Per chi suona il telefono.

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Le urla che riempiono la casa nella frazione di secondo successiva all’apertura di quella dannata porta suonano più o meno come lo starnazzare di cornacchie che vengono calpestate da una mucca. Le esclamazioni si susseguono all’incirca così, non necessariamente in questo ordine:

Alex: “ Wow, quello è davvero strano!”
Bet: “Oh, merdosissima! Come fa a stare sulle mani?!”.
Leo, con gli occhi spalancati e una mano che gli massaggia la fronte: “Cazzo, ho subito danni permanenti al pisello!”
Io: “ Ma come fai a mettere le gambe così, Jules?!”.

J, bocca aperta stile pesce rosso, domanda a Bet: “Amore, perché noi non lo facciamo mai così? Anche io voglio fare...beh, quella così lì.” conclude additando la complicata immagine che riusciamo a cogliere dall’apertura della porta.
“Non riuscirò mai, mai, mai più a fare sesso.” si lagna Bet, soddisfatta quando sente me aggiungere:
“Nemmeno io. Non voglio più sentirne parlare.”

Alex e J emettono dei suoni di protesta, spostando lo sguardo su di noi.
Sono passati solo infinitesimali frazioni di secondi da quando Leo ha socchiuso la porta della stanza che, da oggi, verrà definita “la camera degli orrori”, quando Bet allunga una mano e chiude di colpo la porta.
Restiamo qualche secondo fermi dove siamo fino a quando J non sussurra:

“Ma secondo voi quella... cosa è legale?”
“Sembrava pericolosa.” mormora Alex in risposta.
“Io credo che andrò a cavarmi gli occhi e a sbattere la testa contro il muro finché non mi provoco una commozione cerebrale che mi fa dimenticare tutto.” comunica Leo facendo qualche passo verso la sua stanza, con un’andatura che può essere paragonata solo a quella di uno zombie.

Ma la sua fuga verso la salvezza viene interrotta dalle figure di Jules e Roby che emergono improvvisamente dalla camera da letto: i loro visi rivelano una certa confusione, oltre che un chiaro fastidio per essere stati interrotti. E, contrariamente a ciò che mi era parso di notare dalla fessura della porta, sono ampiamente vestiti.

“Che cazzo di problema avete?” domanda Jules incrociando le braccia e fissandoci inquisitoria.
“L’immagine di voi due che trombate come due antilopi, ecco che problema abbiamo.” rispondo io disgustata.
I miei due amici si scambiano uno sguardo disorientato prima di scoppiare in una fragorosa e gustosa risata.
“Loro ridono. Io sono in procinto di vomitare e loro sghignazzano!” esclama Leo dalla sua posizione, lasciando trapelare una certa intolleranza per gli eventi che si stanno susseguendo durante la nottata.

Ancora in preda agli spasmi dell’ilarità che sembra essersi diffusa solo tra Jules e Roby, quest’ultimo si sforza di placare il proprio divertimento, riconquistando una certa compostezza, prima di schiarirsi la voce e rispondere:
“Ma di che state parlando?!”

A questo punto l’indecisione e la confusione rimbalza da un volto all’altro dei presenti finché Jules, recuperato controllo della propria risata, spalanca la porta della camera di Roby, accende la luce e afferma con voce secca:
“Stavamo giocando a Twister!”
La scena si gela per un attimo, fino al momento in cui tutti i nostri occhi non si dirigono verso il pavimento all’angolo del letto di Roby, ora illuminato dalla luce della potente alogena accanto alla finestra, dal quale spunta chiaramente il tappeto bianco con grossi cerchi colorati del famoso gioco.
“Alle tre di notte?!” esclama ad un certo punto Alex, rompendo il silenzio attonito che avvolgeva la casa e dando voce alla domanda che tutti stavamo pensando.
“Non avevamo sonno!” si difendono Roby e Jules all’unisono.

Noi restiamo tutti attoniti a fissarli per qualche secondo, stupiti dall’assurdità dell’idea stessa, fino a quando Bet, con voce chiaramente scocciata, non domanda:
“E perché non ci avete invitato?”

J scuote la testa sogghignando, poi gira sui tacchi e si dirige verso la cucina, annunciando la propria intenzione di gustarsi una camomilla. Con l’attenzione ancora fissa su Bet, un dopo l’altro lo seguiamo, abbandonando sola e dubbiosa in corridoio la mia bionda amica.

