A twist in the night

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Awkward. In inglese è possibilmente la mia parola preferita. Si scrive con un sacco di lettere che una accanto all’altra sembrano fare a pugni e si pronuncia in modo completamente diverso:ˈɔːkwəd.  Okuord, praticamente. Awkward. Cosa significa? Significa un sacco di cose in italiano: imbarazzato, goffo, problematico, scomodo, complicato e via dicendo.
Insomma, strano. Impacciato. A disagio.
Alex non è mai impacciato. Tranne oggi.

Oggi è chiaramente fuori dal suo mondo: sorride quasi a comando e, di ora in ora, sembra aver assunto una posizione più tesa. I suoi occhi si muovono un po’ assenti, cercando di seguire le conversazioni che si susseguono.

Awkward da morire.
La cosa ha dell’incredibile, visto che ho sempre pensato che Alex fosse naturalmente a suo agio con la gente. Almeno, lo è stato ogni volta che l’ho visto incontrare qualcuno di nuovo.
Sono passate più di ventiquattro ore da quando i ragazzi ci hanno raggiunto e, se all’inizio il mio coinquilino sembrava integrarsi abbastanza, da un po’ si è fatto silenzioso e ha assunto un’aria tesa.

Il primo segno di imbarazzo si è palesato a colazione quando - tazza di caffè in mano - si è avvicinato al tavolo un paio di volte, muovendo lo sguardo su di noi alla ricerca di un posto dove sedersi: supponendo che la posizione naturale sarebbe stata accanto a me, questa possibilità è stata scartata all’istante, essendo io seduta tra Roby e Leo.
Fingerò di non aver gongolato quando gli occhi di Alex si sono inchiodati sulla testa di Leo qualche secondo di troppo e hanno mentalmente inviato saette d'ira.

Ah, ‘sticazzi: ho gongolato eccome.

Alex, preso atto del fatto che il suo regal sederino non poteva posarsi sulla seggiola vicino alla mia, ha fatto dietrofront in modo impacciato, tornando in prossimità dei fornelli e cercando di mascherare il suo dilemma.
Pochi secondi più tardi è tornato alla carica, apparentemente armato di un coraggio che si è polverizzato dopo pochi passi: ho visto il suo viso rattristarsi mentre sospirava sconfitto, appena prima di appoggiarsi allo sportello del frigorifero e rassegnarsi a fare colazione lì.

Awkword, assolutamente.

Il secondo momento di dubbio è giunto quando Bet e Jules lo hanno scacciato dal divano su cui eravamo seduti, ordinandogli di andare a giocare coi maschietti perché “le donne dovevano parlare male di lui”.

Jules l’ha sollevato per un braccio come se pesasse quattro chili e l’ha gentilmente accompagnato sotto il portico, dove i ragazzi si stavano sfidando a briscola: si è subito scoperto che l’americano a briscola non sapeva giocare e l’ho osservato dalla finestra starsene seduto una decina di minuti con gli occhi grandi e l’aria disorientata.

L’ennesimo sospiro e il suo prolungato silenzio hanno confermato i miei sospetti.

La cosa strana è che non mi ha cercato: non ha tentato di isolarsi dagli altri e appartarsi con me. È rimasto sempre nel gruppo, ascoltando e osservando.

A cena i suoi tentativi di mostrarsi a suo agio sono lentamente diminuiti: piano piano i sorrisi di circostanza sono diventati rari e ha smesso di cercare di capire pezzi di conversazioni su fatti che non conosceva o di intervenire e si è accomodato in un tranquillo mutismo.

Awkward, appunto, conoscendo Alex.

Non è che sono una stronza cronica: l’ho soccorso in più di un’occasione, cercando di dargli attenzione ma, fino ad ora, lui ha preferito fare il fico e respingere le mie premure.

Ho capito che aveva smesso di fingersi a suo agio quando ha finalmente abbassato la facciata e ha cercato la mia mano: una lieve pressione per farmi avvicinare a lui e le sue labbra sulla mia tempia.

“Come va?” gli ho sussurrato piano spostando l’attenzione su di lui.
“Mi sento un pesce fuor d’acqua…” ha ammesso ridacchiando sui miei capelli e lasciando che mi appoggiassi alla sua spalla.
“Mi chiedevo giusto quando ti saresti deciso ad ammetterlo.”
“Lo sospettavo,” ha brontolato pizzicandomi un fianco, “ma non volevo darti la soddisfazione.”
“Quindi hai preferito soffrire in silenzio?”
Non ha risposto alla domanda, ma l’ho sentito sbuffare piano, borbottando qualcosa che suonava come “I don’t wanna be socially awkward like you.”
“A stare con lo zoppo si impara a zoppicare…” ho sogghignato allontanandomi da lui senza aspettare risposta.

