III

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La mattina, quando il popolo di Parigi tornò a riempire le strade,  trovando tutti quei morti e un andirivieni continuo di soldati, cominciò  a parlare più del solito. Essi indicavano i cadaveri, il sangue, la  trave precipitata dalla cattedrale, il piombo raccolto in grandi pozze  sul pavé; tutto quello sembrava aver scatenato nel popoluccio la voglia  di inventare storie e fare congetture su cosa potesse essere accaduto.  C'era chi attribuiva tutta la colpa agli zingari, quei topi infetti che  brulicavano in tutta la città; si dissero che dovevano aver cercato di  riprendersi la loro compagna e che il campanaro, innamorato, li aveva  fatti a pezzi. Altri pensavano che l'innamorato fosse il prete, ma solo  chi aveva visto i suoi occhi di fuoco fissare intensamente la piccola  osava accennare tale ipotesi, oltretutto esclusivamente i più  coraggiosi. Altri ancora pensavano fosse una sorta di sacrificio per  mano di quel monaco nero, che aveva sfruttato quelle anime per compiere  qualche suo rito. In ogni caso ai parigini bastava davvero poco per  lasciarsi andare alle fantasie più sfrenate, ma quando gli veniva  offerto un tale spettacolo, allora la loro vena creativa veniva messa  alla prova. Presto, poco prima che il sole fosse alto sulle case, non  rimase più nulla, nessuna traccia di quella spiacevole situazione.

- Andatevene via da qui, soldato. -

Disse con voce gutturale Claude Frollo, fissando i propri occhi di  bragia in quelli chiari del capitano delle guardie. L'arcidiacono non  sapeva chi gli avesse dato il permesso di raggiungerlo fino alla sua  stanzetta, ma non avrebbero dovuto farlo, non in quel momento.

- Perdonate l'intrusione, ma, vedete, vengo qui per conto del re. -
- Non c'è nulla qui per voi. -
- Eppure la zingara... -

Accennò il biondo, sorridendo appena e guardandosi attorno. Fece un passo avanti, ma il prete sembrava non volersi scostare.

- Se non avete nulla da nascondere credo potreste farmi accomodare. -

Continuò, con quella sua aria di sfida che solo i giovani potevano  avere. Fece sorgere nel curato una spontanea smorfia di disprezzo. Non  lo avrebbe fatto passare, non si sarebbe sottomesso a quel borioso  omuncolo che non avrebbe avuto nemmeno il diritto di baciargli le  scarpe! Misero e stupido. Così vuoto che lo si sarebbe potuto riempire  di segatura. Perché Dio aveva scelto di degnare quello stolto dell'amore  della zingara e non lui, povero prete, che invece l'amava con il cuore,  il corpo e l'anima?

- Temo non sia possibile. Non ho niente da nascondere, ma il mio studio è aperto solo ai sapienti e agli studiosi. -
- Io non sono uno di questi? -

A quella domanda Frollo scoppiò in una fragorosa e amara risata, che  fece arricciare il naso al soldato, sentendosi punto sul vivo e preso in  giro.

- Non sono uno di questi? -

Ripeté, con voce irritata.

- Non credo, capitano. Ora vi invito nuovamente ad andarvene. -
- Io, invece, credo mi farete entrare. -

Detto questo prese l'uomo per una spalla, ma, proveniente da dietro la  sua schiena, sentì un grugnito, come quello di una grossa belva. Phoebus  si voltò, trovandosi davanti il gobbo, che lo fissava con rabbia,  feroce. Stringeva i pugni, il campanaro, pronto ad attaccare. Claude  Frollo fece un gesto con la mano, facendolo rimanere al suo posto.

- Ascoltatemi, soldato, o morirete. Qui e adesso morirete. Capitano, via! Via da qui o da qui, voi, non andrete tanto lontano. -

Il cavaliere fremette d'ira per quello smacco al suo onore. Essere  minacciato da un prete e dal suo cane! Come si permettevano di arrivare a  tanto? Sbuffò, stringendo la presa sull'elsa della lama che teneva al  fianco, poi rivolse un ultimo sguardo all'arcidiacono, con la promessa  negli occhi che sarebbe tornato, e se ne andò con lo svolazzare del suo  mantello - candido in principio, ora sozzo.
Appena il prete lo vide scendere le scale, allora poté rilassare le  spalle. Si poggiò allo stipite della porta, con un profondo sospiro.  Quasimodo, da furioso che era, si rese docile come un cucciolo,  accostandosi all'uomo. Entrambi osservarono il letto macchiato di sangue  all'interno della celletta, le bende sporche, tutto ciò che era servito  al curato per medicare le ferite irreparabili del fratello. Ma quella  mattina glielo avevano portato via per dargli una degna sepoltura. Lui  lo aveva tenuto stretto a lungo, dicendogli tutte quelle cose che, in  vita, non era mai riuscito a confessargli. Il suo volto, però, era  rimasto sempre asciutto. Non era riuscito a versare una lacrima per  Jehan, poiché il dolore andava molto oltre il pianto. Nemmeno il  campanaro riuscì a distrarlo, a consolarlo. Cercò di parlare al maestro,  ma questo lo ignorava, aveva orecchie solo per i sussurri muti del  fratello, sussurri che solo l'arcidiacono riusciva a cogliere ancora  nell'aria. Forse si sarebbe sentito meglio se si fosse sfogato su  quell'essere deforme che glielo aveva ucciso, ma dentro di sé dava la  colpa solo alla zingara. Quella maledetta... Perché non era intervenuta a  fermare quella pazzia?!

Si Vis Amari, AmaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora