IV

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Poco dopo l'intervento di Gringoire, il curato venne trascinato via e chiuso in una minuscola stanza, appena sotto il livello del terreno. Non c'era luce, fatta eccezione per una sottile feritoia che lasciava passare solo un minimo refolo d'aria e qualche bagliore. Lo gettarono dentro, senza dire una parola, e lui non poté reagire, poiché il piede ferito glielo impediva. Si sedette in un angolo, in silenzio, stringendosi nella veste nera e nel mantello. Cosa sarebbe successo ora? Forse il poeta li aveva dissuasi dall'ucciderlo, ma, con ogni probabilità, si trattava di una cosa temporanea. Non nutriva nessuna aspettativa o speranza. Non avrebbe lottato, ma aspettato.
Pierre non fece altro, non osò sfidare ulteriormente il popolo zingaro, temendo una ripercussione sulla sua persona. Per quanto tenesse al suo maestro, teneva molto di più alla propria pellaccia e aveva intenzione di vivere ancora a lungo. Si tenne quindi lontano dal luogo in cui lo avevano rinchiuso e si guardò bene dall'esprimere qualsiasi commento a riguardo.
Per i gitani, quel popolo fratello della miseria, in pochi giorni il pensiero del prigioniero divenne poco più che un ricordo. Tutti sapevano della sua presenza, ma nessuno ci faceva caso. L'unica persona che, forse, ne rimase scossa anche parecchi giorni dopo, era la Esmeralda. Ella faticava a chiudere occhio la notte, anche con la capretta al suo fianco e non faceva che rimuginare sulla presenza di quell'orribile ombra nella sua adorata Corte e temeva potesse fuggire e ghermirla ancora. Ma una parte di lei, quella di bambina, le sussurrava all'orecchio che tale trattamento era stato fin troppo crudele e non avevano fatto altro che dare un pretesto al popolo di Parigi di dare loro la caccia. In più aveva cominciato a provare pena per quell'essere così misero, che non aveva detto una parola da quando era stato portato lì, che non aveva opposto resistenza e non aveva pregato di lasciarlo andare. Si era arreso alla situazione e solo una volta aveva esitato: quando l'aveva vista.
Rabbrividiva, la piccola, sentendosi ancora quegli occhi viscidi addosso, tuttavia... La zingara agitò una mano davanti al viso, come a scacciare un insetto, quando l'unica cosa che voleva mandare via erano i propri pensieri. Lei voleva Phoebus al suo fianco, lo rivoleva. Sapeva fosse vivo, ma non dove si trovasse, cosa facesse. Perché non aveva chiesto di lei, perché non l'aveva soccorsa a Notre Dame?
Fu un mattino, non riuscendo più a colmare il vuoto lasciato dal capitano con i soli ricordi, che prese una decisione per lei tanto sofferta. Doveva chiedere al prete, a lui che sembrava sapere tutto di chiunque. Si armò di una candela, così da poter avere un minimo di illuminazione nella stanza improvvisata a prigione, e tenne nascosta sotto la gonna una lama sottile, in caso di necessità.
Con grazia e passo felini si infilò nella cella e non avrebbe emesso nessun rumore se i cardini e la serratura non avessero prodotto tanto fracasso.
Entrambi, appena i loro sguardi si incontrarono, rivissero gli istanti passati alla Santè, ma ora i ruoli erano invertiti: lui imprigionato, lei carceriere.
L'arcidiacono rimase poggiato al muro, seduto su un pagliericcio improvvisato. Non si muoveva, fatta eccezione per il lento alzarsi ed abbassarsi del petto. In un primo momento la luce prodotta dalla candela gli ferì gli occhi, ma ben presto si abituò e grazie ad essa poté scorgere nuovi particolari della stanza - come un grosso topo morto vicino ai suoi piedi - e il volto dell'ospite.

- Mi aspettavo il boia, non te. -

La voce dell'uomo era bassa, rauca, strascicata come quella di chi fatica a respirare.

- Non abbiamo boia qui. -

Replicò lei con tono freddo, rimanendo immobile, a pochi passi da lui. Anche con quella poca luce era evidente il dimagrimento del curato. Aveva il viso scavato, segnato da quella vita che stava conducendo nel buio e con i pochi viveri che gli portavano. Pareva ancora più pallido, infreddolito, debole. Esmeralda, abbassando gli occhi, vide che la caviglia offesa era in condizioni terribili: le ferite non erano state curate e si stavano trasformando in piaghe dolorose e, probabilmente, infette.

- Non ne avete, eppure eccomi qui... -

La voce dell'uomo la strappò a quei pensieri, impedendole di arrivare a provare pietà.

- Voglio sapere dove si trova Phoebus. - Tagliò corto la piccola, con il tono sicuro. - Voglio saperlo adesso. -
- Come potrei saperlo? Sono chiuso qui da quanto, giorni? -
- So che sapete dirmi dove potrebbe trovarsi. -

L'arcidiacono provò a muoversi, ma ogni sforzo gli richiedeva un dispendio di energie enorme e la testa e la caviglia gli lanciavano fitte di dolore. Gemette sommessamente, per poi sospirare e rinunciare nell'impresa.
Come aveva fatto a ridursi così? Non era altro che il fantasma dell'uomo che era fino a pochi giorni prima, ma l'oscurità e l'immobilità perenne lo avevano privato di ogni forza e la prigionia aveva piegato il suo animo già tormentato. Né la preghiera, né qualsiasi altra cosa - che fosse pensare a qualche testo che aveva imparato a memoria o all'alchimia - sembrava aiutarlo a rendere meno opprimente quella infinita attesa. In più, probabilmente, la febbre aveva cominciato a insinuarsi nel suo corpo, partendo proprio dalla caviglia non curata. Si sentiva come un guscio vuoto, oppure un vaso, al cui interno non si era raccolta che polvere.

- Non chiedermi di lui. -
- Parlate! Mi avete tormentata e tolto quello che amavo! Voglio sapere! -

Pestò i piedi, come una bambina che fa i capricci. Appena se ne rese conto rilassò leggermente le spalle, ma rimase comunque ferma nella sua posizione, guardando con sprezzo lo sventurato.
Claude Frollo voltò la testa di lato, sospirando profondamente.

- Da quanto sono chiuso qui? -
- Io voglio sapere. -
- Prima rispondi, zingara. -

La Esmeralda fece una smorfia, cercando di ricordare.

- Una settimana, più o meno. -

Frollo rimase in silenzio qualche secondo, cercando di richiamare alla mente un ricordo, un'informazione importante.

- Domenica lo troverai alla cattedrale. Si recherà lì di mattina. -
- Molto bene. -

Si voltò, avviandosi verso la porta, per andarsene, ma si bloccò quando l'uomo riprese a parlare.

- Tuttavia ti chiedo di non andare. -
- Perché dovrei ascoltarvi? Volete solo il mio male, per questo mi dite di non andare. -

Lo osservò con la coda dell'occhio e lo sentì sospirare sommessamente. Quel sospiro non le fece venire la pelle d'oca, bensì le infuse uno strano disagio, poiché si sentiva meschina a tenerlo rinchiuso lì, nonostante tutto.

- Ti sbagli, gitana. So cosa ho fatto, lo so bene. Ma che senso avrebbe parlartene ora? Non mi crederesti nemmeno. Se davvero vuoi andare, allora fallo. Ma se continuerete a tenermi qui, qualcuno verrà a cercarmi. -
- Chi? Quasimodo non si allontanerà dalla cattedrale. So anche che non siete amato a Parigi, perché incutete terrore a tutti. Vi chiamano stregone e nessuno verrà per voi. -

La zingarella si morse un labbro, nascosta in quella semioscurità. Da dove le veniva tutta quella cattiveria? Era strano che provasse tanto risentimento con qualcuno, ma era come se lui riuscisse, con la sua sola presenza, a tirare fuori il peggio di lei. Forse era proprio per quello che lo odiava. Lo odiava anche per averla perseguitata, per aver tentato di farla sua, ma una piccola parte di lei non riusciva a non provare pietà. Era solo, completamente. Nessuno lo aspettava, nessuno avrebbe sentito la sua mancanza, non come per lei, che aveva tutta la Corte ad attenderla.
La stupì che, nemmeno a quelle parole così fredde e dure, l'arcidiacono non avesse reagito minimamente, fatta eccezione per un lamento soffocato.

- Perché fate così? -
- Come, ragazzina? -
- Non reagite. Non avete reagito nemmeno quando vi hanno portato qui e torturato. -
- Sarebbe servito? -

Replicò con tono calmo, rassegnato. Quel tono riuscì a scuotere appena la Esmeralda. Non riusciva proprio a capirlo quello strano prete. Non teneva forse alla sua vita? Avrebbe potuto tentare di riavere la sua libertà, invece aveva taciuto e ancora non aveva chiesto di essere liberato.
La zingara non rispose. Uscì dalla stanzetta, con quella domanda rivoltale che le ronzava in testa. Non sarebbe servito, no, perché i suoi fratelli e sorelle non avrebbero permesso che lui se ne andasse senza aver pagato. Lui lo aveva capito e lo aveva accettato. Ma, comunque, la piccola sentiva che c'era altro, oltre quello. Sentiva il dolore nella sua voce, una fredda rassegnazione tipica solo di chi non ha nulla da perdere, di chi non è mai stato libero. Ma la sua mente di bambina si liberò presto di quegli amari pensieri, solo per lasciare il posto al ricordo del biondo cavaliere e alle aspettative che l'incontro, ormai prossimo, le suscitava. Difatti, la Esmeralda, si era ritrovata distratta dai suoi sogni ad occhi aperti, come quei bambini che, mentre fanno i capricci, vengono facilmente persuasi da un dolce o un gioco.
Libera, ormai, dal peso opprimente di quell'ombra che sempre la seguiva, la sua mente era stata completamente assorbita da canti, balli e dal desiderio di rivedere il suo Sole, il suo Phoebus.
Così si era ritrovata, la domenica mattina, ad indossare le vesti più belle e colorate che avesse, a pettinarsi i lunghi capelli corvini e adornarli di piccoli ninnoli color oro. Voleva essere bella per lui, voleva la guardasse come l'aveva guardata quando l'aveva portata al Valdamore, voleva i suoi complimenti. E lei li avrebbe accettati, dimostrando la sua approvazione con carezze fugaci e fusa, prima di baciare le sue labbra ancora una volta. Allora corse, la piccola, stando attenta ad evitare eventuali ronde in città, fino ad arrivare nella piazza di Notre Dame, con il fiato corto e il petto che scoppiava per la corsa e per l'eccitazione.
Ma la felicità morì presto, come un focolare su cui viene gettata la cenere. La piccola gitana si spense, guardando con orrore il capitano, vestito a festa, che accompagnava una donna vestita di bianco. Egli guardava quella ragazza bionda e delicata, la stessa che Esmeralda aveva già visto in sua compagnia, e la stringeva piano per la vita, salendo gli scalini che li avrebbero condotti in chiesa. Una discreta folla si era raccolta attorno a loro e li acclamava, li incitava, lanciava loro piccoli fiori candidi. Atterrita, la Esmeralda si coprì la bocca con le mani, sentendo le lacrime bruciarle gli occhi e minacciare di uscire, mentre il suo corpo tremava come una foglia al vento, per la delusione e il dolore. Singhiozzando si trascinò all'ombra  di una casa, permettendosi solo allora di piangere.
Sapeva cosa quei vestiti, cosa tutti quei fiori e quella gente volessero dire: lui si stava sposando e l'aveva dimenticata. Sì, dimenticata perché, se gli fosse mancata, allora si sarebbe accorto di quella rosa che lo attendeva lì vicino, sì sarebbe accorta di quella tavolozza di colori al suo fianco, che spiccava tra tante pallide figure. Si sentiva come un animale ferito, la piccolina. Si sentiva come il cane che, dopo tanto amore dato al padrone, viene picchiato per aver abbaiato una volta di troppo.

