che ho qualcosa che non va, giusto? E allora perché non hai fatto nulla? Sono la tua migliore amica, eppure non mi sembra che il mio telefono abbia squillato miliardi di volte e che il mio amico abbia cercato di capire che stava succedendo...”
Dio, io non sono capace di chiedere aiuto, e questa è una mia colpa. Ma lui lo dovrebbe sapere: eppure è qui a farmi il processo, dandosi piena assoluzione e condannando me. Visto? Sto facendo la vittima. E anche lui. Due pesi, due misure: tutti vittime e nessun carnefice.
“Se avevi bisogno di me, perché non l’hai detto?”
“Perché non dovrei avere necessità di dirtelo, Leo...”
“Io non leggo nel pensiero, Med.”
“Bet e Jules non hanno avuto bisogno che glielo dicessi.” accuso senza riflettere e poi mi porto una mano sulla bocca, sconvolta dal fatto che quelle parole siano uscite proprio dalle mie labbra: lo sguardo di dolore che scoppia dentro ai suoi occhi è qualcosa che non penso riuscirò mai a scordare.
“Oddio, mi dispiace! Non... non volevo dirlo, davvero.”
“Beh, se è quello che pensi, sì.”
“Non lo è. Dio, Leo...” sussurro soffocata dal senso di colpa e, d’istinto, mi avvicino a lui e porto le mani attorno al suo collo, abbracciandolo.
Premessa: Leo non è affatto una persona fisica. È assolutamente allergico alle dimostrazioni di affetto tra amici che includano il contatto e, in genere, la sua frase preferita è Tirami giù le mani!, che non vuol dire un cazzo, ma che lui non cambia da anni.
Non riesco a credere di avergli detto che è un amico peggiore di Bet e Jules e, mentre premo il mento contro la sua spalla, gli occhi mi si riempiono di lacrime al pensiero di aver dato la stoccata finale a questa amicizia.
“Non lo penso, mi... mi dispiace...”
Lui resta immobilizzato per i dieci secondi più lunghi della mia vita e poi, contro ogni mia previsione, le sue mani sgusciano attorno ai miei fianchi. Pochi attimi dopo, Leo sta ricambiando il mio abbraccio.
“Med, devi darmi una mano qui... Io non so cosa devo fare.” la sua voce è solo un sussurro e, per una volta, mi concedo di lasciar scendere le lacrime.
Piango perché ho deliberatamente ferito il mio migliore amico: quanto dice questo di me e della persona che sto diventando?
“Se tu non mi parli, io non lo so capire cosa c’è che non va.”
“Il problema è che me lo chiedo ogni giorno e non lo capisco neppure io...” mormoro spingendomi sulle punte per mantenere la stretta sul suo collo, ben più in alto della mia normale bassitudine.
“Hai paura?”
“Sì.”
“Di che cosa?”
“Di me stessa.”
Non l’avevo mai detto ad alta voce in modo così diretto: cazzo, ho davvero paura di quello che potrei diventare se non trovo il modo per cambiare le cose.
“È l’università?”
“Anche...”
“Med, lasciala. Lasciala. Se contribuisce a farti stare così, lasciala. Non è così importante: e non è quello che vuoi fare. Lasciala.”
“Ok.” mi esprimo in modo telegrafico perché ho il terrore delle cazzate che potrebbero uscire di nuovo dalla mia bocca.
“Sì?”
“Sì.”
“Che altro c’è? È successo qualcosa di preciso?”
“Non lo so. Non trovo la risposta.”
È una conversazione al limite del senso compiuto quella che stiamo avendo, eppure - oltre alle analisi costanti che ho con Bet e Jules - questo è il modo più diretto in cui io abbia mai affrontato il malessere che mi cresce dentro.
“Lo vuoi il mio aiuto?” è una domanda onesta, sincera, preoccupata; così spiazzante che le mie lacrime aumentano e il respiro diviene difficile per i miei polmoni premuti contro il suo petto.
“Sì. Sì, lo voglio.”
“Ok.”
E continuo a piangere come una cretina perché ho quasi perso il mio migliore amico e perché sono una vera e grossa merda. Mancano pochi giorni al pranzo con i miei genitori e questa domenica dovrò rispondere alle stesse domande che mi ha fatto Leo: eppure, nel terrore di perdere lui, una risposta ho avuto finalmente il coraggio di darmela.
Io questa università non la voglio fare. E non la finirò. Anche se lo facessi e prendessi la laurea, obiettivamente, a che cosa servirebbe? Fossi un datore di lavoro, non mi assumerei mai. Sono una biologa terrificante e darmi quel titolo è un vero insulto alla categoria.
Basta piangersi addosso: sto distruggendo con le mie mani tutto quello che mi circonda e, se non mi smuovo, rischio davvero di perdere tutto e affogare nel buio.
Una delle mani di Leo accarezza un paio di volte i miei capelli e la cosa mi sconvolge: l’emotività di questa conversazione, probabilmente, ha traumatizzato lui al punto da forzarsi in gesti che, in genere, gli farebbero venire l’orticaria.
Poi mi spinge delicatamente lontano di qualche centimetro e, guardandomi in faccia, il suo viso si contorce in una smorfia di disagio di fronte alle mie lacrime.
“No, senti, cazzo... non piangere. Già mi sento violentato da tutto questo appiccicume. Se poi frigni, vado in autocombustione per evitare la situazione!” esclama asciugandomi una guancia e io rido.
È il mio Leo. È il mio imbecille preferito.
“Mi dispiace davvero per come mi sto comportando e per quello che ti ho detto.” sussurro fissando il suo volto ancora contratto dall’imbarazzo e, per un attimo, lo vedo sussultare; forse la mia accusa di prima ha attraversato la sua mente come la mia.
“A me dispiace di aver capito e di non aver fatto niente.”
“Non spettava solo a te fare qualcosa.”
Sorride appena e, per sconvolgermi definitivamente, si china verso di me e lascia cadere un bacio sulla mia fronte.
“Ma è l’apocalisse?” scherzo di fronte al suo eccesso di umanità e lui, in risposta, mi tira una sberletta sotto il mento.
“Cazzo, sì. Mi sento quasi sporco dopo tutta questa sincerità. Potresti dire qualche porcata, così che io possa nuovamente sentirmi vivo?”
Io ridacchio alla sua stupidità e, dopo un paio di battute ad hoc per stemperare la tensione, lui annuncia che è arrivato il momento di salutarci perché lui non è un fancazzista come me e deve andare a servire la comunità.
Sono tutte cazzate, ma a Leo piace fare uscite idiote tipo questa.
Quando arriviamo sulla porta e lui fa un passo sul pianerottolo, ci scambiamo un insolito saluto:
“Scusami.”
“Anche tu.”
Quando richiudo la porta alle mie spalle, faccio un respiro profondo e sorrido: in quel buio devastante che sono io, ci sono piccole luci e, se trovo il coraggio di guardarle, forse posso smettere di avere paura.
Sono passati tre giorni dalla sera della cena di laurea: tre fottutissimi giorni da quando ho discusso con Alex. Tre maledetti giorni dall’ultima volta che l’ho visto.
Non è più tornato a casa e i miei tentativi di entrare in contatto con lui sono andati a vuoto: la mia prima telefonata è stata prontamente respinta e il mio sms - nel quale gli chiedevo se potevamo risolvere la discussione come persone civili - non ha ricevuto risposta. Da quel momento in poi il suo telefono è rimasto spento.
Tre cazzo di giorni di trattamento del silenzio da parte di qualcuno che non è neppure il mio ragazzo: silenzio e astio per qualcosa che non ho fatto e non ho avuto modo di spiegare.
Tutto questo è così ridicolo che, per sfogare la frustrazione, mi sono ritrovata a svuotare interamente la libreria del salotto per risistemare i volumi in ordine di altezza e alfabetico: la cosa è così demenziale che ora, a metà dell’opera, avrei solo voglia di raccogliere tutti i libri impilati a terra e rimetterli sul mobile accompagnati da un cartello con scritto ‘Fanculo a tutti. Alex per primo.
Mentre mi sfogo sulla mia copia usurata dell'Amleto, sfogliando con rabbia le pagine e provando rancore nei confronti dell’atteggiamento immaturo di Alex, sento le chiavi che girano nella toppa della porta e il cigolio delle cerniere che annuncia l’arrivo del mio coinquilino.
Mi alzo di scatto dalla mia posizione sul tappeto e mi volto verso l’entrata, incontrando la sua figura che, a testa bassa, si addentra nel nostro appartamento.
Alex non alza lo sguardo e resta concentrato sul mazzo di chiavi che fatica ad uscire dalla serratura; lo osservo silenziosa e prendo atto del fatto che indossa gli stessi jeans di tre giorni fa - constatando che continuano a fargli un sedere appetitosissimo - e che i suoi capelli sono così spettinati che sarebbe lecito ipotizzare che ci abbia affondato le mani più e più volte.