Non so bene se il nostro scambio di battute abbia aiutato, ma da quel momento mi è parso più rilassato: ancora a disagio e poco incline a contribuire alle conversazioni, ma indubbiamente più sollevato.

Prima di andare a letto c’è stato l’ultimo piccolo attimo di stranezza che ho potuto osservare solo da lontano. Okay, non è vero: avrei potuto avvicinarmi ad origliare, ma non ero sicura di voler sentire.

Rientrando dal portico l’ho visto in cucina, appoggiato al bancone con le braccia incrociate sul petto e lo sguardo basso che si muoveva lentamente dal pavimento al volto di Leo.
Non potevo vedere il viso del mio amico perché mi dava le spalle, ma quello di Alex era sufficiente per lasciarmi intuire che non fosse una conversazione divertente.

Il capo del mio coinquilino è rimasto chino quasi immobile tutto il tempo: l’unica cosa che si muoveva erano i suoi occhi, fastidiosamente intensi e concentrati sulle parole di Leo.
Quando sollevava lo sguardo per scrutarlo da sotto le ciglia, ammetto che le mie zone private trovavano quell’espressione lievemente pericolosa e, di conseguenza, iniziavano a cantare cori Gospel per comunicarmi il loro apprezzamento, ma la curiosità era molto più forte.
Alex ha annuito poche volte, un solo sospiro e poi l’ho visto allungare un palmo verso il mio amico: si sono stretti la mano come se avessero appena concluso un affare e un angolo della bocca dell’americano si è mosso verso l’alto nell’istante in cui Leo ha gesticolato nell’universale movimento del “Ti tengo d’occhio.”.

È in quel momento che Alex si è accorto di me e, fingendo indifferenza, prima mi ha sorriso, poi ha indicato il corridoio con un lieve cenno.
Ora, a distanza di una mezz’ora, mi sto dirigendo verso la camera che divido con Alex combattuta tra la curiosità di sapere cosa si sono detti e la voglia di limonare tutta notte e basta.
In fondo non approfitto di lui da un’intera giornata, visto che non mi pare troppo educato esplorare le tonsille di Alex quando i miei amici stanno seduti attorno a noi a parlare della nostra gioventù.

Entro in camera legandomi i capelli in una coda distratta e, per un secondo, sento il respiro incagliarsi nella gola.
Alex è già nel letto, seduto con la schiena appoggiata al capoletto e le gambe distese, leggermente coperte dal lenzuolo; ha addosso un paio di boxer e una maglietta di cotone grigia che gli avvolge in modo piuttosto piacevole le spalle.

La nuca appoggiata pesantemente contro il bordo della testata e un libro dalla copertina rigida tra le mani, mentre gli occhi scorrono sulle parole delle pagine: i capelli disordinati e un po’ troppo lunghi cominciano ad arricciarsi sulle estremità e ricadono leggermente sulla sua fronte, mostrando la loro vera natura.
Alex è riccio. Cioè, forse non proprio riccio, ma c'è un'onda mossa nei suoi capelli di cui io ignoravo l'esistenza. Non me ne ero resa conto fino ad ora. Non mi ero accorta che in questi mesi in cui si è insinuato nella mia vita i suoi capelli si erano allungati tanto e, ogni volta che ho passato le dita tra quelle ciocche, ho probabilmente contribuito a rompere quei riccioli appena accennati.

Non so decidere se lo preferisco con i capelli più corti o meno, ma so ammettere che il particolare successivo mi strapperebbe un sospiro se non mi stessi controllando: gli occhiali. Porta gli occhiali quando legge.

Siamo onesti: gli occhiali su un uomo che legge hanno un non so che di film porno, di intellettuale sensuale e sensibile, di erotico.
Sì, sono consapevole del fatto che ultimamente i miei pensieri hanno la tendenza a trasformare Alex in un oggetto del sesso, ma sfido chiunque a non trovare sexy Alex a letto, con un libro in mano, il viso rilassato, le difese abbassate e degli occhiali birichini che gli fanno brillare gli occhi.

A me fa un effetto “fuochi d’artificio nelle tube di Falloppio”.
E più lo guardo, più fa caldo.
Insomma, non è bello in senso stretto, ma toglie il fiato. Almeno, lo toglie a me.

"Med, ti vieto categoricamente di indossare di nuovo quella roba nel mio letto." la sua voce mi risveglia dal mio temporaneo stato di calore e mi sorprendo nello scoprire che i suoi occhi non si sono spostati dalle pagine su cui ancora si muovono piano.
"Tecnicamente è il letto di Bet, quindi non hai alcun potere." rispondo avvicinandomi e sollevando la coperta per sdraiarmi accanto a lui, cercando di mascherare tutto quello che mi ha attraversato mentre lo spiavo poco fa.

Alex lascia cadere il libro sulla sua pancia e si sfila gli occhiali, fissandomi.

"Non sapevo portassi gli occhiali..." dico una volta preso possesso della mia metà del letto, ma mi astengo dal fargli sapere quanto bene gli stiano.
Non parla quando mi rotolo ripetutamente per trovare una posizione confortevole. Rimane seduto e immobile a osservarmi; poi, quando intuisce che ho finito di agitarmi come un'anguilla obesa, mi scopre e ordina:

"Scintilla, togliti quel pigiama."

"Non farò le cose zozze con te mentre i miei amici dormono con le porte aperte."
"In realtà l'idea ora mi stimola ancora di più," sorride chinandosi per schioccare un bacio sulle mie labbra, "vorrei verificare se è vero che dormi senza mutande."
Oh, avanti! Il suo testosterone è sicuramente invitante, ma io sono una rompipalle e voglio chiacchierare. Voglio sapere di più e voglio che lui sia curioso di scoprire me, di notare l'effetto degli eventi recenti su di me. Il mio fallimento è stata la cosa più potente degli ultimi anni e, poco a poco, cresce il mio desiderio di mostrare a me stessa chi sono.

"Aleman, mettiti a cuccia: l'aria di montagna mi ha stimolato per un do ut des."
Lui si lascia cadere contro il suo cuscino sbuffando e borbotta: "Way to kill the mood."
“Che è successo, Alex?”

Gli angoli delle sue labbra si increspano lievemente verso l’alto in un sorriso appena abbozzato mentre inforca nuovamente gli occhiali e porta lo sguardo sul libro che ha in grembo. Passa qualche secondo in silenzio, lisciando il bordo di una pagina tra l’indice e il pollice e tenendo gli occhi fissi sulle prime righe del foglio.
Decisa a scoprire cosa frulli nella sua testa biondiccia, mi sposto finché non sono a cavalcioni sulle sue ginocchia, coprendo le parole che attirano la sua attenzione con il palmo della mano e scrutando li sue iridi dietro le lenti.
Ora, facciamo una piccola pausa. Nelle ultime ore ho scoperto due cose davvero sensuali: le caviglie dei maschi - o meglio, le caviglie di Alex in jeans senza scarpe e calze - e Alex con gli occhiali. Non è che in genere abbia l’aria da imbecille, ma la montatura scura che ricalca le sue sopracciglia chiare e le lenti trasparenti sembrano delineare ancora di più i suoi occhi e, sui suoi lineamenti in genere divertiti, conferiscono un’aria seria e riflessiva.
“Aleman? Mi dici che è successo?”

Sospira, trattenendo l’ossigeno qualche secondo e poi soffiando con tanta forza, al punto da far oscillare una ciocca dei miei capelli.

“Stai osservando troppo in queste ore…”
“Rispondi, Alex.”
“Prima quando?”
“Lo sai. Prima, quando eri in cucina con Leo. Mi dici cosa è successo? Do ut des.”

Sì, sono una stronza e sfrutto tutto quello che posso a mio vantaggio. Denunciatemi. Brucerò all’inferno?

Cerca di nascondere un sorrisino compiaciuto, mantenendo la testa china e fingendo di ignorarmi.
“Alex, non puoi non rispondere al Do ut des.”
“Posso eccome.”
“Se non me lo dici, non te la darò più.”

“Ancora con i tuoi inutili e poco credibili ricatti.” ribatte allungando le dita sul mio collo e seguendole con lo sguardo.
Il suo viso è sereno, molto di più di quanto lo sia stato tutto il giorno e la cosa mi provoca un pizzicore in prossimità dell’ombelico: non mi ero accorta di quanto mi dispiacesse vederlo teso e di quanto, al contrario, mi rincuori che sia rilassato ora.

Però mi dispiace sapere che a metterlo a disagio sia stata la presenza dei miei amici; è con quella consapevolezza che una domanda mi balena sulle labbra.

“Perché non ho mai visto i tuoi amici?”

Lui sussulta impercettibilmente, in modo così lieve che non me ne accorgerei se le sue mani non fossero sulla mia pelle e non fossi a cavalcioni su di lui.

“Ultimamente non ho molto tempo per i miei amici.”
“Che cosa orribile da dire.” rispondo aggrottando la fronte, “è qualcosa che potrei dire io.”
Alex tossisce una risata e sposta gli occhi fino ai miei.
“Ce li ho gli amici. Non sono asociale.”

Non ne sono così sicura. Non ha mai nominato un solo amico. Tanto normale non è come cosa.
Scuote la testa e ride, ricominciando a parlare.
“Non sto mentendo. Non ho molti amici, ma ho amici che contano.”

Contano. Oddio: non è che è in qualche gang?

“Contano in che senso?”
“Nel senso che contano per me.”
“E perché non hai tempo per loro se contano?”

Sospira, come fa ogni volta che andiamo troppo sul personale: è istintivamente chiuso come una cozza, ma si sta sforzando. Da un po’ si sta sforzando di parlare si sé, anche se lo fa sempre con una nota malinconica nello sguardo e un po’ la cosa mi disturba.
“Devo lavorare.”

Sì, d’accordo, ma anche il resto del mondo lavora e riesce a intrattenere rapporti con i propri amici.

È così faticoso far parlare Alex di sé che la stanchezza si diffonde lentamente nelle mie vene: vorrei non dovergli cavare una parola alla volta come se fosse un segreto di Stato.
Io sono strana e stronza, ma lui ha una paura patologica di esporsi.

Quindi provo con una tecnica nuova: sto zitta.

Il suo respiro è regolare e sento i polpastrelli tornare a muoversi in modo distratto sulla mia pelle, ma senza malizia. Allontana lo sguardo da me, studiando l’area attorno al mio collo. Poi, inaspettatamente, parla.

“Ho mentito.” inspira profondamente “Li vedo ogni settimana. Li ho sempre visti.”

Istintivamente gli darei un pugno sul naso e lo manderei a farsi benedire per la balla, ma sembra che lasciargli spazio e tempo porti frutti migliori della mia precedente insistenza.

“Non mi andava di farli venire a casa, però…” la frase resta in sospeso e alimenta per un po’ la paura che non l’abbia fatto per non fargli conoscere me, i miei sbalzi d’umore e i miei modi poco, ehm, eleganti.
“Loro sono molto diversi da me. Sono più chiacchieroni… soprattutto quando si tratta di parlare di me.”

Insomma, sono esattamente come i miei amici.

“Voglio bene a ognuno di loro, ma per una volta mi andava di farmi conoscere… senza intromissioni. Insomma…” tentenna, indeciso e potrei giurare di vedere un lieve rossore salire dal suo collo verso il viso “... volevo che vedessi me, non l’idea che hanno gli altri di me. Non il mio passato.”

Glielo devo dire che per ora di lui so pochissimo? O è giusto che mi accontenti? In fondo io devo vivere il presente con Alex, non quello che lui è o è stato con gli altri.
Però è più facile a dirsi che a farsi: io vorrei poter immergere la sua testa in un pensatoio e guardare dentro per sapere tutto. Oltretutto noi siamo anche il risultato del nostro passato: posso conoscere davvero Alex senza che lui condivida con me ciò che ha visto e fatto prima? Come faccio a sentirlo davvero se non so cosa l'ha reso la persona che è oggi? Si può conoscere qualcuno solo con il presente?

“C’è un’altra ragione…” sospira e i suoi occhi si fanno chiari di divertimento quando tornano a posarsi su di me, “... i miei amici hanno tutti una predilezione per le tette grandi.”
Sto immobile qualche secondo, le labbra schiuse per lo stupore e gli occhi spalancati; poi lui si lecca le labbra e ride pianissimo, studiando la mia reazione e aspettando che io dica qualcosa.

Dovrei essere offesa perché è stato possessivo o lusingata? Dovrei dirgli che non sono di sua proprietà? Perché io sono proprietà solo di me stessa e lui questo lo deve sapere, ma la verità è che comincio a provare quello stesso istinto primordiale verso di lui.
Chiaramente lui questo non lo può ancora sapere e, non di meno, va punito per il suo solito atteggiamento da maschio Alfa.

Faccio uno sforzo sovrumano per mostrarmi indignata e per dargli una leggera sberla sulla nuca, ma questo scatena solo la sua ilarità: mi afferra i polsi e li blocca dietro la mia schiena, abbracciandomi e ridendo, cercando di strapparmi un bacio prima di spingermi contro il materasso.

“Sono una bestia, lo so.” sussurra ancora ridendo e strofinando il naso contro la mia clavicola.
“Prepotente e arrogante. Ecco cosa sei.” ribatto tirandogli i capelli “Hai bruciato ogni mia chance con i tuoi amici!”
Lui, con la bocca contro il mio collo, emette un suono che somiglia molto ad un ruggito soffocato.

Alza il viso e mi guarda, lasciandosi sfuggire in un sussurro:
“Non l’ho fatto per nasconderti…”

Oh, avanti!

“Non fare il sentimentale. Potrei vomitarti un arcobaleno nell’occhio.”

Fa un sorriso così grande che su una guancia sembra comparire una fossetta mai vista, ma è solo una piccola ruga. Alex ha le rughe?

“Il problema è che sono un po’ territoriale a volte. E sono un po’ istintivo.”
“Sì, ne ero già consapevole.” ridacchio cercando di spostarmelo di dosso, ma le mie mani sono ancora intrappolate sotto di me e, per la cronaca, siccome non siamo molto leggeri, comincio a non sentirle più.

“Credi di essere in grado di educarti da solo o ci devo pensare io?”
“Te l’ho detto che non sono pratico di relazioni. Posso provarci, ma se faccio disastri cerca di essere clemente.”
Mi limito ad annuire, perché so che anche io farò un sacco di cose sbagliate se andremo avanti: vivi e impara, dicono.
“Ora che le tue ridicole manie di possessione e le tue insicurezze sono state esternate, posso avere l’onore di conoscerli?”
“I miei amici? Non sono così simpatici.”
“Alex…”

Scivola già dal mio corpo, finalmente liberando i miei poveri polsi e sdraiandosi sul fianco per guardarmi.
“Se gli dici che sono una pappamolla con te, giuro che ti lascio.”
“Se sono più carini di te, ti lascio io.”

Lo tiro contro di me e lo bacio lentamente, con pazienza: cerco di parlare con lui ancora in po’, solo in modo diverso.

A volte lo guardo e penso che da un momento all’altro esploderemo: ho paura di discutere con Alex perché in questa coppia non c’è la persona razionale. Siamo fuoco contro fuoco. In tutto quello che facciamo, che sia litigare o toccarci e baciarci. A me e Alex manca l’equilibrio, manca la ragione.

Eppure non so se questo sia un bene o un male: insomma, dove sta scritto che c’è un modo giusto per stare con qualcuno? Non c’è uno schema definito, esiste solo il sistema che ci permette di funzionare nel modo che va bene a noi.

Di regole ne abbiamo tante, ma non sono sicura che servano davvero.
Quando esploderemo, perché prima o poi esploderemo per qualche stupidaggine, forse non ci scotteremo troppo.
Magari avrei dovuto scegliere per me qualcuno che pensa, che riflette, che non si fa annebbiare dal sangue. Ma ho scelto lui: lui, così complesso, così difficile da scoprire, così viscerale. Così diverso eppure simile a me.

L’ho scelto e, onestamente, più lo vivo e più lo voglio tenere.

C’è qualcosa che sto scoprendo di me da qualche settimana: una volta messa da parte la paura, sotto sono viva. Voglio di più per me di quello che avevo.
Posso avere di meglio degli scarti affettivi che mi concedeva L e posso scegliere che direzione dare a me e al mio futuro. L’ho sempre saputo, ma per un po’ il timore di prendermi quello che volevo mi ha annebbiato e mi ha nascosto da me stessa.

Non è Alex che mi ha fatto scoprire che posso avere di più: sono stata io. Liberandomi di L, liberandomi del peso dell’università, liberandomi della paura di non essere quello che gli altri volevano.

E prendendomi chi voglio e cosa voglio. Alex. E soprattutto, me stessa.

Dopo non so bene quanto tempo, abbandono il suo viso per spegnere la luce e tirare le coperte su di noi: lui rotola a pancia in giù, affondando le mani sotto il cuscino e con il viso rivolto verso l’esterno del letto. Io faccio esattamente la stessa cosa dalla parte opposta e sprofondo più che posso sotto le lenzuola.
Niente abbracci per noi di notte. Niente arti addormentati sotto il peso del corpo dell’altro, niente caldo e niente paura di muoversi per evitare di svegliare l’altro. Grazie a Dio Alex sembra avere le mie stesse necessità di indipendenza durante il sonno.

Un punto a noi!

Quando sto per addormentarmi borbotto a voce alta:
“Alex.”
“Mmhh?”

“Mi dici cosa è successo con Leo?”
“No.”
“Stronzo.”
“Se non stai zitta mi troverò costretto a sculacciarti.”
“Promesse, promesse…”

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