A questo punto necessitiamo tutti di essere ricondotti nella dimensione notturna e di trovare il modo di recuperare il sonno.
In un silenzio confortevole, trascorriamo una buona mezz’ora accoccolati sugli enormi cuscini del salotto di Bet, scambiandoci qualche battuta sulla strana piega che questa nottata ha assunto e sfottendo senza troppe remore Jules e Roby per la bizzarria della loro idea. Io, però, con la testa sono sul mio senso di colpa.
Non tanto per aver pensato male di Alex; lui avrà anche il diritto di incazzarsi, ma il mio senso di colpa è decisamente più forte nei confronti della mia migliore amica.
Se non ho bisogno di andare in terapia, ho probabilmente necessità di essere presa a sberle finché non rinsavisco.

I minuti si susseguono in tranquillità e lentamente, complici la quiete e le tenui luci del soggiorno, le palpebre di tutti si fanno più pesanti: presto i miei amici cominciano a congedarsi per tornare al tepore del proprio letto.

Bet è la prima a crollare e a portare con sé un barcollante J, seguiti da Roby che si trascina lentamente verso la sua stanza.

Me ne sto raggomitolata nell’angolo destro del divano e osservo Jules e Leo discutere mentre si incamminano verso le rispettive stanze. Con gli occhi che pizzicano per la stanchezza osservo Alex immobile di fronte ad una delle finestre: la sua schiena immobile ricambia il mio sguardo, una mano stringe la tazza ormai tiepida di camomilla e l’altra se ne sta appoggiata contro il muro per reggere il suo peso.

Si volta piano verso di me con il viso scuro ma evitando di guardarmi e si viene a sedere accanto a me sul divano. Sto in silenzio per un paio di minuti, incerta sul da farsi e su cosa si potrebbe aspettare lui da me, ma il sonno inizia a reclamarmi con prepotenza e, sbadigliando, stringo le dita attorno al suo polso mentre mi alzo: “Andiamo a letto.”
Lui sembra in procinto di seguirmi ma, appena mi volto, mi tira a sé: il viso serio con uno sguardo duro e al contempo indeciso negli occhi.
“Do ut des.”

Oh, questa è una novità: Alex non usa mai il do ut des.
“Tu ti fidi me?”

Ah, merda. Grazie Leo.
“Tu?”
E lì sarebbe naturale sentirgli rispondere qualcosa tipo: “Certo che mi fido!”
Ecco, però non succede e la cosa fa un po’ male.
“Alex, non ti fidi di me? Pensi che sia una che tradisce?!”

Le sue dita si muovono distrattamente lungo le mie braccia e il gesto affettuoso stona con l’argomento della conversazione.
Il nostro silenzio si espande e si fonde con il buio della notte. Mi dispiace che non si fidi di me: non dopo tutta la storia di L, non dopo le incomprensioni che abbiamo dovuto superare per arrivare qui. Credevo che avesse imparato a conoscermi, a capire cosa è importante per me.
Forse ho peccato di presunzione e mi sono convinta di essere trasparente; o forse è lui che non ha saputo apprendere. O forse tutti questi forse sono solo stupidaggini e per conoscere qualcuno e fidarsi ci vuole tempo.
Il suoi occhi si muovono, scrutando nei miei: poi mi guarda con più attenzione, come se il suo sguardo stesse per anticipare le sue parole.
“Come ti fa sentire sapere che non mi fido di te?”
“Di merda!” rispondo senza neppure inspirare. “Mi fa male.”

Inarca un sopracciglio e l’ombra di un sorriso compare lentamente sugli angoli delle sue labbra.
“Vero? È brutto quando la persona con cui stai pensa che tu sia scorretta e ti tradisca, giusto?”

Una fiammella di emozione divampa nel mio stomaco quando lui pronuncia la parola “stai” e, benché la mia attenzione dovrebbe essere focalizzata sul problema più evidente, non riesco a sopprimere il nodo piacere che mi rimbalza nello stomaco all’idea.

Alex mi riduce ad una quindicenne, ormai non ci sono dubbi.

“Med, guardami…”
“Non trattarmi con superiorità, Alex. Non c’è niente di assurdo nell’essere un po’ gelosi.”
“No, di assurdo no. Anche io sono geloso. Però, c’è una bella differenza tra l’essere possessivi e il pensare che mi scoperei la tua migliore amica.” poi si zittisce un attimo, “O il tuo migliore amico.”

Per un secondo sono tentata di chiedergli se c’è una possibilità che preferisca Leo a Jules, ma l’ombra seria che si riflette sul suo viso mi ferma. Per fortuna.

“È un pensiero irrazionale, Alex. Non si controllano queste cose.”
“Beh, non posso pagare per gli errori di un altro. Puoi essere insicura, lo capisco, ma se non provi almeno a fidarti, questa relazione diventerà un incubo.”