Mentre lo scruto da cima a fondo senza proferire parola, lui finalmente si volta e si accorge di me: il viso sbigottito e il corpo improvvisamente di nuovo teso.
Oh, ma te la darò io una motivazione per essere teso, stupido idiota!
Lascio cadere il mio amato Amleto a terra e, aggrottando la fronte, incrocio le braccia sul petto, in attesa di sentire cosa abbia da dire.
Alex mostra tutto il suo disagio lanciando le chiavi sul bancone della cucina e iniziando a trafficare con la zip della giacca, accuratamente impegnato nell’evitare di incontrare di nuovo i miei occhi, prima di dirigersi verso camera sua e borbottare:
“Ciao.”
Io resto interdetta di fronte all’indifferenza che mostra e, ben decisa a chiarire le cose, non mi lascio sfuggire l’occasione.
“Ciao? Ciao?!” domando con voce acuta e incredula, ottenendo in risposta un altro borbottio distante:
“È ancora il modo educato di salutare, no?”
“Alex, sono tre giorni che non torni e te ne esci con ‘ciao’?!”
“Dovevo uscirmene con quando ti compri un pigiama guardabile?”
“Vaffanculo!”
Lui fa scorrere lo sguardo sul mio viso per qualche secondo, quasi stesse contemplando se sono degna di una risposta ma dopo averci riflettuto un po’, pare decidere che non ci sia motivo di proseguire la conversazione e, quando mi volta le spalle per entrare in camera, sembra porre fine ad ogni interazione.
A quel punto, stabilito che ne ho veramente troppo del suo atteggiamento, lo seguo con passo sicuro e, impedendogli di chiudere la porta della stanza, entro con prepotenza.
“Tu predichi bene e razzoli male, vero Mr. Maturità?”
“Med, vattene.”
“No.”
“Non era una richiesta...”
La sua voce è impregnata dello stesso gelo che recava qualche giorno fa e, più si mostra distaccato, più la rabbia dentro di me aumenta.
Il mio problema è che non tollero di essere giudicata senza aver avuto modo di spiegarmi; so perfettamente che sono responsabile di non aver fermato L, ma vorrei tanto che mi lasciasse raccontare la mia versione dei fatti e, soprattutto, mi logora l’idea di non aver neppure avuto l’occasione di scoprire se quel maledetto bacio nel pub potesse portare da qualche parte.
Qui siamo passati da troppo a niente in pochi secondi!
Per di più, la realizzazione che tutto finisce in nulla solo perché quell’idiota di L si è intromesso, mi fa impazzire.
Ho permesso a L di monopolizzare la mia vita e le mie azioni già a sufficienza: questa volta non lascerò che qualunque possibile fallimento di una conoscenza più profonda con Alex possa essere anche lontanamente collegato a quel cretino.
Ancora meno, lascerò che il mio coinquilino si comporti da quattordicenne: aveva detto che avremmo parlato. E ora parleremo.
Lui non sembra propenso a cambiare idea e, voltandosi, si avvicina a me, portando una mano sul bordo della porta.
“Med, te ne vai, per favore?”
“No. Mi hai detto che mi avresti lasciato parlare e invece mi hai dato della puttana e te ne sei andato per tre giorni. Ti rendi conto? Che cosa dovrei pensare io di te, ora?”
Lui chiude gli occhi per un attimo e inspira a fatica; il suo viso è così teso che i muscoli della mandibola continuano a contrarsi a ritmo regolare e, più si irrigidisce, più il suo volto si rabbuia.
“Ok, ascolta, di quello mi scuso. Di... averti dato della.. della...” si interrompe, come se non volesse dare voce a quella parola, come se non volesse ripetere l’insulto.
Ma così è troppo facile. Non mi ci ha chiamata direttamente, ma mi ha fatto capire che lo stava pensando e, visto come ha fatto sentire me, non vedo perché mai io debba rendergli la cosa più facile.
“... puttana. Mi hai dato della puttana.”
“No, io non l’ho detto.” prova a sviare lui e il mio sguardo incredulo lo porta ad alzare le braccia e a concludere: “Comunque, non avrei dovuto.”
“No, non avresti dovuto. Non me lo meritavo e in ogni caso non ti devi permettere di...”
“Senti, mi sono scusato, ok? Piantala, ora.”
Mi interrompe alzando la voce e spostando la propria attenzione sul bordo inferiore della sua felpa, prima di stringerla tra le dita e tirare verso l’alto per togliersela con un gesto sicuro; nel movimento anche la maglietta che porta sotto si solleva di parecchio, scoprendogli la pancia fino a oltre l’ombelico e i miei occhi cascano involontariamente là.
I jeans sui suoi fianchi cadono di un paio di centimetri sotto ai boxer e l’assenza di una cintura li rende pericolosamente morbidi, lasciando intravedere quelli che io identifico come la quintessenza del sesso: i muscoletti.
Sì, io ho stabilito che il loro nome scientifico è muscoletti: possiamo fare muscolettos gnocculis, per renderlo più pomposo e molesto ma, cambiando il nome, il fatto resta.
Lo diceva anche Shakespeare che quella che chiamiamo rosa, anche un altro nome, profumerebbe ugualmente.
Ecco, il muscoletto, anche se lo chiami caccapupù, a me fa sangue allo stesso modo.
Poiché sono una pessima biologa, non sono certa di come si chiamino ma sono sicura che non esista donna al mondo che, al comparire dei quei muscoli sul basso ventre che formano una V verso il pube, non pensi al sesso. Ecco, quando in un ragazzo quei muscoletti sono evidenti, io percepisco un segnale sinaptico ben preciso dal mio sistema nervoso: accoppiamento.
Quest cosa con Alex era già sedimentata: il muscolettos goncculis sta solo peggiorandole cose.
Soprattutto vista la situazione disastrosa in cui ci troviamo al momento.
Il mio sguardo incantato si sposta lungo il suo ventre e, per un attimo, temo mi sia venuta la bava alla bocca: poi lui, conscio di dove è concentrata la mia attenzione, si schiarisce la voce ed io, come una demente con le fauci spalancate, torno a guardare il suo viso che, per la prima volta, reca un sorriso. Cioè, è più un ghigno divertito e consapevole, ma meglio dello sguardo di ghiaccio.
“Like what you see?” chiede prima di sistemarsi, abbassando la t-shirt e ricoprendosi la pancia, mentre ride di me.
Cazzo, sì! Sì che mi piace quello che vedo e, per colpa di quel carciofo di L, le mie chance di averlo si assottigliano come il fianco della torta mano a mano che io ne taglio fette sottili (convincendomi che, se non è una fetta vera e propria, è come se non l’avessi mangiata).
“Possiamo parlare di quello che è successo?” chiedo fissandolo dritto negli occhi con voce bassa prima di entrare nella sua stanza, sedermi sulla sua scrivania e aggiungere piano:
“... Per favore.”
Appoggio i palmi delle mani sul legno sotto di me, ai lati delle mie gambe, stringendomi nelle spalle e restando in attesa del verdetto, ma lui non vacilla.
“Non ho proprio voglia o bisogno di infilarmi in un’altra lite con te.”
“Io non voglio litigare, ma...” provo a protestare ancora ma, con mio stupore, lui ne ha abbastanza e, con un gesto secco, sbatte la porta della camera, chiudendola.
“Niente ma, Med. Senti, non è davvero il caso che ti giustifichi. Io non sono il tuo ragazzo.”
Se esistesse un modo alternativo per pugnalare qualcuno, il suo sguardo e le sue parole sarebbero senza dubbio la scelta migliore.
Peccato che io mi sia stancata di tutta questa aggressività: questo non è il ragazzo con cui ho vissuto gli ultimi mesi e, in ogni caso, anche se questo dovesse essere il suo modo di affrontare un conflitto, non ha alcun diritto di trattarmi così. Proprio per il fatto che non sono la sua ragazza, come ha tenuto a sottolineare più volte lui.
“Hai ragione, non lo sei. Quindi piantala di comportarti come un orso. Se non sei il mio ragazzo e non ti importa di sapere cosa è successo con L, non hai ragione di essere arrabbiato con me.” Mi rendo conto che la mia sia una provocazione pericolosa e che potrei bruciarmi ogni brandello rimasto di possibilità di conoscere davvero Alex, ma mi rifiuto di credere che tutto questo astio derivi da un’incomprensione.
La sua espressione lascia intendere che la mia risposta l’ha lasciato interdetto e, per un istante, credo di aver vinto lo scontro; ma la mia speranza svanisce in fretta quando lui abbassa lo sguardo e borbotta:
“Sei tu quella che ci tiene tanto a spiegarsi. Immagino sia perché hai la coda di paglia.”
“Ehi, imbecille! Io non ho scopato con L, quindi finiscila! E, viste tutte le tue chiacchiere su quanto ti piacevo e sul fatto che dovevamo conoscerci, chiarire con te mi sembrava la cosa giusta da fare.”
Sento il mio petto gonfiarsi di gloria di fronte al suo sguardo stupito e contemplo la possibilità di aver esorcizzato il mio coinquilino dal mostro che ha abitato il suo corpo nelle ultime ore: non sono una persona particolarmente brava quando si tratta di confronti.
Mi incarto quando devo difendermi e manco assolutamente di tempismo nel trovare risposte coerenti o ad effetto; di solito, dopo che ho rimuginato sul confronto, mi mordo le mani perché, riflettendoci, mi sovvengono innumerevoli battute taglienti che avrei potuto dire. Ma sono orribilmente orgogliosa, non sopporto che mi si attribuiscano colpe che non ho: e Alex con me sta giocando sporco.
Lo osservo muoversi dalla porta alla sedia accanto al suo letto: resta zitto e mi ignora come se fosse infastidito dalla mia sola presenza e i suoi gesti sono riflesso dell’irritazione che la mia testardaggine sta provocando. Fruga tra i vestiti abbandonati sulla seggiola, senza trovare quello che cercava e non posso fare a meno di chiedermi che cosa diamine stia frullando dentro quella sua testolina bionda.
Poi si volta, lanciandomi uno sguardo tagliente al quale io reagisco inarcando le sopracciglia e lui espira con forza; si incammina verso l’armadio e lo spalanca, ricominciando finalmente a parlare:
“Stai facendo un dramma per due bacetti...”
“Uno. Uno. Lui ha baciato me e l’ha fatto una sola volta ed io ero...”
“Parlavo di noi.” mi interrompe, mentre afferra un paio di jeans scuri e li lancia sul letto.
“Alla fine ci siamo baciati un paio di volte. Tutto qui: cos’era, la tua prima volta? Non hai mai baciato nessuno senza aprire lunghe e complicate relazioni?”
La sua voce è attutita dalle pareti e dalle ante aperte del guardaroba e continua a non guardarmi mentre parla: stavolta sta sparando per colpire, punta proprio a ferirmi. E direi che sta riuscendo perfettamente nel suo intento.
E la cosa mi basisce: perché, personalmente, avrei creduto che il mio coinquilino fosse innocuo da quel punto di vista. Non avrei mai pensato che avesse problemi - come la sottoscritta - a gestire la rabbia e che il risultato fosse un suo deliberato tentativo di fare male con le parole: dovrei decretarlo riprovevole, ma non posso. Io faccio una cosa molto simile quando mi sale il sangue al cervello e, in quel momento, capisco che ogni possibile discussione tra me e Alex in futuro, rischia di essere estremamente viscerale.
La rabbia è un sentimento ignobile, ne sono consapevole, ma è anche l’unico che mi fa sentire reale di questi tempi: mi pulsa dentro e mi parte dal fondo dello stomaco. Come se tutte le altre ore trascorse nella confusione e nell’apatia gridassero giustizia all’improvviso.
L’ira non ha nulla di buono: ma è una forma di passione che non ho mai imparato a gestire.
E, poiché sappiamo tutti che sono stronza, lui ferisce me e io non mi ritraggo dal replicare:
“Fottiti, Alex. Ho sempre pensato che fossi un coglione. Ma non immaginavo fossi della stessa pasta di L...”
Ho sputato consciamente veleno e non riesco a non compiacermi nell’osservare la reazione alla mia risposta: il suo corpo si tende, mentre le mani volano su una delle ante aperte e sembrerebbe essere sul punto di sbattere anche quella.
“Oh, scusa, ho detto qualcosa che ti ha offeso?” chiedo sarcastica e scendendo dal ripiano della scrivania per dirigermi verso la porta.
La conversazione è finita e, visto che lui non pare propenso al dialogo o interessato a sentire cosa ho da dire, per quello che mi riguarda può affogare nella sua stronzaggine; sono a pochi passi dall’uscita ma la sua voce, improvvisamente molto più bassa e insicura, mi ferma, domandando timidamente:
“Davvero non ci sei andata a letto?”
Il respiro mi si smorza in gola e l’indignazione per il fatto che continui a credere che io sia stata di nuovo con L, è così potente che si manifesta tutta in un mio inaspettato innalzamento della voce.
“Non ci posso credere!” strillo voltandomi verso di lui a bocca aperta e rischiando di slogarmi la mandibola quando me lo ritrovo a petto nudo che si sgancia i bottoni dei jeans.
“Beh, che ti aspettavi? Io ti vedo baciarti col tuo ex...”
“Cosa fai?! Perché ti spogli?”
“Mi devo cambiare...” risponde con voce confusa, come se fosse naturale discutere con me in mutande e fosse ovvio che il bisogno era così impellente da non poter attendere.
“Ma lo devi fare proprio ora?!” chiedo incredula, indicando la sua figura seminuda che si staglia di fronte a me e che, a breve, avrà annullato ogni mia abilità oratoria.
Echecazzo! Non si possono fare queste cose: io sto cercando di litigare, per l’amor del cielo.
“Che problema c’è? Mai visto un uomo in mutande?”
“Non... non... non ti levare i jeans, Alex!”
“Non pensavo fossi così pudica...” constata lui con voce dubbiosa e aggrottando la fronte prima di far saltare l’ultimo bottone e alzare le mani per mostrarmi che si sta fermando.
“Non lo sono... Mi... mi distrai!” balbetto come una vera liceale e sono incapace di controllare la direzione dello sguardo che, chiaramente, si posa sul triangolo di cotone scoperto dai lembi aperti dei suoi pantaloni. E lui ride.
È bipolare, è ovvio.
Inspiro stanca e confusa dalla conversazione sconnessa che sta avendo luogo; strizzo gli occhi, prima di coprirmeli con entrambi i palmi delle mani e supplico:
“Ti prego, ti puoi rivestire? Tutto questo è ridicolo: io stavo provando a spiegarti una cosa e tu hai prima dato fuori di matto e ora mi distrai col tuo fisichino tutto conturbante. Se non vuoi starmi a sentire, va bene, non farlo. Lasciamo perdere tutto e mi farò...” il mio monologo isterico viene interrotto da un improvviso calore che prima mi sfiora le spalle e poi mi afferra entrambi i polsi, per allontanarli dal mio viso.
Poi la sua voce, la sua voce vera, quella divertita e limpida di sempre, mi invita ad aprire gli occhi e a inspirare profondamente.
Quando lascio che le palpebre tornino ad aprirsi, incontro i suoi occhi ma, con mio disappunto, li trovo ancora rabbuiati da qualche cosa che lo turba; non posso fare a meno di chiedermi se sia colpa mia o se ci sia qualcosa di più.
Faccio scivolare impercettibilmente lo sguardo sul resto della sua figura e, per il bene della mia sanità mentale, scopro che si è cambiato e che è nuovamente vestito.
In realtà un po’ mi dispiace: era una visione così succulenta, ma non potevo seriamente discutere con lui che si spogliava! Non è umanamente possibile; avrei solamente rischiato di imbavagliarlo con la sua stessa maglietta e fare di lui ciò che volevo.
Mentre fantastico su questa sconceria, lui afferra i due laccetti della mia felpa verde tra le dita e fa un fiocchetto, smettendo di guardare il mio viso e dichiarando:
“Che ne dici se usciamo a prendere una boccata d’aria?”
“Adesso?! Alex, scusa se te le chiedo ma... ti hanno mai diagnosticato un disturbo di personalità?” e lui fatica a trattenere una leggera risata prima di ignorare la domanda e spiegarmi:
“Non è solo per quello che è successo che sono così... io... io ho altri problemi in questo momento.”
“Quali problemi?”
La mia voce è quasi un sussurro, nella speranza di non allarmarlo, ma la delicatezza sembra non essere sufficiente: la sua postura cambia senza preavviso e, quando solleva il mento verso l’alto, capisco che con la mia curiosità ho attivato tutte le sue difese.
“Non mi va di parlarne...” borbotta lasciando andare i lacci della felpa e allungandosi dietro di me per aprire la porta.
“Dai, usciamo. Andiamo a mangiare qualcosa qui attorno. Pensa cosa vuoi, io ti aspetto di sotto...” il suo viso evita accuratamente il mio quando esce dalla sua stanza e si addentra nel salotto, dirigendosi verso l’uscita e io resto imbambolata a fissare la sua schiena mentre si allontana.
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L'imbarazzante piacere del TuttoTondo
RomanceMed ha 24 anni e porta avanti una relazione di sesso con un soggetto di discutibile fascino, è 2 anni fuori corso ad una facoltà che non ha intenzione di terminare, è sovrappeso ed è un po' stronza. O forse è solo socialmente inadeguata. All'apice d...