IX

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Fiordaliso non riusciva proprio a capire il marito, che da qualche giorno aveva preso il vizio di chiudersi nella loro stanza, immerso in pensieri scuri e pesanti, che sembravano avergli offuscato il volto, prima di allora sempre splendente. Lui, che era l'incarnazione del Sole, era stato rabbuiato da nubi presenti esclusivamente nella sua mente e la ragazza lo aveva visto chiaramente. A nulla erano valse le sue fusa da giovane sposa, Phoebus non aveva occhi che per uno strano quaderno. La ragazza, allora, si era rassegnata e lo aveva lasciato fare.
Una volta aveva osato sfiorare quell'oggetto, chiedendo al soldato di cosa si trattasse, ma questo le aveva afferrato il polso, lasciandole evidenti segni rossi sulla pelle bianchissima. Fiordaliso lo aveva guardato spaventata, dicendogli che le stava facendo male, ma il marito sembrava non sentirla e la fissava, da sotto le sopracciglia aggrottate, con una strana luce negli occhi. Da quel momento non si era più avvicinata al quaderno o a lui mentre leggeva. Ne era ossessionato e l'ossessione è un tipo di gelosia deformata, una delle malattie più pericolose per l'uomo.
Phoebus era rimasto come stregato da quegli appunti, a volte sconnessi, a volte talmente vividi da fargli vedere, sotto le palpebre, quello che stava leggendo.
Il cavaliere si lisciò i baffi, seguendo con un dito le lettere sulla pagina. Aveva scoperto parecchie cose interessanti: come quello stolto prete si fosse innamorato della gitana, di come fosse invidioso del sentimento che lei nutriva proprio nei confronti dello stesso Phoebus; capì di come l'avessero nascosta nella cattedrale, seppe di quello che lui aveva cercato di farle poi più niente. Da quel momento in poi le pagine erano vuote e non c'era alcun indizio su dove potesse trovarsi il curato, oppure la zingara.
Il soldato fece una smorfia, alzandosi e cominciando a misurare la stanza a grandi passi. Aveva bisogno di sapere! Necessitava di scoprire il loro nascondiglio, così da poter riportare la zingara nelle prigioni e consegnare l'arcidiacono al tribunale. Due piccioni con una fava e i riconoscimenti sarebbero andati a lui solo. Sogghignò, guardando fuori dalla finestra. Presto sarebbe arrivato a capo di quel dilemma, avrebbe messo fine a quelle stupide ricerche e si sarebbe preso quello che gli spettava di diritto: fama e onori.
Uscì velocemente dalla stanza, superando anche la moglie, che non riuscì a fermarlo o dire nulla. Era una situazione che cominciava a starle stretta, soprattutto perché si sentiva ignorata, presa in giro. Sapeva, infatti, che suo marito non era esattamente virtuoso, anzi, passava le sere tra le gambe di qualche prostituta o con le labbra incollate ad una fiasca di vino, preferendo tutto ciò a lei. Eppure Fiordaliso non poteva fare altro che sentirsi attratta da quel viso, da quei modi sicuri, anche se rudi, a volte. Non riusciva a dirgli no, a rimproverarlo per la vita che conduceva, per la vergogna che le faceva provare quando alle sue orecchie giungevano storie su storie riguardo le serate dell'uomo. La bionda sospirò, lisciandosi il vestito e scuotendo la testa.

- Finirà nei guai, prima o poi... - 

Sussurrò, tornando a sedersi vicino al balconcino, riprendendo il ricamo che stava facendo.
Va precisato, però, che il nostro pomposo cavaliere non era esattamente una persona cattiva. Nessuno nasce crudele e lui non lo era mai stato. Phoebus era, in realtà, affamato di gloria. Aveva bisogno di sentirsi riconoscere tutti i meriti che poteva, come a dimostrare il suo valore. Era stato educato così: il padre, facente parte dell'esercito, lo aveva cresciuto nella massima severità e la madre aveva sempre assecondato il ragazzo nelle sue doti, insegnandogli come sedurre una donna, come apparire sempre affascinante, per poter essre il migliore anche in quel campo, per poter conquistare tutto ciò che avesse deisderato. Dunque, vedete, agiva sì per una certa dose di vendetta, ma in gran parte il suo comportamento era dovuto al modo in cui era stato cresciuto, poiché egli non poteva essere secondo a nessuno
Quella stessa sera Esmeralda rimaneva con la fronte poggiata alla porta di legno, unica cosa che la separava da quello che doveva essere il loro prigioniero, ma che lentamente si stava trasformando in altro, almeno per lei. Ricordava bene lo sguardo che l'arcidiacono le aveva rivolto quando era stato sottoposto al giudizio della Corte e le parole del poeta avevano poi alimentato il tarlo che le si era insinuato nella mente. E, voi lettori, voi poeti, voi che conoscete bene le pene dell'animo, sapete che un'idea, una volta insinuatasi nella testa, è impossibile da scacciare. Ma la piccola, tanto estranea alla vita vera, quella fatta anche del male del mondo, non poteva saperlo e dava la colpa a quella parte di lei che ancora non voleva crescere, che desiderava solo danzare. Eppure non poteva ignorare ancora a lungo quel tormento che le cresceva, quella calda pietà che la spingeva ad essere così caritatevole con lo sventurato uomo di Dio.
Si morse forte un labbro e con un sospiro entrò. Teneva tra le mani quella parca cena che si era procurata, stringendo la ciotola convulsamente, come fosse stata preoccupata. E, probabilmente, lo era davvero, ma preferiva nascondere tali crucci dietro la paura che ancora l'uomo le incuteva. Si avvicinò lentamente, come il cerbiatto che annusa l'aria per accertarsi non ci siano pericoli. Notò che il curato aveva richiuso gli occhi e respirava piano. Era evidentemente accaldato, per via della febbre. Bastò la presenza della ragazza, il suo profumo, ad indurlo a dischiudere le palpebre, che dovette sbattere un paio di volte prima di mettere a fuoco la gitana.

- Dovete essere molto stanco se vi bastano pochi minuti per addormentarvi. - 

Commentò la ragazza, piuttosto freddamente.

- Lo sono. Colpevole la febbre, temo. Ma sta passando. A proposito di questo, credo di doverti ringraziare. - 

La zingara rimase piacevolmente sorpresa, tanto che il curato poté notare una scintilla nei suoi occhi neri, forse di soddisfazione. Tuttavia ella non commentò, limitandosi ad annuire, poggiare ciotola e boccale da una parte, per poi aiutare l'uomo a mettersi a sedere. Ella notò come il corpo dell'arcidiacono si contraesse ad ogni suo tocco, come ferito. Notava la confusione nello sguardo di lui, l'imbarazzo, il desiderio che ancora gli bruciava dentro, anche se, forse, ormai non si trattava che di semplici braci. Era docile, stremato, non l'ombra o l'assassino - anche se, effettivamente, non aveva ucciso Phoebus.

- Fate piano. - 

Gli disse lei, facendogli posare la schiena contro il muro dietro di lui. Ancora Frollo non osava guardare la caviglia o il proprio viso riflesso da qualche parte. Si massaggio le tempie, mugolando. Il suo corpo chiedeva ancora riposo, indolenzito, troppo debole.

- Tenete. - 

La ragazza gli posò tra le mani una ciotola in legno, contenente un qualche tipo di zuppa. Claude Frollo osservò prima la Esmeralda, poi ciò che gli aveva dato, constatando dal profumo che doveva essere davvero buona. Lo stomaco parve risvegliarsi, ma il prete sapeva di non doverlo assecondare del tutto, poiché dopo tutto il tempo che aveva passato con i pochi viveri che gli fornivano, trangugiare avidamente quel cibo avrebbe voluto dire rimetterlo sicuramente e, quindi, peggiorare le proprie condizioni.
Allora cominciò a bere a piccoli sorsi, lasciando che la lingua assaporasse quel cibo dall'ottimo sapore. Il viso di Frollo si rilassò e, per un attimo, la gitana credette di vederlo sorridere.

- Devo ringraziarti ancora una volta. - 

Le disse, una volta finito e bevuto un po' di vino. Era evidente, anche agli occhi della bambina, che quel pasto era riuscito a donargli un poco di forza in più.
Ma gli occhi della ragazza erano catturati da quella cicatrice che continuava a fare capolino da sotto la camiciola, sul collo, sfiorata da dai grani di un rosario che l'arcidiacono portava.
Le parole che l'uomo le aveva rivolto solo poche ore prima le tornarono alla mente e si sentì tanto sciocca, tanto infantile per aver ceduto al pensiero che la gente di Parigi, quella come lui, potesse aver sempre vissuto una vita perfetta.
L'arcidiacono poggiò la nuca contro il muro, producendosi in un lungo e profondo sospiro.

