XV

160 12 9
                                    


— Heather, ricordi cosa ti è successo? —
Heather prese un respiro apaticamente, — Non è che ricordi proprio com'è andata. Lo so perché me l'hanno raccontato. — Fece una pausa, muovendosi a disagio sulla poltrona di pelle. — Ero con il mio ragazzo, in una baita per il week end. E poi... e poi, sulla strada del ritorno... —
— Se ti mostro questa foto, ti viene in mente nulla? —
Heather abbassò lo sguardo sulla scrivania di legno, dove le mani affusolate della dottoressa le avevano appena allungato una foto. Ritraeva una casa, o meglio, una baita in montagna. A Heather non le ci volle niente per ricollegare.
— No. —
Ricominciò a pensare a quando si era risvegliata in quello stesso ospedale e, passando a rassegna le informazioni nella sua mente, non aveva trovato niente. Le era capitato spesso negli ultimi tempi di ripensare a quel momento, probabilmente il più brutto da quando tutto era cominciato. Proprio perché era cominciato lì.
Ricordava ancora perfettamente come sin dal primo istante si era sentita persa e sola. Era come svegliarsi in un corpo estraneo, che non senti tuo, ma non sapendo quale sia realmente quello dove ti ci sentiresti. Perché non c'è. Perché alla fine quello è il tuo corpo, e ciò che pensi o meno di esso non ha molta importanza. Ti è stato imposto così, e non puoi farci niente.
Nessuno penserebbe a questa sensazione, no? Che c'è di così difficile nel dove ricominciare da zero se tanto non ricordi nulla del tuo passato? Del tuo prima?
— E... questa? — La dottoressa Morgan frugò fra i diversi fogli che teneva davanti a sé e poi le mostrò un'altra immagine. Questa volta ritraeva lei, che sorrideva davanti ad un sole che tramontava su un lago. Un sorriso sincero, come ci si aspetta quando sei all'ultimo anno e sei sola con il tuo ragazzo per il week end. Si chiese se la dottoressa le mostrasse quelle foto unicamente per farla stare male.
Avrebbe voluto ricordare così tanto.
Non sarebbe neppure andata tanto male se ci fosse stato qualcuno lì con lei in grado di capirla. Se ci fosse stato il suo ragazzo. Aveva bisogno di qualcuno che l'amasse e che le dicesse che andava tutto bene. Ma lei le aveva respinte queste persone senza neppure accorgersene. I suoi amici, sua madre, e con suo padre c'era sempre un certo velo dietro il quale pensava cose che non diceva.
Continuava a rimuginare sulle parole che il dottore aveva pronunciato la prima volta che l'aveva vista: Hai avuto un incidente., nonostante tale consapevolezza fosse già dentro di lei.
— No. No, non mi dice niente. Abbiamo finito? —
— Heather– —
— No, ascolti, quante volte sono che vengo qui? — domandò retoricamente. — Solamente una. Ma lo sa da quant'è che io mi sono svegliata da quell'incidente? 31 giorni. E quello che stiamo facendo noi qui da 45 minuti è stata la mia quotidianità sin da quando mi sono risvegliata in quest'ospedale. Ogni giorno mi domando come si chiamano i miei genitori, dove abito, in che scuola vado, se ho un cane o un gatto. Se ricordo che colore è l'arancione, che apparentemente prima era il mio colore preferito. E non lo so se davvero serva a qualcosa o meno, ma provi lei a vivere non avendo neppure idea di come sia la casa dei nonni in cui è cresciuta. O come sia il Canada, dove sono andata per due inverni di seguito nei scorsi due anni.
Perciò, se permette, io preferirei andare a casa a cercare un modo per vivere questa vita che sembra non volermi ogni giorno di più. —
Si alzò e se ne andò.
I suoi genitori, seduti sulle sedie nella sala d'attesa, con le mani intrecciate, si alzarono non appena la videro uscire.
Heather si chiese quante volte già avessero aspettato in quella stanza, su quelle sedie di plastica, colmi solo di speranza.
Sei stata in coma una settimana, non riusciva a dimenticarlo.
Non appena i loro sguardi s'incontrarono, Heather capì di aver fatto la cosa sbagliata.
— Allora? Com'è andata? — Le domandarono all'unisono. Ancora una volta, sembravano sperare fino all'ultimo, nonostante sapessero già come stavano le cose.
— Ve lo dirà lei stessa. — Cercò di essere il meno brutale possibile, ma aveva solo voglia di uscire per prendere una boccata d'aria.
Li superò senza aspettare una risposta e si fiondò fuori dall'edificio.
Fuori, il sole era ancora timido fra le nuvole che ricoprivano il cielo. A Seattle il clima non era uno dei migliori, ma d'altronde, Heather non conosceva i climi di altri posti.
Certo, sapeva com'era una sole. Sapeva com'era un cielo blu. Ma un paesaggio con questi due insieme? Poteva solo immaginarlo.
Si sedette su una panchina e rimase in silenzio.
Era quello di cui aveva paura. Rimanere sola. Letteralmente. Lei non ci voleva stare. Era come essere con una sconosciuta. Certe volte si riprendeva a guardarsi allo specchio e scoprire qualcosa di nuovo di sé, piccoli dettagli, come nei. I primi tempi le capitava di dimenticarsi il colore dei suoi occhi. Per non parlare di quando alzava le mani trovandole diverse da come le ricordasse.
— Heather. —
Alzò lo sguardo confusa e presa alla sprovvista. Ashton era a qualche passo da lei, con le mani in un paio di skinny jeans neri, una t–shirt rossa a maniche corte e un cappellino da baseball messo al contrario dello stesso colore.
— Ehi. — lo salutò. Lui si avvicinò e le sorrise.
— Che ci fai qui? —
— Controlli. — Ashton le si sedette a fianco, guardandola come per incitarla a dire di più. — Sai, devo fare dei controlli regolarmente. Vogliono vedere se la memoria stia tornando o meno. —
— E...? —
— E, a parte un dejavù che ho avuto qualche giorno fa, la mia memoria non sembra avere intenzione di tornare. —
Ashton la guardò come se quella fosse un'ottima notizia, ma poi si spense subito. Probabilmente era la reazione che aveva avuto a primo impatto sentendo la notizia del dejavù. Ma quante probabilità c'erano che fosse un briciolo di ricordo invece che un semplice dejavù che tutte le persone normali avevano ogni tanto?
Lui annuì mestamente, come a sottintendere che dovesse far schifo. Più una persona cercava di andare avanti, più veniva riportata indietro.
— Sai, Heather, la gente non si aspetta che tu stia bene. — esordì d'un tratto. —E' passato solo un mese. Ognuno ha il suo tempo. —
— La gente? — domandò Heather. Lui non rispose e portò lo sguardo davanti a sé. — Perché mi stai dicendo questo? —
— Puoi chiuderci fuori quanto vuoi, ma sei la stessa Heather di prima. Noi conoscevamo quella ragazza, e le volevamo bene. Se stai male, non significa che ci allontaneremo da te facilmente, anzi, vogliamo solo starti ancora più vicino. —
Heather sospirò, ma non disse nulla.
Al momento, aveva troppo a cui pensare. La sua testa non era mai stata così piena.
— E tu, che ci fai qui? —
— Oh, sai, mio padre lavora qui. Sono venuto a trovarlo. — Alzò le spalle.
— Aspetta un attimo, tuo padre è il dott. Irwin? —
— Sì, be', è il mio cognome. —
Heather non ci aveva mai pensato, eppure ogni volta che aveva sentito il cognome di Ashton le era sembrato familiare.
Rimasero a chiacchierare per un bel po', finché i suoi genitori non uscirono e andarono a casa, in silenzio.

