2- Jackie ▪ MAPPA-ALBE

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Avevo le scarpe da ginnastica infangate, la faccia stirata dall'aria fredda, stemperata dall'odore della pioggia della sera prima, le suole consumate scivolavano sulle strade di Cleveland, circondate da grattacieli ed edifici neoclassici pieni di mattoncini rossiccio e archi troppo complessi da capire con una sola occhiata, ma non per me, conoscevo quella città pezzo per pezzo.

Una città metà e metà, tra il moderno e il classico, un po come me, tra il normale e lo strano.

Era tardi, anche se erano le 06.30 del mattino e stavo correndo come una furia verso casa, dovevo sbrigarmi se non volevo essere sgridata dal nonno. Lui era molto mattiniero, la solita routine consisteva nel bere una tazza di caffè davanti al giornale del giorno prima, di cui aveva di proposito evitato di leggere le ultime pagine, gli piaceva risparmiarsele per la mattina seguente. Probabilmente, era da lui che avevo preso questo aspetto del mio carattere: essere strana. Questo lato del mio carattere si stava riversando anche scuola, avevo iniziato il liceo da circa un mese, e fin da subito avevo capito che non avevo assolutamente nulla in comune con le mie compagne di classe. A gente come Marissa interessava solo spalmarsi il rossetto nelle ore di pausa tra una lezione e l'altra, sfoggiare le ultime scarpe firmate, indossare il reggiseno più imbottito presente sulla faccia della terra, fare la voce dolce ai ragazzi e vivere costantemente per il cellulare. Era gente noiosa. Preferivo di gran lunga le mie avventure mattiniere Clevelandiane, anche se andava a discapito della mia vita ogni volta che il nonno mi scovava con le mani nel sacco.

Mi piegai con le mani sulle ginocchia per riprendere fiato, controllai il respiro prima di aprire il portone, nella speranza di non essere sentita. Mi tolsi le scarpe sporche di fango e le infilai in una busta di plastica presa dalla cucina, andai in camera in punta di piedi nascosi la busta sotto il letto. Il nonno non l'avrebbe di certo scoperta. Presi il mio quaderno "mappa-albe" e tracciai una V di lato alla frase EUCLID BEACH PARK . Sul mappa-albe avevo appuntato tutti i luoghi che avevo visto all'alba, e quelli che ancora avrei dovuto vedere. Aprii l'anta dell'armadio per prendere lo zaino e posare la polaroid, lo specchio che il nonno ci aveva attaccato sopra ritraeva ciò che le ragazze come Marissa definirebbero sfigate. Ma io non vedevo altro che una ragazza, con i jeans sporchi di un piccolo schizzo marrone all'altezza della caviglia, circondata da un giubotto anni 70 oldschool verde-blu, quello che Marissa definirebbe qualcosa di tremendamente fuori moda e orripilante. Ma a me non interessava. Sistemai il cappellino di lana diventato freddo a causa dell'umidità fuori, lanciai un'occhiata dentro l'ammasso di jeans e felpe ammucchiate a caso e sfilai via lo zaino che stava soffocando.

Quando tornai in cucina trovai il nonno, era nella sua sistemazione abituale, mi squadrò. Capii che aveva capito.

<< Gli schizzi di fango partono dall'entrata e raggiungono la cucina >> disse senza alzare gli occhi dal giornale.

<< Di che parli?>> domandai con un sorriso furbo.

Il nonno posò gli occhi su di me da sopra i suoi occhiali da giornale, sospirò, poi ritornò alle parole bianche e nere sulla carta.

<< Sbrigati a fare colazione>>

Abbandonai lo zaino a terra trionfante, mi riempii una tazza di caffè aggiungendo qualche goccia di latte freddo, poi lo raggiunsi sedendomi accanto a lui, unii le ginocchia al petto e sorseggiai lentamente dalla mia tazza, spostai lo sguardo sulla finestra, oltre il vetro, il sole era ormai alto, un piccolo rettangolo di luce colorava il giornale del nonno. Questa vita infondo mi piaceva proprio così come era, con l'odore di caffè che raggiungenva ogni angolo della casa, i sospiri del nonno quando passava al rigo successivo, al rumore sottile della pagina che veniva sfogliata. Noi ci bastavamo.

***

Quando mi fissai le scarpe sotto il banco, notai uno strappo sui jeans vicino alla caviglia. Probabilmente era stato a causa di quel maledetto ramo della stessa mattina al parco, ed erano i miei preferiti. Quando alzai gli occhi, il palmo di una mano premeva sul mio banco, le unghie erano laccate di rosa. Marissa aveva lo sguardo basso su di me, i capelli vaporosi tirati indietro da un cerchietto, e un ghigno sulle labbra.

<< Devi farmi copiare i tuoi appunti di matematica >> aveva detto.

<< Perchè?>>

Curvò l'angolo della bocca verso l'alto << Perchè abbiamo una verifica la prossima settimana. Perchè sei una sfigata. Perchè non ho voglia di prendere appunti in classe, e soprattutto perchè l'ho deciso io >>

La fissai per dei secondi interminabili, Marissa era una bella ragazza, aveva il brillantino sul lato sinistro del naso, ma era così insignificante da non meritare neanche una discussione, sarebbe stata una perdita di tempo, e non avevo alcuna intenzione di sprecarlo con lei. Perciò tirai fuori il quaderno dallo zaino porgendoglielo. Mi fissò indignata e delusa, non era riuscita a ridicolizzarmi come avrebbre voluto, quindi seccatamente mi tirò via dalle mani il quaderno, e mi lasciò in pace.

<< E' probabile che tu non lo riveda più quel quaderno >> parlò la mia compagna di banco.



Aveva piovuto di nuovo, i jeans avevano il bordo stracciato dal fango, non feci in tempo a tornare a casa a cambiarmi, perciò dopo aver fotografato la mia alba, corsi direttamente a scuola. Il nonno si sarebbe arrabbiato, non era cattivo, si preoccupava che potesse accadermi qualcosa, ma sapeva capirmi, perciò alla fine mi lasciava libera di andare. Ero in anticipo, decisi di sedermi sui gradini delle scale anticendio sul retro e osservai le varie fotografie scattate con la polaroid. A papà sarebbero piaciute se solo avesse potute vederle. Fissai il giallo luminoso che sembrava volesse evadere dalla foto, pensando ai nostri giorni insieme, a quei giorni felici, che erano incorniciati in una foto, con la mia mente che faceva da cornice. Tappai la nostalogia che si faceva strada dentro lo stomaco, poi sentii il rumore di un coato proprio dietro l'angolo. Infilai tutto nello zaino, poi mi affacciai. Stava vomitando, aveva i palmi poggiati al muro con le braccia tese, le ginocchia leggermente flesse, la testa piegata rivolta sul cemento.

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