Capitolo 10: La Sfuriata

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Stavo guardando il soffitto della mia camera immobile. Ero sdraiato sul letto, intento a stritolare fra le mie braccia il povero Mr.Pudding per gestire lo stress; quei momenti capitavano raramente, eppure ogni volta riuscivano a colpirmi in modo brusco l'animo, quasi come se fosse una piñata.
E così continuavo ad ammirare il blu di quel tetto in silenzio, lasciandomi perforare le orecchie dal rumore assordante del silenzio, che mi rassicurava ma al contempo stesso mi teneva a disagio fra le sue strette fauci.
Perchè doveva essere tutto così complicato? Perchè fra tutte le persone del mondo il destino aveva deciso di farmi incontrare proprio lui? Tante altre domande come queste iniziarono a insidiarsi nella mia testa, ricoprendone come una falda acquifera ogni singolo spazio vuoto. Ogni volta che pensavo a Drew mi veniva in mente solo quella scena, quella dove, per puro egocentrismo, ero riuscito a rovinare il nostro bellissimo rapporto.
I brutti ricordi ricominciarono a tormentarmi, e con essi si fecero sentire sempre di più i rimorsi.

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Avevamo più o meno tredici anni quando il fatto accadde. Durante quel periodo io e Andrew eravamo inseparabili: facevamo ogni singola cosa insieme, e non riuscivamo a stare lontani l'uno dall'altro per più di un paio di ore.
Mi ricordo precisamente dello scenario: ci trovavamo nella sua stanza, distesi sul suo enorme letto a due piazze e mezzo; la stanza era molto semplice allora: il colore dominante era il bianco, e dei mobili pregiati decoravano i muri della cameretta. Al lato del letto si trovava un piccolo comodino con sopra una lampada, e dall'altra parte un grosso armadio specchio; nella parete opposta, invece, si trovava una scrivania con un computer, che ai tempi era considerato il più moderno, un paio di quaderni e libri sparsi sulla superficie legnosa e un portapenne; al centro della stanza si trovava un grosso tappeto morbido, e, infine, accostati alla parete di fronte alla porta si trovavano una libreria e una televisione, con una console attaccata.

Stavamo parlando del più e del meno, principalmente di cose riguardanti i nostri compagni, cartoni animati o videogiochi, e ogni volta che mi scappava una risata lui rimaneva fisso lì a guardarmi, come fossi una qualche sorta di divinità.

<< Ma mi spieghi perchè continui a fissarmi così? >> decisi finalmente di chiedergli, richiamandolo sulla terra dal suo momento di trance.

Lui scosse un attimo la testa, riprendendosi.
<< Oh? Non è niente... è solo che hai un sorriso particolare, dovresti ridere più spesso. >> mi rispose abbassando la testa, per poi giocherellare coi pollici. Io cercai di distogliere lo sguardo in preda all'imbarazzo; i suoi complimenti avevano un qualcosa di ammaliante, d'altronde sapeva giocare molto bene le sue parole.

<< N-non esagerare... >> sibilai io fra i denti, cercando di non scompormi.

<< E invece non sto esagerando! >> esclamò lui infastidito, e subito assunse un broncio tenero.
Restammo in silenzio per un paio di secondi, nei quali io ebbi il tempo di scrutare il profilo angelico del suo volto, e non potei fare a meno di notare la sua espressione. Da un musone era passato a un volto ben più triste, e la mia preoccupazione iniziò a farsi sentire.

<< Hey... cosa ti prende? >> gli domandai io, vedendolo più silenzioso di prima; lui non voleva parlare, e non riusciva nemmeno a voltarsi verso di me.
I suoi occhi erano rivolti verso la coperta che si trovava sotto i suoi gomiti.

<< Dai, mi stai facendo preoccupare! Che c'è? >> riprovai, ma l'unica risposta che ricevetti fu uno sbuffo, che si dimostrò più efficace di mille parole. Decisi di lasciare perdere, rimanendo in silenzio per un paio di secondi.
Poi mi interpellò.

<< Senti... >> sussurrò, con una voce tremolante.

<< Dobbiamo parlare, ho bisogno di dirti due cose. >> aveva un'espressione angosciata, immagino fosse stato duro per lui decidere di confrontarmi.

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