Capitolo 35. Malattia.

499 61 30
                                    

Il tempo lì dentro passava lento, non avrei resistito un anno rinchiusa in quelle mura e quel pensiero era diventato la mia ossessione.
I primi tre giorni in semilibertà li avevo passati in giardino in disparte dagli altri pazienti, ero fuori luogo in quel posto, avevo perso tutto, mi avevano tolto tutto.
Mi sedevo su una panchina sotto una cupola in giardino e le ore diventavano anni tenebrosi senza un briciolo di gioia.
Il tempo era fresco e il sole splendeva nel cielo; in California c'era sempre bel tempo, ma non ero molto interessata a questo mi era indifferente ogni cosa e non godevo di niente.
In realtà non mostravo interesse per nulla, non mi importava delle attività che svolgevano gli altri, non mi importava di interagire con nessuno.
Restavo seduta su quella fottuta panchina a guardare le nuvole in cielo, fin quando il sole non fosse tramontato.
Di pomeriggio sia le donne che gli uomini erano in giardino.
Alcuni di loro passeggiavano insieme, altri si prendevano cura dell'orto ed altri delle piante.
A quell'ora rientravo dentro, odiavo tutto quel frambusto, la confusione mi irritava ed aumentava il mio senso di angoscia che incrementava la mia depressione.
Mi sedevo al piano all'interno ogni volta che avevo bisogno di conforto, la sala era abbandonata a quell'ora del pomeriggio e suonavo guardando fuori dalla portafinestra che dava sul giardino.
Avevo notato che un ragazzo strano  si sedeva sulla panchina di fronte e mi guardava suonare per tutto il tempo.
Sembrava che avesse un appuntamento con la mia musica e a me non dispiaceva affatto.
Ero sollevata però che lui non potesse entrare nella sala, era un uomo e non gli era consentito l'accesso nel braccio femminile.
Quel tipo aveva stampato nei suoi occhi neri tutta la sua follia e l'ostentava senza avere paura di nasconderla.
I capelli come la pece erano lunghi fino alle spalle, un filo di barba  incolta circondava il suo viso delicato con i tratti sottili e poco definiti.
Aveva una bellezza androgina , la pelle chiara risaltava la sua eleganza ed evidenzava la sua particolare natura.
Era un uomo bello quasi come potesse essere una donna e non potevi non fermarti a guardarlo.
Nonostante fosse seduto, si vedeva che fosse dotato di una straordinaria altezza.
Indossava i pantaloni celesti della divisa dell'ospedale e una t-shirt bianca a mezze maniche che esaltava le spalle scolpite e gli addominali pronunciati.
Doveva essere un po' sotto peso, ma tutto sommato aveva un fisico atletico ed asciutto.
Non mi dispiaceva affatto essere osservata da uno così affascinante, ma non nascondo il senso d'inquietudine che mi trasmetteva il suo sguardo, così carico di sentimenti.
Era un cumolo di emozioni e percepivo una sensazione strana, un tormento che si portava dentro, di sicuro il motivo della sua permanenza lì doveva essere qualcosa di spaventoso, qualcosa che la mia curiosità voleva scoprire, ma che il mio istinto non mi permetteva di farlo, tenendomi lontano da lui il più possibile.
Era pericoloso, anche se quell'aria assente, concentrato con tutto se stesso su di me, lo rendeva apparentemente innoquo.
Suonavo una delle mie canzoni preferite, quella che avevo scritto per Billy e mi concentrai a ricordare il testo che canticchiavo a ritmo a bassa voce.
Non mi accorsi che qualcuno entrò nella stanza, alzai gli occhi per un attimo e me lo ritrovai davanti.
Smisi di suonare e lo fissai.
I nostri sguardi erano uno dentro l'altro, nessuno dei due parlò.
Sentivo il cuore battere velocemente nella gabbia toracica, avevo timore di lui e la sua presenza mi agitava.
Ci fu un silenzio prolungato e ripresi a suonare nel momento in cui capii che non potevo più continuare a guardarlo. Lui, invece,  sembrò non fare caso al mio imbarazzo rimase lì immobile, evadendo da quel luogo con la mente a cavallo di quella melodia.
Alzai gli occhi di nuovo su di lui, li teneva chiusi e sembrava fosse lontano anni luce.
<Un talento come te non dovrebbe essere qui.>
Mi fermai e per un attimo si bloccò ogni parte del mio corpo.
Aveva un accento inglese e la sua voce era bassa e dolce, che nascondeva una grande tristezza.
Si accomodò al mio fianco ed appoggiò le mani sulla tastiera del piano.
Suonò le prime note di River flows in you e si fermò aspettando che io attaccassi per continuare.
Tra noi sembrava esserci molta sintonia, l'intesa era sorprendente come se ci fosse qualcosa che ci legasse.
Mi sfiorò una mano e quel contatto mi fece venire i brividi. La sua pelle era morbida e fresca ed io mi sentii molto attratta da lui.
Era strano, non capivo bene cosa stesse succedendo.
Smise di suonare e feci lo stesso anch'io, ci guardammo intensamente ancora.
Quel gioco di sguardi sembrava non finire mai, non c'era alcun bisogno di parlare.
Lui sapeva che un peso stava schiacciando la mia anima ed io sapevo che lo tormentava un segreto terribile.
<Sono Tayler Shäffer. Qui mi conoscono come Tack.>
Shäffer non era un cognome inglese, né americano.
Era molto probabile che avesse origini tedesche.
<Trouble. Io sono Trouble.>
Dissi allungandogli una mano e lui la strinse, senza fare domande sul mio nome.
Facevamo scintille, noi due insieme eravamo tutto un programma.
<Ok Trouble. Dimmi che ci fa un angelo come te qui dentro.>
Mi alzai dalla panca e sorrisi.
<Forse non sono un angelo.>.
<Oh, si che lo sei. Un angelo che si é spezzato le ali cadendo, ma pur sempre un angelo.>
Adesso il suo tono era più intenso, stava flirtando e non mi dispiaceva stare alla sua provocazione.
<Allora, Angelo, che ci fai qui?>
Arrossii. Che mi stava succedendo, non riuscivo a mantenere il suo sguardo, che sembrava non spostarsi mai su qualcos'altro. La sua attenzione era tutta su di me, sul mio corpo che aveva squadrato per benino.
<Ho ucciso un uomo.>
Mentii, ma lui non ebbe alcuna reazione o almeno non fu quello che mi aspettassi da lui.
Rimase seduto senza scomporsi ed appoggiò le mani dietro la testa.
<Capisco, ma non sai mentire Angelo. Il perché sei qui me lo dirai quando vorrai.>
<Non ho mentito è vero.>
Ribattei. Quel arroganza celata e quella sicurezza che ostentava mi dava sui nervi.
<E comunque credo che dovresti farti gli affaracci tuoi!>
Mi avviai alla porta di legno bianca e feci per uscire dalla stanza.
Lui sorrise divertito, i suoi occhi brillavano di una strana luce.
<Ci si vede Trouble!>
Mi voltai, col cuore che faceva le capriole.
<Ci si vede Tack.>
Mi chiusi la porta alle spalle senza esitare.
Avevo lo stomaco in subbuglio e mentre percorrevo i corridoi che mi portavano alla mia cella accompagnata da un'infermiera, non potevo fare altro che pensare al tocco della sua mano sulla mia, ai nostri sguardi incrociati ed ai suoi occhi neri come il fondo dell'oceano.
Ero affascinata da quel uomo più di quanto fossi disposta ad ammettere.

Trouble.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora