Giorno dopo

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Mugolai gutturalmente in risposta alla donna di servizio che cercava di svegliarmi urlando frasi sconnesse che, per come stavo in quel momento, non sembravano avere il minimo senso. Avevo sonno, accidenti a lei. L'orologio non mentiva, ero tornata a casa alle tre suonate la "sera" prima. Ciò significava che senza accorgermene io e Marco avevamo volato per un'ora. Avevo avuto un'ora di libertà. Avevo avuto modo di pensarci per le quattro ore successive, una volta che mi ero ripresa dallo shock. Ero sicura di essermi addormentata con il sorriso, da quanto ero felice. Avevo persino dato la buonanotte a tutti come facevo le prime sere in cui dormivamo tutti insieme, come se avessero potuto sentirmi. Ciò non toglieva che erano le dieci e avevo dormito solo tre ore. Ero stanchissima e la scimmia urlatrice non aiutava affatto. Ora, le volevo bene e avevo un gran rispetto per lei, ma come Robin odiava chi distruggeva le antiche rovine, io odiavo chi osava svegliarmi dal mio amatissimo e indispensabile sonno mattutino estivo.
Dopo varie maledizioni mentali verso la mia disturbatrice, mi alzai e feci quello che dovevo fare. Accesi il computer, inserii la password – stavolta mi ci vollero solo due tentativi – e stampai ciò che dovevo stampare. A pranzo ovviamente ero dai miei sbandati preferiti. Avevo dovuto dire loro, decisamente controvoglia, che avevo realizzato il mio secondo desiderio. Tra me e Marco c'era un po' di imbarazzo, ma era normale considerato che mi aveva lanciato nel vuoto, lasciato cadere per qualche buona decina di metri e poi ripreso come se niente fosse. Inoltre aveva visto un lato di me che avevo mostrato a pochi nella mia vita e mi sentivo scoperta quando lo guardavo. Neanche fossimo in una di quelle serie tv in cui i protagonisti il giorno dopo si guardano con imbarazzo per aver passato la notte insieme in intimità. Ma gli altri insistevano perché gli rivelassi cosa avevo desiderato e perché mi servisse Marco per realizzarlo, e sappiamo tutti quanto possano essere pedanti Usop e in particolare Rufy. Quindi alla fine cedetti, pronta a ricevere sguardi alla "non ti preoccupare, capisco il tuo disagio mentale", soprattutto da Law. Invece non accadde niente di tutto ciò, anzi, un duo entusiasta, composto da capitano e cecchino, mi chiese come fosse stato e volle sapere ogni dettaglio con gli occhi luccicanti. Il colpo di grazia però, fu durante il pranzo.
«Ehi Cami, ma non è che Marco è un aereo in miniatura?» mi chiese Rufy inconsapevolmente, facendomi quasi strozzare con gli spinaci che stavo ingoiando. Quasi automaticamente, volsi i miei occhi alla Fenice, che mi guardava con un'espressione a metà tra il divertito e il curioso.
«Lo sono?» domandò a sua volta dopo un po', con un gomito sul tavolo, la testa appoggiata alla mano e un guizzo negli occhi.
«Credo che tu sia semplicemente un pennuto arrogante e presuntuoso che ha avuto la fortuna di mangiare un frutto che gli conferisse poteri fantastici» risposi, ma sorrisi quando lo dissi, segno che era solo una delle mie piccole provocazioni.
«Sei ancora arrabbiata per il piccolo spavento che ti ho fatto prendere ieri?» accolse la mia sfida, rilanciando.
«Piccolo spavento!? Ti pare un piccolo spavento quello!?» persi la calma «Scappa, Marco, perché se ti prendo...»
«È così che si ringrazia un povero ragazzo che ha esaudito uno dei tuoi desideri?» domandò, alzando teatralmente le sopracciglia e sfoggiando un ghigno appena accennato.
Stavo per minacciarlo di tirargli un pugno, ma come al solito non potei farlo perché qualcuno intervenne.
«Questo è un bene. Manca solo un desiderio, poi potremo tutti tornarcene alle nostre faccende». Law era sempre il solito guastafeste. Chi glielo avrebbe detto che il terzo desiderio non era affatto semplice da realizzare? Io no di certo, non volevo rovinare quel rarissimo momento in cui non era incazzato con me o con il mondo. Anzi, sembrava persino soddisfatto.