- Sapevo di trovarti qui. -

Una voce conosciuta raggiunse le orecchie della gitana e lei fece un passo indietro, come se fosse stata colta a rubare.

- Pierre... -

Lo guardò con gli occhi rossi e le guance rigate dalle lacrime. Il suo volto di bambina era piegato in una smorfia di dolore, un dolore acuto che nasceva da dentro, dal suo cuore. Esso non batteva più, sembrava essersi fermato, frantumato. Non rimanevano che cocci di quell'organo che, fino a poco prima, correva tanto forte al pensiero del capitano, e ora giaceva in pezzi sul fondo del suo petto.

- Cosa ci fai qui? -

Disse lei con stizza, cercando di apparire forte davanti a quell'uomo strappandosi le lacrime dal viso con le mani.
Lui la guardava impietosito, poi alzò gli occhi verso Notre Dame.

- Ho voluto dire a Quasimodo in che situazione si trovasse il suo maestro. Era necessario. Poi ho saputo del matrimonio e mi sono detto che saresti venuta, per un motivo o per un altro. Ma immagino tu non sapessi si dovesse sposare. -

Cercò di posare una mano sulla spalla sinistra della ragazzina, ma lei si scostò, mordendosi le labbra.

- Non toccarmi! -

Singhiozzava ancora, senza riuscire a calmarsi, con altre calde lacrime che le solcavano il viso. Ormai era un fiume in piena e non si sarebbe arrestata fino a che non avesse voluto. Non sarebbero servite parole o gesti per confortarla. Nessuna persona, dopo una delusione, può essere curata. Allora ci si lecca le ferite, piano, perché non facciano altro male; lo si fa ogni giorno, per tanto tempo, fino a che non rimangono che cicatrici. Ma quella prassi non era che all'inizio per la zingarella e avrebbe capito quanto ancora avrebbe dovuto soffrire, prima di dimenticare, prima di lasciarsi tutto alle spalle. E nel caso di una delusione amorosa è tutto più difficile, più duro da superare, perché l'anima comincia a legarsi a quella dell'amante, a fondersi con essa, ma quando ci si separa, si crea uno strappo difficile da ricucire.
La Esmeralda scosse la testa, facendo tintinnare i piccoli gioielli incastonati tra le ciocche. Non voleva e non poteva crederci. Quindi fuggì, lasciando il poeta di sasso, senza che potesse trattenerla o cercare di capire. Corse, la bambina, corse come una cerva inseguita dal cacciatore e si rifugiò nel calore della Corte dei Miracoli. Ma niente avrebbe potuto consolare quel cuoricino, nessuna parola l'avrebbe confortata.
Intanto, lontane, le campane di Notre Dame venivano suonate a festa da Quasimodo, ma in esse non c'era gioia o sentimento, solo meccanicità, solo suoni frutto di un rito conosciuto da sempre: non c'era anima. Quasi ottocento piedi più in basso, Gringoire osservava i bassorilievi della cattedrale, poi la coppia di sposi che usciva dai portoni. Se solo tutti loro, pensò, fossero stati più poeti e meno uomini, avrebbero vissuto molto meglio, riservando l'amore per una musa, invece che per un altro corpo; o, ancora, per un edificio, per la letteratura, la scienza, la religione. Qualsiasi cosa, ma non un corpo.
Egli si passò una mano tra i capelli, scacciando con quel gesto qualsiasi sua preoccupazione perché, in fondo, lui non voleva finire appeso ad un cappio, e si mise a pensare a quale tema dare alla sua prossima opera.

Si Vis Amari, AmaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora