Capitolo ventuno-Gardenia

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Avevo il fiatone. In quel momento mi sarebbe piaciuto essere come Catherine: lei amava lo sport e correva praticamente ogni giorno. Era grintosa e riusciva a percorrere tutta la città senza mostrare il minimo segno di stanchezza o cedimento.

Praticamente il contrario di me. Avevo appena percorso qualche metro di corsa che già sentivo il respiro affannoso. L'aria che mi entrava nei polmoni sembrava come aghi acuminati. Mi pareva di avere le gambe di gelatina. Maledissi me stessa per non essermi mai preoccupata di curare il mio corpo attraverso lo sport. Ma, d'altra parte, non era colpa mia se non ero portata al movimento. Preferivo di gran lunga trascorrere il tempo libero a leggere un bel libro in poltrona o a disegnare comodamente nella mia stanza.

Probabilmente non arriverò mai da Kyle, pensai. Sono stata un'ingenua a pensare di poter anche solo fare una pazzia del genere.

L'aria fresca mi sferzava la pelle. Le macchine sfrecciavano lungo la strada accanto a me. I negozi sfilavano sotto i miei occhi, così come le persone che si affaccendavano lungo i marciapiedi. Pensai a come avessi vissuto per tutti quegli anni. Ero sempre stata una ragazza obbediente e ligia al dovere. Avevo dedicato la maggior parte della mia vita agli studi e al disegno. Ero diventata la persona che desideravo essere. I miei genitori mi amavano, le mie prozie mi adoravano. Avevo Catherine, ero felice ogni mattina quando mi svegliavo.

Eppure sentivo un peso proprio sul cuore. Avevo tutto quello che desideravo, sì. Ma mancava ancora qualcosa per raggiungere la perfezione. Pensai a cosa mai potesse essere mentre mi allontanavo sempre di più dal centro abitato. Le macchine che prima sfrecciavano una dopo l'altra, da quel tratto divennero sempre di meno. Le ginocchia mi dolevano terribilmente. Rimuginai su tutti quegli anni trascorsi tra i banchi di scuola. Mi vennero in mente diversi episodi accaduti in diversi momenti della mia vita: il primo giorno di scuola, le rivalità tra i compagni, il rapporto amore-odio che nutrivo verso i miei insegnanti. Ricordai il primo giorno delle superiori, quando non sapevo come orientarmi per i lunghi corridoi. Sorrisi ripensando alla mia ricerca disperata dell'armadietto e alla prima persona in cui mi imbattei: Francis. Stavo correndo avanti e indietro perché non riuscivo a orientarmi tra tutta la folla presente, quando diedi una cartellata ad un ragazzo di fianco che cadde sonoramente sul linoleum percorso da altri mille studenti o più. Ricordai nitidamente il suo sguardo perso che si posava su di me e la sua imprecazione poco carina nei miei confronti. Sì, la mia vita non era mai stata un cliché. Sarebbe potuta nascere una favolosa storia d'amore tra noi due, in cui io ero la ragazza studiosa e lui il capitano della squadra di football della scuola. Ma Francis era tutto fuorché il mio tipo ideale di ragazzo.

Quasi non mi accorsi di essere arrivata fuori casa di Kyle. Mi si mozzò il fiato in gola per la troppa ansia del momento e sperai con tutto il cuore che quello strazio finisse il prima possibile. Lanciai giusto una rapida occhiata in direzione della casa, ma cercai di non far soffermare troppo il mio sguardo su di essa. Non volevo rischiare di essere sorpresa a cercarlo con gli occhi.

Respiravo affannosamente. Non riuscivo più a correre con lo stesso ritmo di prima e sentivo che le gambe sarebbero cedute da un momento all'altro. Pregai di arrivare sana e salva a casa quella sera. O, almeno, con tutte e due le gambe ancora integre. Ancora non riuscivo a capacitarmi di come Catherine riuscisse a sopportare un simile tormento ogni giorno. Era impossibile per me.

Rallentai mano a mano che avanzavo. La casa di Kyle era poco lontana da me, ma comunque non riuscivo più a scorgerne nitidamente i particolari visibili da vicino.

E poi sentii un suono. All'inizio fu quasi impercettibile, come se il vento avesse smosso le foglie di uno dei tanti alberi lì vicino. Poi però divenne più insistente. Non provai paura, in quel momento. Sapevo benissimo cos'era quel rumore e il mio cuore divenne più leggero. Cercai di non sorridere e mi sforzai di mantenere un'andatura accettabile. Sperai con tutta me stessa che i capelli non fossero così disordinati come credevo. Con la coda dell'occhio, provai a scorgere un paio di scarpe.

-Sei così veloce che ti ho raggiunta camminando.- la voce di Kyle mi arrivò alle orecchie come una melodia conosciuta e amata.

Il cuore cominciò a battere forte nella cassa toracica e mi si bloccò il respiro in gola. Mi fermai del tutto perché volevo vederlo. Mi voltai e lo vidi al mio fianco. La prima cosa su cui i miei occhi si posarono fu il suo sorriso così contagioso.

-Probabilmente è perché hai le gambe più lunghe delle mie.- risposi semplicemente, spostando lo sguardo sui suoi occhi azzurri. Era quasi sera, ma con la poca luce rimasta continuavano a brillare come se ci fosse stato ancora il sole.

-Siamo alti quasi allo stesso modo. Mi dispiace, ma la tua scusa non regge.- sorrise ancora di più e infilò le mani nelle tasche dei suoi jeans scuri.

--Perché sei qui? Mi spiavi dalla finestra per caso?- non spostai lo sguardo dai suoi occhi, e nemmeno lui sembrò voler cedere.

-Mia madre ti ha vista passare dalla finestra. Mi ha chiesto di venirti incontro, giusto per assicurarmi che stessi bene.- notai il suo sguardo spostarsi velocemente sul mio viso, cercando di notare i più piccoli particolari.

-Quindi si è trattato di pura formalità?-

-Pura formalità, esatto.-

Ci guardammo senza dire nulla. Non era uno di quei silenzi imbarazzati, ma uno di quei silenzi tranquilli e sereni. Perché, anche se non ci stavamo dicendo niente, mi parve che ci fossimo già detti tutto il necessario.

Cominciammo a camminare l'una di fianco all'altro. Le scarpe eleganti di Kyle cozzavano sull'asfalto creando un suono piacevole, mentre le mie di ginnastiche sembravano sfigurare accanto alle sue. Strinsi tra le mani il ciondolo verde che mio padre mi aveva regalato tanto tempo prima. Lo consideravo come il mio portafortuna e non lo toglievo mai, nemmeno per andare a letto.

-Perché mi ha chiesto il mio indirizzo se lo conoscevi già?- chiesi soltanto. Era dalla sera prima che mi stavo tormentando con quella domanda.

-Non saprei come giustificarmi, quindi prenderò in prestito un termine che mia madre mi affibbia sempre, ovvero "scuse". La mia era solo uno scusa. Per discutere, ovviamente.- lo guardai con la coda dell'occhio e non mi sembrò fosse turbato guardando il suo aspetto. Ma non mi sfuggì la ruga sulla fronte che gli si formava quando era in difficoltà.

Ridacchiai sentendo la sua affermazione. Era un tipo davvero bizzarro.

-E tu perché mi spii sempre mentre sono nel mio studio?-

E smisi di ridere.


Gardenia, genere di piante della famiglia delle Rubiaceae(comprende specie di piante legnose), presente in Asia, Africa e Oceania. Nel linguaggio dei fiori indica la sincerità.


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