Passammo il resto del pranzo in silenzio, fino al dessert, quando mi accorsi che Rufy fissava un punto imprecisato sotto al mio collo. Non poteva fissare il mio décolleté, ne ero sicura, perché a lui non erano mai interessate quelle cose. Forse mi ero inconsapevolmente sporcata e stava fissando la macchia. Per cercare di capire, abbassai lo sguardo anche io e mi resi conto che cosa realmente stava guardando. Nell'euforia generale, mi ero dimenticata di togliere la collana con il ciondolo di Ace ed ora era in bella vista sul mio sterno. A parte Marco non l'aveva ancora vista nessuno. L'avevo messa la sera precedente perché volevo che fosse con me durante quella particolare esperienza, come lo era stata la sera che mi aveva cambiato la vita.
«Stai bene?» chiesi, apprensiva. Lui in risposta sorrise, esibendo il suo tipico sorriso a trentadue denti. Come si faceva a non adorarlo quando sorrideva così?
«Sì. Quel ciondolo è il tatuaggio di Ace, vero?» chiese.
Annuii. Vedendo che continuava a fissare la collana, feci una cosa che nemmeno io avrei mai immaginato di fare con nessuno. La sfilai e gliela porsi. Gli avrei anche detto di fare attenzione, visto il soggetto, ma non mi sembrava appropriato. Era pur sempre un momento delicato e profondo in un certo senso. Lui mi guardò sorpreso.
«Posso davvero?» domandò, quasi incredulo. La sua domanda mi confermò che aveva capito che quella collana era molto preziosa per me.
«Certo. Eri...» mi bloccai nel bel mezzo della frase e mi corressi «sei. Sei il suo fratellino, in fondo».
«Già» sorrise di nuovo e la prese in mano. La osservò per un po' e poi ci passò un dito sopra, come a togliere la polvere. Ma la polvere che stava togliendo non era sul ciondolo, era nel suo cuore. Stava spolverando tutti i ricordi, probabilmente di quando era piccolo e giocava allegro e spensierato con Ace e Sabo. Mi appoggiai allo schienale della sedia, ormai sazia, e incrociai le braccia continuando a guardarlo. Era completamente immerso nei ricordi. Lo sapevo perché ormai avevo imparato a conoscerlo. Non pretendevo di essere onnisciente, ma quando passi tanto tempo con una persona, volente o nolente impari a cogliere i dettagli. Come sapevo qual era la faccia di Usop quando gli veniva un'idea da progettare, qual era la marca di sigarette che fumava Sanji e qual era quella che "comprava" qui in assenza di quelle del suo mondo, o quante flessioni faceva Zoro, sapevo esattamente quando Rufy cominciava a ricordare qualcosa.
C'era un silenzio che non si addiceva a loro, così parlai io.
«Era un gran bel tatuaggio» azzardai. "Su un gran bel braccio" avrei voluto aggiungere, ma non mi sembrava il caso.
«Già. In questo modo lo avrebbe avuto sempre con sé» disse Rufy, ed io non capii subito. Realizzai le sue parole solo dopo aver notato che il suo dito accarezzava la lettera S.
«Beh, però il tatuatore non era molto intelligente. Ha sbagliato a scrivere il nome» commentò Usop. Contemporaneamente ci girammo in tre verso di lui. Cappello di Paglia sorrise e la Fenice sbuffò una risata.
«Non hai capito proprio niente» lo redarguii scuotendo la testa.
«Come sarebbe a dire?» chiese, confuso.
Guardai il fratello di Ace come a chiedere il permesso per raccontarglielo ma lui continuava a sorridere sornione al cecchino.
«Prova a pensarci» fece Marco, alzandosi da tavola e facendo restare di stucco sia me che il nasone «noi abbiamo una partita da giocare» annunciò, puntando lo sguardo deciso verso di me.
«Cosa? No. Noi non giocheremo a...» feci per parlare, ma fui interrotta.
«Traffy sei dei nostri?» domandò il biondo, che nel frattempo si era seduto al tavolino della sala e stava mischiando le carte. Law sbuffò e poi andò a sedersi a sua volta. Tirai un sospiro di sollievo. Ciò significava che non avremmo giocato a scacchi. Per me gli scacchi erano come i broccoli. Sul serio. Non li reggevo. Erano giorni che Marco tentava di insegnarmi ma io oltre a non essere una brava allieva, non ero mai dell'umore adatto. Trovavo sempre qualche scusa, una volta stavo perfino per dire a Zoro che poteva usarmi come peso per l'allenamento, pur di non giocare a scacchi. E la povera testa d'ananas rimaneva sempre sola a fare uno dei solitari che gli avevo insegnato. Ma perché non ci giocava con il chirurgo? Ah già, ogni volta era troppo infastidito dall'ennesima sconfitta a Machiavelli e si ritirava in camera sua.

«Ma non è possibile! Hai vinto di nuovo!» esclamò il biondo, sconsolato.
Feci un sorriso scaltro e appoggiai i gomiti sul tavolo.
«Stai diventando una piaga» commentò irritato il chirurgo, a cui stavolta mancava una sola carta da sistemare per la vittoria. Si alzò e se ne andò, come al solito.
Rimanemmo solo io e Marco, che mi guardava con una faccia strana.
«Per punizione subirai la mia ira» scherzò, ma io mi allarmai lo stesso. Tirò fuori dal nulla una scacchiera. Ma accidenti a loro, dove cazzo le trovavano tutte queste cose!? Non potevano mica avercele in tasca!
«Rassegnati, oggi sono usciti tutti e ti tocca giocare per forza con me» disse con un sorriso poco rassicurante.
Mi guardai intorno e mi resi conto che aveva ragione. Quando erano usciti? E soprattutto...dov'era la mia collana!? Chi ce l'aveva? Mi stavo innervosendo, ma non potevo fare niente, quindi mi rassegnai all'idea che avrei dovuto giocare a quello stupido gioco intreccia cervello. Inoltre, al di là del mio amatissimo pendente, c'era qualcos'altro che mi stavo scordando. Solo che, esattamente come Neville Paciock, non mi ricordavo che cosa mi ero dimenticata.
«Bianchi o neri?» domandò allegro.
«Neri» optai «come il mio umore» aggiunsi sottovoce stando ben attenta a non farmi sentire.
«Ottimo, allora comincio io» annunciò allegro e io gli feci gesto di iniziare con la mano.
«Scacco al re» esultai, solo che a dirlo non ero stata io, ma il pennuto. Era stata la mezz'ora più lunga della mia vita. Per fortuna ora era tutto finito, aveva fatto scacco e non potevo fare niente. Non avevo nemmeno fatto finta di essere dispiaciuta. Tuttavia non mi alzai ma anzi, controllai se avrei potuto fare qualcosa per evitare lo scacco.
«Qualcuno vuole il tè?» Law era riemerso dai meandri di camera sua. Ma lo aveva chiesto davvero? E da quando in qua era così gentile? Mi girai a guardarlo mettere il bollitore sul fuoco.
«No grazie» rispondemmo in coro, prima di ritornare con gli occhi puntati sulla scacchiera. Anche se la stavo osservando grossolanamente, non vedevo comunque nessuna mossa possibile. Stavo per dichiararmi sconfitta, quando una mano dietro di me, veloce, mosse una mia pedina – o forse era la torre? – mangiandone una del biondo.
«Non è più scacco» disse il proprietario della mano. Controllai ed era vero. Anche la Fenice si era stupita. Mi poggiai una mano sul cuore e finsi una faccia commossa, poi mi alzai, presi per il medico per le spalle e lo spinsi giù sulla sedia, al posto mio, sotto lo sguardo divertito della testa d'ananas e truce del chirurgo.
«Caro Marco, ti ho appena trovato un compagno di scacchi degno della tua fama» lo informai, sorridendo scaltra.
Law cercò di divincolarsi dalla mia presa, ma fu tutto inutile. Lo rassicurai dicendogli che avrei preparato io il tè e alla fine cedette. Ogni tanto buttavo un'occhiata verso di loro e dovevo ammettere che era molto tenero vederli allo stesso tavolo, entrambi impegnati a non perdere la partita. In più il tè mi venne molto buono e fu pronto proprio nel momento in cui la partita finì. Traffy aveva perso. Mi gelò con un occhiata quando risi di lui.
«È colpa tua» mi accusò tagliente.
«Mia? Beh sì, forse...» riflettei. Non che mi importasse molto.
«Almeno in qualcosa riesco a vincere» fece Marco, piuttosto soddisfatto dall'esito. Il chirurgo si alzò e si diresse verso di me.
«Due cucchiai di zucchero?» mimai il numero con la mano. Una volta che fu abbastanza vicino, allungò le dita a piegarmi l'indice alzato, lasciandomi sollevato solo il medio.
«Ne prendo solo uno» affermò sogghignando. Aprii la bocca dallo stupore. Lui ghignò di nuovo e io risi a mia volta. Non ero affatto offesa dal suo gesto, ero...divertita. Beh, Law era famoso per gesti del genere. Mi ricordavo come se fosse stata ieri la sua prima apparizione, alla casa d'aste dell'arcipelago Sabaody. Aveva quella sua felpa gialla e...
«Siamo tornati mia dea!» la voce di Sanji mi riscosse dai miei pensieri e nel momento in cui lo vidi, con la faccia innamorata e carico di buste, mi ricordai ciò che dovevo fare.  

Lost boys - ONE PIECEDove le storie prendono vita. Scoprilo ora