Lo osservo e provo ad immaginare cosa succederebbe: io che non credo a ogni messaggio in cui mi dice che fa tardi al lavoro. Lui che si stanca di giustificarsi. Io che insisto per avere prove di qualcosa che non c’è. Lui che perde la pazienza. Io che lo lascio, perché non mi fido. Lui che mi lascia, perché non c’è più nulla di positivo.

Sì, ho drammatizzato un po’, ma direi che è uno scenario più che plausibile: la gelosia è terribile, lo sappiamo. E ancora peggio è la mancanza di fiducia. Una relazione basata sull'insicurezza e sul controllo non è una relazione sana. E Dio solo sa quanto vorrei avere almeno un rapporto sano con un ragazzo, visti i miei squallidi precedenti. Ma la verità è che il cambiamento, come sempre, deve nascere in me: l'incertezza è un problema mio e sono io a dover trovare il modo di controllarla. In particolar modo perché Alex, fino ad ora, non mi ha dato ragione di dubitare della sua fedeltà: anzi, a dirla tutta è stato proprio lui a voler chiarire che questo doveva essere un rapporto esclusivo.

“Alex, ma è normale che ogni due giorni siamo qui a discutere qualcosa di serio?”
“Non ne ho idea.” sospira abbandonandosi al divano e premendo i pugni sugli occhi.
Mentre non mi può vedere, mi muovo dal mio posto sul divano e mi siedo a cavalcioni su di lui: nell’istante in cui le nostre gambe si toccano, le sue mani si spostano sui miei fianchi e i nostri occhi si incontrano.
Il suo corpo è immobile mentre attende che io parli.

“Tu hai dubitato di me la sera del ristorante.”
“E guarda dove ci ha portato. Se ho già fatto un casino io, non è il caso che tu ripeta i miei errori.”
“Lo pensi davvero o lo dici solo perché oggi i ruoli sono invertiti?”
“Non lo so, ma dobbiamo trovare il modo di fidarci.” gli accarezzo il collo e lui si strofina contro il mio palmo come farebbe un gatto.
“Tutti e due.” sussurro in un sospiro.

“Med, è Jules. Come cazzo hai potuto pensarlo?”
“Mi dispiace.”

Mi dispiace davvero.

Chinandomi su di lui, appoggio il mento sulla sua spalla.
Immaginavo che stare in una relazione fosse complicato, ma non mi ero mai resa conto di quanto ancora dovessi crescere da questo punto di vista: con L non mi sono mai trovata a parlare di ciò che mi turbava e, in tutta onestà, la certezza che non avremmo mai affrontato certi discorsi mi faceva stare tranquilla.
C’è una sorta di comodità nelle relazioni di solo sesso, una specie di sicurezza che ti fa sentire in diritto di cullarti nell’insoddisfazione senza interrogare te stessa: alla fine puoi sempre pensare che lo stronzo sia lui.

Ma questa volta non posso fare la vittima, come non la può fare lui.
“Non sono una che tradisce.”
“Neanche io.”

Almeno, non credo di esserlo. Forse sono solo un po’ a disagio perché le cose con Alex stanno andando parecchio velocemente sul piano emotivo.
Sono a mio agio e baciarlo e sentirlo mio sembra la cosa più naturale del mondo: devo rallentare. Dobbiamo rallentare.

“Sei mai stata innamorata?” sussurra posando le labbra sulla mia spalle e, santo cielo, non posso fare a meno di irrigidirmi.

Ecco, appunto.

Sono mai stata innamorata? Pensavo di sì: l’ho pensato almeno un paio di volte nella mia vita da adulta, ma ora non so rispondere.
“No.” ribatto senza riuscire a fermarmi e trattengo il respiro, attanagliata dall’ansia di sentirgli dire qualcosa che è troppo presto per dire.
“Tu?” sussurro con un enorme groppo in gola.

“Neppure io, credo.”

I miei muscoli si sciolgono come crema al mascarpone e tutto il mio peso si abbandona a lui mentre un sospiro di sollievo scappa dai miei polmoni. Lo sento ridere e borbottare sulla mia pelle: “Cagasotto.”

E sorrido. Sorrido perché lui ha capito. Sorrido perché lui sa parlare davvero col mio corpo. E sorrido perché, nonostante le mie elucubrazioni mentali, saperlo mi fa stare bene.
“Non era una dichiarazione.”
“Lo so…”
No, balla gigante. Ho davvero temuto che mi stesse colpendo con una Avada kedavra: non è che non mi piacerebbe sentirlo dire in generale, è che… beh, non lo so, ma so che non c’è bisogno di affrettare le cose.
“No, non lo sai.”
“Perché me l’hai chiesto?”
“Perché sono geloso.” ride tirandomi i capelli finché non sollevo il viso dal suo collo. “Perché volevo sapere se eri stata innamorata di Leo o di quello stronzo.”
“Ma non ti senti minacciato, vero?”
“No. Non penso che siano rilevanti adesso.”
“E di cosa sei geloso, allora?”
I suoi occhi sembrano spostare l'attenzione su qualcosa di lontano dietro di me, come a riflettere con cautela su quello che vuole dire e su come dirlo:

“Non sono geloso del fatto che ci sia stato qualcuno prima di me. In fondo anche io ho avuto le mie esperienze.” deglutisce e rende più significativa la pausa che intervalla le sue parole.
“Diciamo che è più l'idea che qualcuno sia stato importante per te.”

Vorrei sentirmi indignata perché il mio passato sentimentale non ha nulla a che fare con il mio presente con lui, ma credo di capire l'origine della sua riflessione.
“Perché pensi che potrei tornare indietro?”
“No.” la risposta è secca e decisa, “No, perché vorrei essere più importante io.”

Ancora con i desideri irrazionali: non riesco a soppesare bene il valore di quello che sta confessando o a capire se dovrei fargli una ramanzina o meno.

“Non posso cancellare quello che ho provato per qualcuno prima di te, Alex.”

Lui annuisce, lasciando che lo costringa a incrociare il mio sguardo.
“Non posso e non lo voglio fare. Ma posso dirti che ora le mie attenzioni sono tutte per te, a prescindere dal mio passato.”
“Non sto dicendo che non vorrei che avessi provato qualcosa per qualcuno. Sto dicendo che spero che quello che provi per me sia...”
“Che cosa?”
“Non lo so.” serra le labbra in una linea sottile, cercando le parole giuste per farmi capire. “Non lo so nemmeno io.”
“Di più?” provo a suggerire, anche se non ho ben chiaro cosa gli attraversi la mente.

“Non di più in senso stretto... Tipo, non lo so.” fa un sospiro pesante e poi ride leggermente. “Forse ho solo paura che non proverai qualcosa per me. E allora sapere che hai provato qualcosa per qualcuno ma non per me mi...”
“Lo provo.”
“Che cosa?”
“Non lo so. Qualcosa. Cerchiamo di non andare troppo di fretta, okay? Mi importa di te, Alex. Sei più di quello che mi aspettavo. Può bastare?”
Lui sorride in modo quasi puro mentre ascolta le mie parole.
C’è qualcosa di adorabile nel modo in cui si sente in competizione con le figure maschili del mio passato e, nell’istante in cui gli sento pronunciare quelle parole, capisco che anche io mi irrito al pensiero che lui sia stato di qualcun altro.

Fuoco contro fuoco. Siamo due geyser.
“Fai in modo di non parlarmi mai delle tue donne precedenti, okay?”
“Tutta questa gelosia un po’ mi eccita.” sussurra premendo forte le labbra sulle mie.
“Ti eccita, eppure prima eri incazzato come un bufalo.”
“Perché mi sta sul cazzo la mancanza di fiducia. Ma mi piace l’idea che tu sia una femmina alfa e che mi reclami.”
“C’è qualcosa di passivo in te di cui non ero a conoscenza?”
“No. Anche io sono un maschio Alfa.”
“E la cosa eccita me in modo incredibile.”

“Andiamo a letto?” suggerisco facendo sgusciare le braccia attorno al suo collo e lo sento annuire.

Appena chiusa la porta alle mie spalle lo spintono fino al materasso e attacco le sue labbra con baci e morsi.

Femmina alfa al vostro servizio. Ho sempre pensato di essere una femmina omega, altro che beta. Dio, quanto mi sbagliavo.
“Cosa ti fa pensare di poter fare il capo?” ansima Alex succhiandomi il labbro inferiore.
“Devo farmi perdonare.” mormoro sfilandogli la t-shirt con cui lui pensava di dormire, “e c’è una sorpresa per te.” continuo portandomi le sue mani sui fianchi e esortandolo a intrufolare le dita nell’elastico dei miei pantaloni.

Come le sue trovano la pelle nuda, sopprime un gemito gutturale di piacere e sussurra:
“Fuck. No panties.”

Che, per chi non lo sa, significa che ha avuto la conferma del fatto che dormo senza mutande.

“Sono perdonata per aver pensato male?”
“No. Ma siccome l’ho fatto anche io, siamo pari.” ride spostandomi i capelli dal viso “Abbiamo imparato la lezione?”