- Mi guardi e nei tuoi occhi vedo così tanta paura. Una paura che, ammetto, volevo infonderti. Ma no, cosa dico? Non volevo farti paura. Eppure poco mi interessava che tu mi temessi o amassi. Volevo goderti: goderti o morire. Ti ho desiderata, non immagini quanto. - 

Perché, si chiese lui, il suo cuore aveva deciso di aprirsi così alla gitana? Forse la malattia lo aveva rammollito, forse le ultime difese erano cadute in quei giorni di stenti. Ma la realtà era un altra. La verità era che non desiderava altro che provare quell'amore di cui tutti erano oggetto e soggetto, quel tipo di amore che a lui era precluso. Desiderava sentire ancora il calore dell'abbraccio della ragazza, abbandonarvisi come gli amanti fanno. Si sarebbe volentieri gettato ai suoi piedi, in quel preciso momento, in ginocchio a baciare la terra tra dove lei era passata, pregandola di dargli almeno una briciola di quello che aveva provato per il capitano delle guardie. Le avrebbe mostrato i tagli che si era procurato sulle mani, involontariamente, pensando a lei mentre conduceva i suoi esperimenti e poi, ancora, quelli volontari che si era procurato sul petto. Ma non poteva fare nulla di tutto ciò, frenato dai voti, frenato dalla religione e dall'inesperienza. Così se ne stava lì, a blaterare, senza sapere se lei lo stesse ascoltando o no.

- E, vedi, mi ero convinto che avrei potuto usarti, soddisfare la mia voglia, poi farti giustiziare, così ogni mio tormento avrebbe avuto fine. Ma ricordo come mi sentii la mattina dopo, consapevole di quello che avevo fatto. Oh, sono stato tanto cieco! Credimi, ho desiderato poter riparare, ma il fatto è che non potevo fare niente. Poi Quasimodo mi ha riferito delle tue condizioni, nel pomeriggio, e io... - Scosse la testa, facendo una smorfia disgustata, disgustata per sé stesso. - Io mi sono sentito tanto simile all'uomo che odio, l'uomo dal quale, scioccamente, volevo liberarti. Cosa potevo fare? Sono fuggito da quel luogo, dove tu soffrivi per una mia azione poi è successo quello che tu sai. - 

Qui si fermò, sentendo che la voce, sulle ultime parole, gli si era involontariamente incrinata.
La ragazza era rimasta pazientemente ad ascoltare, con le mani raccolte in grembo. Era difficile, per lei, seguire quei discorsi, in parte perché non riusciva a comprenderlo del tutto, in parte perché quasi la ferivano. Non sapeva cosa rispondere, cosa dire. Davvero per lui era stato così? Cercava solo un'altra anima per riempire il suo vuoto?
Esmeralda si passò la lingua sulle labbra carnose, non riuscendo però a guardare in viso il prete.

- Mi avete ferita. Non mi avete procurato graffi, tagli o qualcosa di evidente, ma si tratta di ferite che mi porto nell'animo. Ho avuto paura, tanta. Non parlo solo di quando avete... Avete cercato di prendermi con la forza, ma anche di quando per strada voi mi chiamavate strega, quando mi guardavate come il rapace guarda il topo. Non capivo e ancora faccio fatica a comprendere del tutto le vostre ragioni, ma i nostri sono mondi completamente diversi, per questo non me ne stupisco. - 

Tacque per qualche secondo, soppesando le parole, cercando quelle migliori, tentando di non far sentire troppo il suo accento straniero.

- Ma vi ringrazio per queste scuse. Vorrei, però, dirvi che non sapevo di vostro fratello e non desideravo gli succedesse nulla. - 

A quelle parole il viso di Frollo si contrasse, come avesse ricevuto uno schiaffo. Non parlava della morte del fratello, cercava di non pensarci, sperando così di lenire il dolore, ma lei aveva riaperto una ferita ancora troppo fresca. La piccola lo leggeva e capì immediatamente, così gli prese prontamente una mano, stringendola fra le proprie.

