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For Him

Giocare a calcio, per Mario, era l'espressione della felicità. Considerava la sua squadra, il Borussia Dortmund, una famiglia.
Diventare un giocatore professionista era da sempre il suo più grande sogno. E diciamo che da bimbo, quando alla domanda "Cosa vuoi fare da grande?" rispondeva con un "Il calciatore", non si sarebbe mai aspettato di arrivare a disputare una semifinale di Champions League. E proprio mentre si sistemava la divisa, pronto ad andare nel tunnel, si rese conto di quanta strada avesse fatto.

"Ehi, bimbo, tutto okay?" lo risvegliò dai suoi pensieri Marco. Il numero 10 sorrise, "Sono solo un po' in ansia" confessò.
"Noi ce la faremo, basta che ci metti testa e cuore" gli disse Marco, poggiando una mano sulla spalla del più basso. Mario si perse un attimo nelle piccole, quasi invisibili sfumature verdi degli occhi del numero 11. "E se ci metti anche un po' ti tecnica e di gambe, ancora meglio" concluse, facendo ridacchiare Mario.
Il numero 10 sussurrò un "Grazie, biondino" e insieme camminarono verso il tunnel. Mentre passavano fra i corridoi, le mani dei due tedeschi si sfioravano, aumentando la voglia del più basso di afferrarla. Arrivarono e si misero in fila, mancavano otto minuti e sarebbero entrati in campo. Il tempo sembrò trascorrere in un battito di ciglia, e i giocatori del Borussia si ritrovarono uno accanto all'altro in campo. Alla loro destra, c'erano i giocatori del Monaco. L'inno della Champions risuonava per tutto lo stadio; era la semifinale di Champions e nessuno aveva intenzione di mollare, lo 0-0 dell'andata non favoriva nessuno, ma arrivare in finale era un sogno, un sogno che si sarebbe realizzato o che si sarebbe infranto.

[...]

Mario si avvicinò al centro del campo, pronto a battere il calcio d'inizio. Camminò velocemente sul campo verde che tanto amava, prima di poggiare il piede destro accanto alla palla. Gli frullavano in testa ancora le parole di Marco, che da bravo capitano dava la carica alla squadra prima della partita: "Nessuno avrebbe mai scommesso nulla su di noi, e glielo stiamo facendo ricredere. Perché noi siamo il Borussia, guai a chi si arrende, si lotta fino all' ultimo, si vince e si perde. Non si molla neanche un attimo, si vince e si perde. Non c'è storia, qui si fa la storia. Questa notte, si vince e si perde in undici."
Mentre sullo schermo scorrevano le cifre e i tifosi facevano il countdown, Mario pensava solo allo sguardo deciso di Marco e alla sua forza. Perché, sì, Marco era forte. Forte a tornare ogni volta sul campo. Perché nonostante i mille infortuni ne usciva più forte di prima.
Il fischio dell'arbitro arrivò alle orecchie del numero 10 che subito passò la palla a Pierre. Stasera si lotta fino all'ultimo.

[...]

Quella sera si rise, ma non di gusto. Quella sera volarono insulti, ma non per odio. Quella sera si pianse, ma non di gioia.

Mario passò la palla sulla fascia a Pierre, poi effettuò la sovrapposizione, mossa che avevano provato e riprovato in allenamento. Quando il pallone fu di nuovo fra i suoi piedi, il biondo alzò gli occhi per studiare il posizionamento dei suoi compagni. Puntò il difensore biancorosso e riuscì a dribblarlo. Crossò in mezzo all'area piccola e vide Marco saltare, in contemporanea a un difensore francese. Chiuse un secondo gli occhi, poi li riaprì.
Marco era a terra, Felix accanto a lui gli teneva una mano sul naso, l'altra sulla bocca, incitando i medici a correre in campo. A Mario cadde il mondo addosso. Non osava avvicinarsi, così si piegò sulle ginocchia e mise il viso fra le mani. Rimase in quella posizione per qualche secondo, lo stadio era caduto in un silenzio tombale. Nulla era paragonabile ad una pausa di silenzio di più di quarantamila tifosi in un colpo. Il tedesco si rialzò e si girò verso gli spalti. Due ragazze con la maglietta del Borussia piangevano, un ragazzo cercava di consolarle, ma anche lui aveva gli occhi lucidi. Cosa sarebbe successo?
Rifiutò con un gesto della mano l'acqua che gli venne proposta e si guardò intorno. I ragazzi avevano in volto un'espressione preoccupata e smarrita, mentre Marco veniva caricato in barella ancora incosciente e veniva portato fuori dal campo dai medici. Mario non riusciva a capacitarsi della situazione. Era qualcosa di grave? Quando si sarebbe ripreso? Stava bene? Queste domande gli frullavano in testa e la partita era passata magicamente in secondo piano. Incrociò lo sguardo preoccupato di Pierre e non potè che chiudere gli occhi, come aveva fatto un momento prima dell'accaduto.
Guardò il mister, chiedendogli silenziosamente un aiuto, ma lui aveva lo sguardo perso nel vuoto; poi si riprese e guardò i fogli, gli schemi e le tattiche per trovare un sostituto. Si andava avanti.
Mario incrociò lo sguardo di Erik e fu come dirsi "facciamolo per lui".

[...]

Götze si accentrò e portò la palla sul piede destro. Non alzò nemmeno lo sguardo, e calciò deciso in direzione della porta. La palla fu deviata da un difensore, ma terminò in rete. Lo stadio esplose in un boato, Mario intanto sorrideva e iniziò a correre verso la panchina. Abbracciò velocemente Erik, sussurrandogli un "Per lui" e poi continuò la sua corsa. Abbracciò il mister per poi fiondarsi sulla panchina, rovistò fra le varie pettorine e felpe, finché non la trovò. La prese e schivò i compagni di squadra, andando vicino all'angolo del campo. Alzò la maglia, mostrandola al pubblico e alle telecamere. Era la maglia numero 11, quella di Marco, sapeva che ognuno che ne aveva più di una, per ogni evenienza.
Gli dedicò il gol che li avrebbe portati in finale. Era per lui. Il suo biondino.

mario alla premiazione dei mondiali 2014 con la maglia di marco ↴

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