“Io sì.”
“Anche io…” ridacchia quando sente le mie unghie strisciargli sul petto e poi giù, fino all’ombelico. “Ora fammi apprezzare la mia scoperta.”

È quasi l’alba quando il sonno sguscia sotto le mie palpebre e sento la voce stanca di Alex sussurrarmi:
“Come va la ricerca di te stessa?”

Sorrido, perché è una domanda importante, ma è pronunciata in modo così delicato e in un momento così tranquillo, da privarla del suo carico emotivo.
“Sono a un punto morto.”
“Se hai bisogno di una mano…”
“Posso chiedere a te?”

Non risponde e, un secondo dopo, il suo respiro è pesante e regolare. Rassicurante.
Non mi deve aiutare nessuno: ho passato troppo tempo a seguire i pensieri degli altri. Ora scegliere è compito mio, ma non è facile: potrei andare in qualunque direzione e il pensiero di sbagliare di nuovo è sempre lì. Non so bene perché, ma ho la sensazione di non potermi permettere un’altra scelta sbagliata. Ho quasi venticinque anni.
Per mesi ho lasciato che L decidesse per me cosa potevo avere e la codardia mi ha spinta a restare nascosta all'università: oggi, invece, voglio mostrare a me stessa cosa sono.

A partire da me: non lo dovrei ammettere, ma quando ripenso al pranzo a casa dei miei e a come ho finalmente ammesso tutto, mi sento un po’ fiera. Lo stesso vale per quando ho chiuso con L.
Ero titubante entrambe le volte, ma non saprò scordare il senso di sollievo e appagamento che ho provato una volta che ho affrontato le cose.

Alex si muove accanto a me, infilando un braccio sotto il suo cuscino e l’altro sotto il mio, invadendo parte del mio spazio e costringendomi a spostarmi un po’ verso l’esterno del letto.

Cosa sono? Una disoccupata senza direzione. Già, non è un grande passo avanti dalla studentessa fuori corso senza volontà di finire.
E mentre ascolto Alex dormire e penso a me e al mio futuro, la parola "disoccupata" mi si infiltra nei polmoni. Allora realizzo una cosa che mi terrorizza e inorgoglisce allo stesso tempo: mi ci vorrà tempo per capire cosa voglio fare, ma mio padre si sbagliava. Non posso prendermi il tempo di cui ho bisogno per comprenderlo, perché devo essere responsabile di me: devo trovarmi un lavoro di cui campare mentre scopro cosa vorrò essere.
Se non lo faccio subito, resterò lì a coccolarmi nella mia confusione, a tergiversare, a farmi mantenere dai miei: ho rubato loro anni e soldi a sufficienza.
Se davvero voglio ricostruire me stessa, devo cominciare da qui.

Quando l’indomani mattina vengo svegliata dall’insopportabile suoneria del cellulare di Alex, penso che per ricostruire me stessa, forse, devo uccidere prima lui e il suo telefono. Sopprimo un gemito di disapprovazione quando il mio coinquilino si rotola su un fianco, spostando tutto il calore che i nostri corpi hanno prodotto e rispondendo alla chiamata con voce eccessivamente alta.
Qualche attimo di silenzio prima che un’imprecazione sfugga alle labbra del ragazzo accanto a me.
“Ah, cazzo!”

Che delicatezza.

“Grazie mille per la chiamata. Un paio d’ore e dovrei essere lì, d’accordo?”

CosaCosaCosa? Improvvisamente sono sveglissima.
Sollevo la testa dal cuscino proprio mentre Alex si volta verso di me:
“Dobbiamo andare.”
“Dove?”
“A casa…” e si solleva dal letto in cerca dei suoi vestiti.
“Perché?”

Ha un attimo di esitazione: quando mi guarda i suoi occhi sono cauti e la sua voce cristallina.
“Don’t freak out, okay?”

Che vuol dire che non devo dare di matto. Il che significa che è qualcosa per cui qualcuno può dare di matto. Ragion per cui comincio a dare di matto subito, ma interiormente .
“Qualcuno ha scardinato la porta del nostro palazzo. Non si sa in che appartamenti siano entrati. Dobbiamo tornare a casa.”

Sono disoccupata: e se qualcuno si è fregato i pochi oggetti di valore che ho? Sono così nervosa che, mentre mi infilo i vestiti e lascio un biglietto ai miei amici, non mi rendo conto dell’atteggiamento silenzioso e dell’ombra agitata che è colata sul viso di Alex. Non me ne accorgo finché non insiste per guidare e, una volta saliti in macchina, lui resta zitto e con lo sguardo fisso sulla strada. Le nocche bianche per quanto stringe il volante e le spalle rigide.

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