- Vedo che soffrite, non volevo risvegliare in voi il dolore. Vi chiedo ancora scusa, dunque. - 

Frollo annuì, sospirando piano, tormentandosi le mani. In lui si mescolavano ora due tipi di dolore: quello di un amore che lo straziava e quello della perdita.

- No. - Sussurrò. - La colpa non è tua e non lo era nemmeno quella notte. Ti ho accusata ingiustamente, quando il colpevole ero solo io. -
- Sbagliate. Tutto questo, credo, è colpa del Fato. Non potevate sapere, come nemmeno io. - 

Aveva reagito d'impulso, il prete, entrambi lo sapevano. Lei lo aveva capito già quella sera, quando l'aveva trascinata fuori dalla cattedrale, ma al momento era troppo spaventata per giustificarlo. Aveva paura della sua ira e le aveva fatto male, ancora una volta.
Alle parole della ragazza Frollo strinse i pugni. Ανάγκη giocava con loro, la dea incorporea che aleggiava sulle loro teste, vestita solo di un serpente: il Tempo. Se ne stava lì, ridendo con crudeltà dei dolori terreni, o almeno questo era quello che gli antichi dicevano. Tornò alla mente dell'uomo il giorno in cui aveva inciso quella parola sul muro della sua cella a Notre Dame.
Esmeralda lo guardava, cercando di decifrare quegli occhi che vagavano, spenti, sulle lenzuola. Stranamente le si stringeva il cuore. Aveva avuto, in quegli attimi, la prova che, forse, il prete non doveva essere poi del tutto cattivo. Voleva provare a comprenderlo, capire cosa lo avesse spinto a diventare un ombra senza alcuna pietà, fredda e disposta a tutto. Forse era quell'amore così distorto che provava ad averlo reso un criminale.

- Vorreste rimanere solo? - 

L'arcidiacono ponderò per qualche secondo quella proposta, per poi fare segno di diniego con la testa. Apprezzava la sua compagnia, la sua vitalità, come se la sola vicinanza della gitana potesse ridargli forza. Allora lei annuì, lisciandosi la gonna e muovendo i piedini nudi.

- Davvero con ti capisco, zingara... -
- Ho un nome. - 

Disse lei, leggermente piccata. Era stanca di sentirsi chiamare così, soprattutto se lui sapeva già il suo nome. Difatti l'uomo annuì, alzando gli occhi su di lei.

- Esmeralda, non ti capisco. -
- Cosa non capite? -
- Non capisco perché tu mi stia mostrando tutta questa pietà. Non capisco perché tu non abbia semplicemente voltato la testa, lasciandomi morire. - 

Già, perché?

- Vedete, non lo capisco nemmeno io. Avrei voluto vedervi morto, fino a quando non mi avete guardato con quegli occhi, là, sul patibolo. Era come se mi imploraste, come se non vi importasse altro che la mia reazione. Poi non avete aperto bocca, non avete lottato. Non mi siete sembrato tanto spaventoso. - 

Frollo si strinse leggermente nelle spalle.

- Ti imploravo, sì. Come ho sempre fatto, che usassi parole o gesti. - 

Si umettò le labbra, considerando le parole che Pierre gli aveva detto, considerando la possibilità di rivelarsi a lei del tutto, per quello che era. Sapeva, il prete, di essere un mostro, ma forse lei era tanto coraggiosa da poter affrontare quella bestia che egli si portava dentro. Forse lei lo avrebbe risanato.

- Hai tempo per una storia, Esmeralda? - 

La zingara dapprima lo guardò scettica, poi annuì, spinta dalla sua curiosità da bambina. Adorava le storie e poi lui, si era accorta, aveva una voce tanto calda e profonda che, le venne fatto di pensare, era adatta per natura alla narrazione. Dunque si mise comoda sulla sedia, incrociando le gambe su di essa, tra il frusciare delle gonne colorate e il tintinnare dei ninnoli che le ornavano.


Note: dopo due settimane di pausa sono tornata! Riprendiamo con calma, con un capitolo tranquillo, senza troppi fronzoli o pretese. Mi è mancata questa storia. Dunque, forse mi sono arrugginita, si sa, la salsedine lo fa, no? Dunque vi invito a farmi sapere cosa ne pensate e farmi notare eventuali errori. Vi ringrazio per la pazienza e per aver letto anche questo capitolo!

Si Vis Amari, AmaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora