Capitolo ventiquattro-Erica

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Osservai la foto per un tempo indeterminato. Sentivo soltanto le orecchie fischiare e il cuore battere veloce. Mi sembrava che tutto si fosse fermato intorno a me. Non poteva essere vero. Doveva essere frutto della mia immaginazione oppure si doveva trattare di un terribile incubo. Doveva essere così.

Quello era Kyle. Era chiaro. I suoi occhi azzurri erano gli stessi di adesso, ma quelli erano più tristi e cupi. Il viso pallido e gracile, con i capelli biondi scompigliati dappertutto. Sembrava così solo, così piccolo e indifeso. Sentii una morsa al cuore e gli occhi si riempirono di lacrime. Perché stavo piangendo? Perché il ragazzo di cui ero innamorata era stato un paziente della mamma e non me l'aveva detto? Oppure solo per la grande tristezza che Kyle aveva dovuto sopportare da piccolo?

L'occhio mi cadde sulle sue generalità. Notai un fiore disegnato a penna accanto al suo nome. Aggrottai le sopracciglia accigliata e mi sembrò che il mondo mi cadesse addosso completamente. Forse era il bambino di cui la mamma mi aveva parlato più di dieci anni prima, quello che stavo cercando da sempre. Il bambino del linguaggio dei fiori.

Lui sapeva fin dall'inizio chi ero. Su questo non c'erano dubbi. Forse era per quel motivo che le cose tra di noi non erano partite con il piede giusto. Forse era per questo che all'inizio mi odiava. Era stato un bastardo. Aveva taciuto della sua vita per chissà quale assurdo motivo. Proprio quando credevo che le cose tra di noi si stessero evolvendo per diventare qualcosa di più di una semplice conoscenza o amicizia. Invece mi sbagliavo di grosso. Mi aveva presa in giro. Mi aveva trattato male perché me lo meritavo, secondo lui. Poi aveva presa a trattarmi con condiscendenza e infine aveva pure iniziato a costruire un qualcosa con me. Ma è possibile costruire quel qualcosa quando si parte alle fondamenta da una menzogna? Mi sentivo tradita, pugnalata alle spalle. Era peggio di qualsiasi altra cosa che potesse fare. Non si fidava di me. Oppure voleva che non sapessi nulla della sua vita. Probabilmente ci sarei passata sopra se fosse stata una cosa da niente, ma quella non mi sembrava una notizia così insignificante. Una parte di me era convinta che anche la signora Kirk ne fosse a conoscenza. Anche lei aveva fatto finta di nulla, come se fossi una persona come un'altra. E Catherine? Pure lei sapeva la verità, ma aveva taciuto? Mi avevano tutti ingannata?

Riposi i documenti dove si trovavano prima. Mi asciugai gli occhi con il maglione e uscii dalla stanza. Salii le scale di corsa ed entrai in camera, chiudendo la porta. Mi tolsi i vestiti e li buttai in un angolo indefinito della stanza. Presi il telefono e lo strinsi forte nella mano. Una rabbia crescente mi rodeva dall'interno. Dovevo sapere tutto. Volevo sapere. Il fatto che le uniche persone a cui tenessi nella mia vita potessero avermi mentito su una cosa così importante mi faceva stringere i pugni e riempire gli occhi di lacrime di rabbia.

L'indomani sarei andata da Kyle. Avrei cercato prove che mi dessero la certezza che era lui il ragazzino del linguaggio dei fiori. Non m'importava più di saggiare ogni mia messa per costruire un qualcosa con lui. Volevo qualcosa di vero, non una bellissima finzione. E se per farlo fosse stato necessario usare mezzi non proprio educati, l'avrei fatto.


Quella notte dormii male. Continuavo a rigirarmi nel letto perché ogni posizione sembrava essere scomoda. Non riuscivo a togliermi dalla testa la foto di Kyle da bambino. Mi tormentava appena il sonno provava ad avvolgermi.

Riuscii ad addormentarmi solo all'alba, quando già intravedevo i raggi deboli del sole entrare tra le tende della stanza. Quella mattina non dovevo andare al lavoro. Era sabato.

Mi alzai qualche ora più tardi, quando ormai il sole era alto in cielo, nonostante fosse coperto dalle nuvole. Infilai i primi vestiti che trovai. Non mi guardai allo specchio. Scesi le scale, senza salutare i miei genitori. Filai dritta verso la mia macchina e accesi il motore. Guidai fino a casa di Kyle. Parcheggiai sul vialetto e uscii come un uragano. Il portone principale era aperto come sempre. Scesi le scale che portavano allo studio di Kyle. Non pensai a nulla, in quel momento. Non mi soffermai sul fatto che se fossi entrata gli avrei dato la certezza che sapevo dello studio. Non diedi nemmeno importanza al gesto che stavo per compiere.

Misi la mano sulla maniglia e aprii la porta. Non c'era nessuno. La richiusi alle mie spalle e mi guardai intorno. Era un ambiente semplice: c'era una scrivania con alcuni appunti sopra, una sedia, una libreria piena di libri di cui non sapevo nemmeno pronunciare il titolo e una lavagnetta con del gesso. Non mi ci volle molto per capire su cosa vertevano i suoi studi. Mi bastò dare un'occhiata agli appunti sulla scrivania, su cui era disegnato un fiore bellissimo con accanto diverse didascalie in una scrittura elegante e raffinata. Kyle era il paziente che stavo cercando da più di dieci anni. Il paziente del linguaggio dei fiori.

Sentii le lacrime pizzicarmi gli occhi. Cercai di trovare il lato positivo di tutta quella situazione, ma non lo trovai. Sorrisi triste e restai ferma sul posto. Non riuscivo a credere che quella situazione fosse vera. Per tutto quel tempo avevo cercato il paziente della mamma e ce l'avevo avuto sotto il naso, senza nemmeno saperlo. Ma lui lo sapeva. E anche la signora Kirk. Forse Catherine pure. Mi sentivo così stupida per non aver capito prima quello che stava succedendo. Ero stata ingenua.

Mi trovavo in quella situazione e non sapevo cosa fare. Come mi sarei dovuta comportare con Kyle? E con Catherine? Dovevo arrabbiarmi? Oppure cercare di perdonare dopo una discussione? Mi sentivo così disorientata.

Volevo solo andare via di lì. Mi sembrava che la stanza stesse per risucchiarmi nell'oblio. Mi asciugai una lacrima solitaria che mi aveva solcato la guancia fredda. Ero patetica. La rabbia di poco prima tornò più prepotente di prima. Ebbi l'impressione che mi risucchiasse fin nel profondo, tanto da farmi rodere ogni organo e muscolo del corpo. Se c'era una cosa che odiavo con tutta me stessa erano le menzogne. E in quella situazione ce n'erano già fin troppo per tollerarle tutte senza che facessi niente. Era tempo di mettere un punto a quella storia, senza se e senza ma. Era tempo di agire.

Mi girai verso la porta e sospirai. Una parte di me si aspettava di trovare Kyle appoggiato allo stipite ad osservarmi da chissà quanto. Ma non fu così: magari in un altro mondo era successo, però in quello in cui vivevo io quella rimaneva solo una vana aspirazione.

Raggiunsi velocemente la porta dello studio e la chiusi dietro di me, cercando di produrre il minor rumore possibile. Senza voltarmi ulteriormente, salii le scale e uscii fuori da lì, finalmente all'aria aperta. Il cielo era coperto da diverse nuvole grigie che facevano presagire un terribile temporale. Mi sembrava già di sentire l'odore delle zolle di terra bagnate dall'acqua piovana e l'asfalto grigio che diventava ancora più scuro ogni minuto che passava.

Nessuno sembrava aver notato la mia auto parcheggiata nel vialetto. Ringrazia il cielo e salii nella vettura. Un leggero tepore mi riscaldò le ossa e mi diede la forza di allontanarmi da lì il prima possibile.

Mi sentivo così sola, abbandonata da chiunque. I miei genitori si erano distaccati da me anno dopo anno, fino ad arrivare alla situazione attuale in cui ci si scambiava solo i convenevoli. Non sapevo se la mia migliore amica mi avesse mentito insieme a tutti gli altri, ma in una parte remota sapevo che era così. Le uniche che mi rimanevano erano le mie zie. L'ultimo pezzo della mia famiglia e l'unico accenno di un rapporto d'amicizia e fiducia.

Per quei motivi, non ci pensai due volte prima di dirigermi a casa loro. Avevo bisogno di qualcuno in quel momento, solo per cercare di convincermi che non tutto il mio universo fosse crollato.


Erica, un genere di piante comprendente specie sempreverdi. Nel linguaggio dei fiori indica la solitudine. 

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