Capitolo 6

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"Ho usato frammenti di
tempo per ricomporre me stesso.
Non lo so mica, però, se ho concluso
qualcosa."

-Mayson Cole-


Mayson –Oggi-

Spalanco le porte della Cole Fitness senza nemmeno preoccuparmi che possa rompere qualche vetro con il mio gesto avventato. Le luci al neon mi fanno socchiudere gli occhi come se davanti a me avessero appena spalancato le porte del paradiso; la luce bianca mi investe ma non mi ferma, come non mi ferma nemmeno la voce squillante di Gwen che mi sta salutando. La palestra è di Jeremia, lei lavora per lui dal primo giorno di apertura come segretaria. Mi piace parlare con lei, ma al momento ho incamerato talmente tante emozioni che sento solo il bisogno di far esplodere tutto quanto. Conosco me stesso: parlare non mi aiuterebbe.
Sorpasso la sala più grande alla mia destra, popolata da ragazzi che fanno pesi e da ragazze che vogliono rimorchiare. Non sono maschilista, ma sarei pronto a mettere sul fuoco entrambe le mani affermando che su dieci di loro due soltanto si sono iscritte per mantenere davvero la linea. Supero la piccola discesa che porta agli spogliatoi e tiro dritto fino alla porta della stanza più piccola. Quando entro all'interno, il sottofondo musicale dei Linkin Park ha il potere di caricarmi ancora di più. Mi fa male la fronte, forse per lo sguardo corrucciato che mi si è stampato in faccia da quando ho finito il turno di lavoro e sono saltato in macchina per arrivare fino a qui. Akron, la cittadina dove siamo stati fino ad ora, dista una cinquantina di minuti in auto; io ero talmente turbato che ci ho impiegato solo trentacinque minuti per arrivare. Dave e Vincent mi batterebbero le mani se lo venissero a sapere.
Ho pensato che scaricarmi con la corsa avrebbe potuto aiutare, ma il caos che mi urla dentro non è passato, la tensione che sento addosso non è passata, e quel senso di agitazione misto ad incazzatura è soltanto aumentato durante il tragitto.
Perché sì, io con lei sono incazzato anche se non dovrei.
Passo tra i corpi dei ragazzi che si stanno allenando; mi salutano quasi tutti, mentre in tre gruppi distinti sono intenti ad eseguire esercizi diversi. Jeremia pensa che sia meglio per loro fare le cose a rotazione, così che lui possa osservare con più attenzione ogni gruppo e vedere chi è avanti e chi invece ancora deve restare una linea indietro. E quelli che sono indietro sono tanti. Come nella sala accanto, non tutti i ragazzi che si iscrivono alle sue lezioni di pugilato lo fanno perché davvero hanno interesse per questo sport. In molti si lasciano solo ammaliare dal presupposto che saper tirare un pugno ben mirato possa farli salire nella catena alimentare dei ragazzi del liceo. Non sono tutti così piccoli, ce ne sono cinque o sei che hanno più o meno la nostra età, ma loro hanno lezione in giorni e orari diversi.
Nonostante sappia che la lezione finirà tra poco meno di mezz'ora non riesco a stare calmo ed aspettare. Vado nel mio angolo, quello che uso sempre quando mi alleno, e mi piazzo accanto al ragazzo che lo sta usando. Mi sembra si chiami Brondy, o Randy, o qualcosa del genere. Qualsiasi nome abbia, però, adesso deve farsi da parte.
«Ho bisogno del sacco» lo avviso, e anche dire queste misere quattro parole mi costa parecchio sforzo. Non è una frase a caso la mia, ho davvero bisogno del sacco perché non sto reggendo più la tensione che ho addosso. Lui non replica, resta a fissarmi per un paio di secondi con gli occhi lievemente aperti e poi si tira indietro.
Senza nemmeno perdere tempo ad infilarmi i guantoni accarezzo le dita facendole scrocchiare e punto lo sguardo sul sacco nero.
Non sono molte le persone che sono a conoscenza di questa cosa, di solito è un'informazione che resta impressa solo nella mente di chi pratica sport del genere, ma la respirazione è tutto. È il perno portante di ogni movimento, è quella piccola cosa che sembra insignificante e che invece non lo è. La respirazione ti tiene fermo, ti aiuta a non sbagliare. Il respiro concentra la forza per far sì che ogni colpo venga tirato nella maniera migliore.
Lo so, l'ho sempre saputo, eppure non ce la faccio a mettere in pratica questa regola adesso.
Colpisco questo dannato sacco trattenendo il respiro fino a che non sento i polmoni bruciare, fino a che davanti agli occhi non ho più un'immagine definita ma frastagliata di vari, piccoli puntini. Non posso respirare, perché se permetto alla mia bocca di aprirsi ora so già che non uscirebbe aria ma solo un grido strozzato.
La sento lontana la voce di mio fratello che urla il mio nome, non mi giro verso di lui né smetto di fare quello che sto facendo. Ho bisogno di calmarmi, perché se non sono calmo non riesco a stare concentrato.
"Allora vuol dire che non volevi vedermi?"
La sua voce mi sbatte nella testa, e carico il braccio scontrando il pugno contro il sacco con più forza ancora. Quando carico di nuovo, la presa ferrea di mio fratello sul polso blocca la mia marcia incontrollata. Mi guarda negli occhi duramente, come se per un istante stesse pensando di piazzare la mia faccia al posto del sacco e mettersi al mio posto per finire quello che ho iniziato io, ma oggi che se ne vada al diavolo anche lui!
«Li stai spaventando» dice a voce bassa, accennando a qualcuno alle mie spalle.
Non ho bisogno nemmeno di voltarmi per capire a chi si sta riferendo; i suoi allievi li vedo tutti in piedi uno accanto all'altro riflessi nello specchio che ho davanti. Se ne stanno in silenzio, immobili, a fissare quello che ai loro occhi può sembrare un pazzo.
Ma non puoi dare del pazzo a qualcuno senza conoscere la sua storia.
«E ti stai massacrando le mani, Mayson» mi fa notare lasciandomi andare il polso.
Ha ragione, le nocchie non hanno più il colore della mia pelle, sono diventate uno squarcio rosso incandescente che ricorda il fuoco.
Dovrebbero far male, eppure quel dolore non riesco a sentirlo perché quello che ho dentro è molto più forte e reale.
Prendo i guantoni accantonati all'angolo del parquet scuro; sono l'unica cosa fuori posto di questa stanza perché quando non li uso giacciono lì, sempre pronti ad essere a portata di mano.
Non me ne frega un cazzo se i suoi allievi si stanno spaventando per il mio comportamento, loro non lo sanno quello che ho dovuto sopportare oggi.
Jeremia, però, non è loro. È mio fratello, sa la verità, e senza ombra di dubbio si è appena accorto che qualcosa, oggi, è cambiato.
Lo sento dire ai ragazzi che la lezione è finita e che recupereranno questa mezz'ora la prossima volta, e quando tutti sono fuori torna da me. Ferma il sacco con le mani e lo sposta di lato, togliendomi la possibilità di sferrare altri colpi. Se prima i suoi occhi avevano un vago cipiglio incazzato adesso sembrano profanare pena.
«L'hai incontrata» dice soltanto, ma questa affermazione è niente messa a confronto con quello che è capitato davvero.
«Jay» lo minaccio. «Lascia quel sacco.»
«Dove l'hai vista?»
Sospiro frustrato, incazzato, nervoso. I guantoni coprono le mie mani ma io le sento tremare lo stesso mentre le passo nei capelli. Non ero preparato alla giornata di oggi. Avrei dovuto esserlo, abita accanto a me maledizione e lo so che avrei dovuto essere pronto a vederla. Ma vederla e fare finta di niente per la strada o all'università è un conto, lavorarci spalla a spalla è tutta un'altra cosa.
Io non sono pronto.
«Ha iniziato oggi a lavorare» dico, poi gli tiro via il sacco dalle mani. «Da Phill» preciso, e colpisco di nuovo con la stessa potenza in cui questa cosa ha colpito me non appena le ho visto addosso quel maledetto grembiulino rosso. Non rispondo quando mi chiede se sto parlando del mio stesso capo, né rispondo quando mi chiede se lo prendendo per il culo. Non mi sembra affatto di avere l'espressione di qualcuno che vuole prendere per il culo qualcun altro, e lui dovrebbe rendersene conto.
È tutta colpa di Callie, dannazione. Le avevo detto di non fare niente, di non mettersi in mezzo, eppure con lei non c'è via di scampo: un asino ascolta di più.
Per l'ennesima volta mi blocca il sacco, e sono quasi pronto a spaccare la faccia a mio fratello maggiore. Non lo faccio solo perché ad impedirmelo è il suo guardo preoccupato.
«È cambiato qualcosa?»
Avvilito, scuoto a testa alla sua domanda. Non è cambiato un cazzo da allora. Se fosse stato il contrario le cose sarebbero andate diversamente: o me ne avrebbe parlato o mi avrebbe preso direttamente a calci nel culo.
«Tra un'ora c'è il primo incontro per il Dark Ring» mi ricorda, come se potessi essere così mentalmente incapace da scordarlo. «Invece di sfogarti con il sacco, cerca di tenere chiusa questa rabbia e lasciarla uscire lì dentro.»
Mi spinge lontano, avvicinandomi alla pila bassa dei materassini e facendomici sedere sopra. «Ne avevamo parlato, Mayson. Sapevamo tutti che il ritorno a casa ti avrebbe messo davanti alla possibilità di rivederla, ma tu hai accettato. Hai detto che potevi farcela.»
«Lo so.»
«Non siamo tornati per lei.»
Abbasso la testa, mentre le braccia restano a penzoloni appoggiate alle ginocchia. «Lo so» sussurro di nuovo.
Siamo tornati per fare altro.
Siamo tornati per avere la possibilità di prenderci la vendetta che ci spetta contro chi ha distrutto la nostra famiglia.
Sono sette mesi che io e Jeremia lavoriamo per raggiungere il Dark Ring, dove i soldi arrivano raddoppiati quando ti porti a casa la vittoria. E a noi quei soldi ci servono per arrivare in cima, perché la somma che ci hanno chiesto per iscriverci alla gara a cui puntiamo davvero ha cinque zeri dopo il numero uno.
Cento mila dollari per correre contro di lui.
Cento mila dollari per avere la possibilità di avvicinarci a chi ci ha quasi tolto un padre.
Cento mila dollari per Alan Brown, il re delle corse clandestine.
È per questo che abbiamo deciso di tornare a casa. L'affitto per la casa ad Akron ci toglieva la possibilità di far ammontare il nostro budget più rapidamente. Ne abbiamo parlato a lungo, abbiamo convinto nostra madre che tornare a Cleveland sarebbe stato più economico. Lei non ha idea che due dei suoi figli combattono per incassare soldi, e nemmeno che gli altri due fanno gare clandestine come le faceva suo marito fino a otto mesi fa.
Ci siamo divisi i ruoli partendo dal basso e dividendoci per quello in cui siamo più portati. Deven e Vince, con quattro ruote sotto il culo fanno scintille; io e Jeremia, a mani nude massacriamo la gente. Ma il Dark Ring è diverso da quello che abbiamo fatto fino ad ora; qui non si vince mettendo K.O l'avversario, qui si vince in base a quello che tu proclami di fare.
Se annunci di battere l'avversario in tre round devi attenerti a quelle parole, e solo così potrai riscuotere la somma di denaro. Se invece non lo batti, o lo metti K.O in round diversi da quello che tu hai definito, la vittoria non è valida. Puoi vincere, ma tornerai a casa senza un misero dollaro.
È stata tutta una questione di step ed investimenti. Per far parte di questa cerchia abbiamo dovuto mettere via quindici mila dollari. Ogni centesimo che abbiamo portato a casa tra incontri e gare lo abbiamo reinvestito per entrare in questo giro. Se tutto va come deve andare, questa volta quindici mila dollari ce li portiamo a casa con la metà del tempo che abbiamo impiegato in questi ultimi sette mesi.
La strada che abbiamo scelto è lunga, con in calcoli che ci siamo fatti ci vorrà un anno o poco più per arrivare ad Alan Brown. Ma alla fine ogni santo giorno ne sarà valsa la pena per quando i nostri occhi vedranno il suo corpo bruciare nella sua stessa macchina.
Vogliamo tutti la stessa cosa, siamo spinti a combattere dallo stesso perché e con lo stesso stato d'animo. Siamo una squadra, ancora più uniti di come lo siamo sempre stati in passato. C'è un motivo in più, però, per cui ho scelto di combattere questi incontri proprio al Dark Ring.
Abbiamo una vendetta che ci unisce, ma loro non hanno capito che non è l'unica a cui aspiro. Io ne ho una, di vendetta, che devo prendermi da solo e che soltanto questi incontri me la possono far raggiungere.
Quando arriviamo al Dark Ring le urla della gente che se ne sta ammassata dietro le transenne sovrasta ogni cosa. Le mani sono un via vai di mazzette di soldi che viaggiano per tutta la sala. Non ci sono regole, non ci sono limiti. Quello che accade qui nasce e muore nello stesso punto.
Non sono incontri a norma, ma l'ideatore di questo posto ha un ruolo fondamentale nella scala gerarchica della politica, quindi abbiamo quasi la certezza di avere legalmente le spalle coperte.
Delle luci basse sono puntate su un quadrato giallo disegnato a terra; niente gabbie che ti bloccano, niente corde che ti dicano dove finisca il tuo spazio.
Hai solo la concentrazione che può giovare a tuo favore, perché fuori da quelle strisce la gara la perdi.
Sono queste le uniche regole che esistono: restare nel quadrato e attenerti ai round che hai dichiarato.
I miei fratelli sono tutti dietro di me, l'altro lottatore mi guarda fisso a cinque metri da noi. Ha una stazza massiccia, lo sguardo incattivito, la mascella serrata e i pugni stretti lungo le braccia. Dichiara due round non appena Early -l' uomo sulla sessantina che organizza gli incontri- gli si avvicina. Quando viene da me mi guarda con occhi eccitati; nessuno qui dentro mi ha mai visto prima e sono euforici al pensiero della carne fresca che sta per essere macellata.
Questo, almeno, è quello che stanno pensando tutti loro.
«L'incontro è da tre mila dollari, Cole» mi informa. «Quanti round?»
Mentre parla non sposto gli occhi da chi sta per entrare nel quadrato. Pensa di farmi paura con quell'aria minacciosa, ma non sa che io non ho bisogno di farmi vedere rabbioso come lui.
Io la rabbia ce l'ho tutta dentro.
«Uno» rispondo. «Uno soltanto.»
Non ho tempo di osservare l'espressione di Early, perché alle mie spalle gli animi si innervosiscono.
«Ma che cazzo stai facendo. Ti sei bruciato il cervello?» sento urlare mio fratello, ma per fortuna Jeremia lo blocca prima che Vincent possa bloccare me. «Lascialo fare, Vince. È stata una giornata di merda per lui.»
Sotto gli occhi nervosi e confusi dei miei fratelli, Jay si avvicina e mi posa una mano sulla spalla. «Mayson» mi sussurra all'orecchio. «Adesso ti puoi anche sfogare.»
E sia ringraziato Dio, perché è proprio quello che ho intenzione di fare.
Appena il mio piede entra nel quadrato le voci della folla iniziano a sbiadire. Respiro, mi concentro e poi cerco la sua voce, perché solo lei ha il potere di farmi esplodere.
"Allora vuol dire che non volevi vedermi?"
Quando la campana suona, non ascolto più niente se non questa frase a ripetizione. L'adrenalina mi carica, mi aiuta a buttare fuori tutto anziché implodere all'interno, e non appena gli sono davanti lo colpisco.
Ogni tiro ha il suo scopo: un colpo per ogni parola detta o non pronunciata, un colpo per il dolore all'anima che ho provato quando mi ha afferrato per il braccio oggi pomeriggio, un colpo perché so che da domani la mia esistenza diventerà paradiso e inferno accanto a lei. Uno perché ormai è troppo tardi per dire la verità e un altro perché mi è bastato un solo cazzo di sguardo per capire che devo starle lontano. Anche se non lo so se ce la faccio a starle lontano.
E tutti quelli che vengono dopo sono per ogni ricordo che mi cammina sotto pelle e che ormai è andato a puttane. Perché i ricordi non mi bastano più. Perché è lei quello che mi manca.
E continuo così, respiro ad ogni maledetto colpo per non morire soffocato da tutte le cose che ho dovuto sopportare, da tutte le decisioni che ho dovuto prendere ma che non volevo fare. Continuo così, fino a che quello non crolla a terra.
La sua faccia è una maschera di sangue, e tutti i muscoli che ha sviluppato allenandosi non sono più in grado nemmeno di farlo rialzare.
Mi ha giudicato male, ha pensato che fossi uno troppo avventato che poteva mettere al tappeto con la stessa facilità con cui si atterrano i manichini.
Ma io non sono un cazzo di manichino, sono una bomba che da un anno e mezzo ha incamerato fin troppa merda sulle sue spalle e che ha iniziato solo adesso ad esplodere.
Io ho iniziato solo adesso a prendere la mia vendetta contro chi mi ha fatto allontanare dalla cosa più importante che avevo.
E quella cosa era lei.

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