C'erano giornate in cui Heather si ritrovava a darsi conforto da sola, e giornate in cui era la prima a criticarsi.
Era la miglior amica e peggior nemica di se stessa.
Con la matita in una mano e il quaderno a righe voltato su una pagina bianca, squadrava il foglio. Era seduta sull'erba brizzolata dalla brina mattutina, con la schiena contro il tronco di un albero.
Aveva saltato il pranzo ed era scesa giù in giardino a godersi il primo sole caldo del mese. Aveva scoperto di essere brava a disegnare, quando, durante l'ora di algebra del giorno precedente, era partita da un cerchio e aveva finito col disegnare su di una pagina intera la facciata di una cattedrale. L'aveva vista su un sito internet appena il giorno prima, quando suo padre gliel'aveva mostrata. Avevano pensato di andare a fare una gita fuori porta, quel week end, ma doveva ammettere che sua madre non sembrava davvero entusiasta. Invece, suo padre ce la metteva tutta per migliorare l'umore in casa.
Elizabeth non doveva aver detto nulla a Cole, oppure quest'ultimo sapeva fingere davvero bene. In ogni caso, nemmeno lei aveva dato a vedere nulla. Era come se non fosse successo. Eccetto per Heather.
Quasi non riusciva più a guardarli negli occhi, e a cena a malapena accennava una parola. Si limitava a sorridere per tutto il tempo e a rigirare la forchetta nel piatto prendendo giusto un paio di bocconi,.
Proprio non ce la faceva a fare come tutti gli altri. A fare finta di nulla. Ad andare avanti, dimenticando il passato come a tempo di uno schiocco di dita. Sapeva che le persone, talvolta, lo facevano per coloro che amavano, ma Heather... aveva una voglia matta di fermare il tempo, perché lei quella persona ancora non l'aveva trovata. E le sembrava che il mondo intorno a lei scorresse e fosse costretta a comportarsi come tutti gli altri.
Come se fosse stata catapultata in una Commedia dove era costretta a recitare delle battute che non pensava veramente.
Aveva saltato scuola quel giorno per fare la sua visita regolare.
Adesso, mentre picchiettava il retro della matita contro il foglio, in cerca d'ispirazione, ripensava a quello che era successo con la dottoressa.
Le aveva mostrato quelle stupide foto e guardata come se stesse parlando con un bambino.
Aveva detto di dover "cominciare dalle origini" per testare la sua memoria, infatti inizialmente le aveva anche mostrato un'immagine di lei da bambina.
Quella dannata baita... se non ci fosse mai andata, con quello stupido ragazzo, niente sarebbe successo...
La baita!, pensò alzandosi di scatto.
La baita era dei genitori del suo ragazzo! Se fosse riandata lì, avrebbe trovato un cognome sul citofono, su di una targhetta appesa alla porta, sulla cassetta della porta, qualcosa!
Ripose il blocco degli appunti nello zaino e corse dentro casa.
Era passata l'ora di pranzo, i suoi genitori erano dovuti scappare a lavoro. Heather raccattò velocemente il cellulare dalla tasca dei pantaloni e scrisse un messaggio veloce:
Ho bisogno che salti l'ultima ora per me x

amnesia.Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora