Capitolo 1

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"Senti il vuoto.
Quel vuoto che ti mangia vivo e che non sai come gestire.
Puoi provare a fare qualunque cosa,
ma se non sei pronto
ad affrontarlo
allora devi tremare.
Trema, perché quel vuoto
sta per diventare
il tuo padrone."
-Mayson Cole-

Emory -Oggi-

«Vergine: ci saranno situazioni scomode e altre più soddisfacenti. Si preannuncia un anno vario, ma dovrete comunque non abbassare mai la guardia, soprattutto nei confronti dei vostri umori e delle vostre insicurezze, esasperate da Nettuno e Saturno, che potrebbero anche farvi perdere ottime occasioni. Sarà il momento giusto per fare le grandi pulizie, in tutti i sensi...»

Cerco di non far caso al tono duro e risulto, con un pizzico di soddisfazione che esce dalla sua bocca, mentre dice queste ultime parole e mentre continua a leggermi il suo adorato oroscopo. E soprattutto cerco di non girarmi nella sua direzione perché so con certezza che il suo sguardo mi sta fissando, con gli occhi ridotti a due fessure tanto per fare più scena.
«.. Sarà necessario sgombrare il campo dagli equivoci, dai dubbi, dalle insoddisfazioni.» Calca di nuovo la voce sulle parole che le fanno più comodo, e che giuro sto per stufarmi di brutto.
«... Gli eventi quest'anno saranno tali da costringervi quasi a farlo. Siate sicuri di voi stessi, riflettete, non siate mai precipitosi.» Con un gesto quasi disinvolto noto con la coda dell'occhio che si appoggia un dito sul mento e se lo sfrega con poca delicatezza, mentre io vorrei girarmi e dirle "lo vedi? non bisogna essere precipitosi!" con il sorriso stampato sulla faccia. Ma sono quasi contenta di non averlo appena fatto, dato che lei ricomincia a parlare con un ghigno maledetto sulle labbra e il tono di voce molto più forte di prima: «E non abbiate timore di dire basta a situazioni che non vi hanno portato nulla di buono. Ci vorrà impegno ma vedrete che ne varrà la pena.»
Dovevo aspettarmelo che non aveva finito!
Richiude il giornale, quello stesso giornale che adesso vorrei bruciare con un fiammifero, e lo sbatte sul cruscotto con un rumore secco che non frena per niente il fastidioso suono della sua risata sotto i baffi. Non apro bocca e continuo a guardare dritto davanti a me, mettendo la quarta al mio rottame di furgone. Mi è stato regalato al mio diciassettesimo compleanno e da allora, anche se il più delle volte mi lascia a piedi, non mi è mai passato nemmeno per l'anticamera del cervello di cambiarlo con qualcosa di più nuovo. Dopo tre anni in sua compagnia non saprei proprio come reagirei se affacciandomi dalla finestra non lo trovassi più davanti ai miei occhi. Forse potrei fargli dare un'occhiata e chiedere quanto mi costerebbe sistemare la sua vernice blu tutta sbiadita, e magari rimettere qualche pezzo nuovo che mi permetta di non restare più a piedi. Oppure dovrei solo rottamarlo e comprarmi qualcosa di più decente, in fondo l'oroscopo mi dice di fare grandi pulizie.
Non che io creda a tutte queste cose ovviamente; se fosse così la scorsa settimana avrei vinto un mucchio di soldi alla corsa dei cavalli, e due settimane prima avrei passato tre giorni splendidi. Be', la settimana scorsa mi sono partiti trecento dollari per aver fatto scontrare il mio rottame contro un autobus -e giuro che la colpa non era mia ma dei freni che hanno ceduto all'ultimo-, e due settimane fa ho dovuto assentarmi dal lavoro perché sono stata presa in ostaggio da trentanove di febbre. Si può prendere la febbre così alta gli ultimi giorni di agosto? Di solito no, solo a me capitano cose del genere. Quindi che si fotta l'oroscopo!
Non ce li ho i soldi per cambiarmi l'auto.
«Hai sentito quello che ti ho appena letto?» mi domanda. Non c'è bisogno di girarmi a guardarla per sapere che ha alzato il sopracciglio sinistro fino all'attaccatura dei suoi capelli tinti di rosso, dopo averle risposto con qualcosa che sembrava più un miagolio che un verso di assenso. La conosco da tutta la vita e conosco alla perfezione ogni suo modo di fare. Sospetto fortemente che ora sospirerà e poi urlerà con quella voce stridula che sa romperti i timpani peggio di un antifurto. Aspetto circa due secondi prima di sentirla buttare l'aria fuori dalla bocca, e non posso fare a meno di stringere le labbra per non sorridere.
«E allora?» squittisce.
Regolare come un orologio svizzero.
«E allora cosa, Callie? Lo sai che non credo a queste stronzate!» Lo sa, dannazione, eppure continua ogni volta a perdere tempo con quelle parole buttate su quel maledetto giornale. Ogni settimana la cosa non cambia: la passo a prendere, sale sul furgone, mi sorride come se ne sapesse una più del diavolo perché ama infastidirmi e poi inizia a leggere calcando le parole che le piacciano di più.
«Stronzate?» ribatte inviperita, come se le avessi appena detto che sua madre non è la sua vera madre e che suo padre è scappato con una brasiliana giusto questa mattina dopo averle dato il buongiorno. «Gesù, Emory, ma sei stupida o che altro? Lo hai sentito chiaramente cosa dice quest'oroscopo, e sembra che stia parlano della tua vita in tutto e per tutto.»
Si abbandona sul sedile sbuffando, e io sbuffo accanto a lei. Non sta affatto parlando della mia vita, solo che lei vuole vederci questo perché parte della mia vita non le piace e perché il tizio che scrive l'oroscopo ha poco più di trent'anni e se li porta divinamente.
«Stai perdendo la ragione a forza di stare dietro a quello psicopatico che scrive tutte queste cose. Non devi per forza credere a quello che scrive solo perché ti sei presa una cotta per lui» la prendo in giro sorridendo.
«Non mi sono presa una cotta per lui» replica tra i denti, ma entrambe sappiamo che le cose non stanno come dice lei.
«E non è uno psicopatico. È un tipo geniale» afferma, mentre abbassa il finestrino e si fa scorrere l'aria tra le dita.
«Sarà geniale quanto ti pare ma non credo ad una sola parola di quello che scrive, per lo meno non su quello che riguarda la mia vita» insisto alzando una spalla. Avrei voglia di gridarle in faccia quanto odio quel tipo per tutte le cose che le fa passare per la testa, ma poi dovrei sorbirmi quanto lei odia il mio, di tipo, e ne ho abbastanza perché me lo sento ripetere tutti i santi giorni che ha creato il signore. Quindi mi mordo la lingua e non aggiungo altro per i cinque minuti che restano, fino a che i miei occhi non scorgono un parcheggio nell'aria dedicata al mercato coperto della città. Ho sempre avuto un debole per i mercati aperti, dove il sole ti scalda la pelle mentre cammini tra banchi e bancarelle e dove quel poco d'aria che tira durante l'estate ti rinfresca facendoti sospirare. Nella nostra città non esiste niente del genere: Cleveland, la maggior parte dell'anno, ti gela le ossa e ti sovrasta di neve. Un mercato aperto durerebbe troppo poco anche per essere solo allestito come si deve.
Infilo il furgone tra due macchine nuove di zecca, e per l'attenzione che dedico a loro per poco non travolgo lo specchietto di quella a destra.
Sento il cuore esplodere solo nel vedere il misero centimetro che distanzia il mio furgone da quella macchina; se mentalmente mi faccio due calcoli veloci immagino che un graffio su quello specchietto mi costi quanto l'intera pensione di mia nonna, se non anche di più. Un'Aston Martin non è un'auto che si ripara con cento dollari dal tuo carrozziere di fiducia, e la pensione di mia nonna serve a mia nonna, non a me e ai guai che combino. Quelli di solito me li gestisco da sola.
Faccio attenzione quando apro lo sportello, e trattengo l'aria per ritirare il più possibile la pancia mentre esco con cautela dal furgone. Ho lisciato l'Aston Martin, ma sbattere lo sportello contro una BMW i8 coupé significherebbe lavorare un anno solo per ripagare il danno.
Non ho mai visto auto del genere in città.
Con la pancia ancora tirata e il respiro bloccato chiudo fuori dalla mia testa le lamentele di Callie sul fatto che ancora non mi sia imparata a parcheggiare, anche perché -per quanto mi riguarda- non sono io che ho da imparare ma lei. Quando parcheggia è in grado di prendere tre posti auto e farli prepotentemente suoi senza il minimo problema.
Tiro fuori dalla tasca dei jeans il foglietto strappato della lista della spesa, poi lo divido in due pezzi e ne passo uno a lei.
«Abbiamo ventidue minuti prima che il turno di lavoro inizi. Dobbiamo sbrigarci.»
«Non ce la faremo mai a portare la spesa a tua nonna.»
«Sì, invece» sostengo. «Dobbiamo per forza, altrimenti mi uccide.»
Il suo sospiro si perde nell'aria. «Arriveremo in ritardo» sussurra avvilita, mentre io imbruttisco lo sguardo. No che non arriveremo in ritardo. Non posso permettermi di perdere il lavoro perché non ho la minima intenzione di tornare a gravare sulle spalle dei miei, né tantomeno su quelle di mia nonna.
Entro nel mercato praticamente correndo e travolgendo qualche persona, mentre spingo Callie dalla parte opposta alla mia; se ci dividiamo bene i compiti dovremmo farcela nel giro di cinque minuti. Il problema non è prendere la roba o pagarla, il problema è la strada da percorrere dopo. Mia nonna abita dalla parte opposta del Good Coffee, la caffetteria dove lavoriamo, e noi, al momento, ci troviamo nel mezzo. Brutta storia!
Arrivo al banco del pesce con la testa chinata, mentre cerco di tirare fuori dalla tasca anteriore i soldi stropicciati che ho infilato a pressione. Mi accorgo di quanta fila c'è solo quando sbatto contro la schiena di un povero vecchio e scusandomi alzo finalmente gli occhi. Sono decine. Decine di teste che fanno la fila per prendere solo un maledetto pezzo di pesce.
«Merda», sussurro, e per quella parola mi becco gli sguardi di disapprovazione del gruppetto Over50 che più mi sta vicino. Ho sussurrato, eppure loro mi hanno sentita lo stesso. Anche mia nonna fa così: dice che è sorda, che non ci sente, che deve per forza tenere la TV a mille, eppure riesce a sentire anche il più piccolo ronzio della mosca che vola indisturbata nella stanza accanto.
Non è sorda, vuole solo farlo credere perché a volte le torna utile.
Controllo l'orologio analogico del cellulare rendendomi conto che sono passati ben più di cinque minuti, e in preda ad un attacco isterico allungo il collo per capire quale sia il motivo di quel blocco dato che di solito la fila scorre velocemente.
Una bionda.
I suoi capelli sono la prima cosa che salta agli occhi; lunghi, lievemente ondulati e completamente sciolti. Ci passa una mano all'interno facendoli sembrare ancora più lucenti, mentre resta appoggiata alla lastra di alluminio che separa il venditore da noi, poveri cretini che si stanno marmorizzando a causa sua. Sembra ammaliato da quell'essere femminile, e non sembra avere fretta di far avanzare il prossimo cliente. In tutto questo, nessuno apre la bocca per lamentarsi. Ma io non sono nessuno, io sono quella che verrà cacciata dal lavoro se non mi sbrigo ad uscire da qui in tempo, quindi passo davanti a tutti marciando irritata e mi piazzo accanto a lei. Quando mi sorride capisco vagamente il perché quell'uomo di mezz'età si sia dimenticato della fila, nonostante ciò non me ne può fregare di meno.
Io ho fretta, maledizione!
Ignoro deliberatamente Barbie e mi rivolgo a lui. «Merluzzo» gli comunico. «Mi servono quattro filetti di merluzzo.»
Non so cosa gli passa per la testa mentre sposta lo sguardo da me a Barbie e dopo ancora alla fila dietro le mie spalle, ma qualsiasi cosa sia non riesce a metterla in atto molto velocemente. I mormorii iniziamo a sovrastare il lieve fracasso che invade le mura del mercato coperto, e cerco di non farmi toccare dal fatto che ce l'hanno tutti con me per essere passata avanti. Continuo a guardare quell'incapace che a fine mese avrà in tasca uno stipendio che sta praticamente rubando, e al suo silenzio prolungato sbotto.
«Forse non hai capito bene» sibilo, infilandomi tra Barbie e lui. «Tra un quarto d'ora devo iniziare il mio turno di lavoro e non ho nessuna intenzione di arrivare in ritardo solo perché tu stai cercando di organizzare la tua prossima scopata. Quindi prendi quei maledetti filetti di pesce e mandami via.»
Mi accorgo che la bionda se l'è data a gambe quando sento una ventata d'aria più fresca appiccicarsi alla mia maglietta. Meglio per lei, perché se si fosse azzardata a dire anche solo mezza parola le avrei strappato quei quattro peli ossigenati che aveva in testa. Non lo ringrazio nemmeno quando mi porge la busta e il resto dei soldi e sfreccio via attaccandomi al braccio di Callie e trascinandomela dietro non appena la individuo. Prova a farfugliare che ancora non ha preso la cipolla, ma non mi interessa: dirò a mia nonna che le avevano finite. Quando riesco ad uscire dal parcheggio ingrano la prima e parto sgommando. Molto probabilmente mi sono appena giocata mezzo copertone delle ruote ma è una cosa irrilevante: quello che importa è che io e lei arriviamo in orario alla caffetteria. È l'ultimo turno che abbiamo di mattina, perché dopo l'inizio dell'università dovremmo ricominciare a fare solo turni serali. E io quei turni serali me li voglio tenere stretti.
Sono solo quattro ore al giorno; la paga che ci dà Darren non conta molti soldi ma almeno ogni fine settimana abbiamo qualcosa in tasca. È facile lavorare per lui: l'ambiente della caffetteria è calmo, i clienti sono abituali e fintanto che non lo fai incazzare le cose vanno a gonfie vele. Ci sono solo tre regole che bisogna seguire per andare d'accordo con Darren: non essere sgarbati con la clientela, non litigare davanti alla clientela e non fare ritardo. Sono regole precise, facili da seguire, anche se con l'ultima io e Callie abbiamo qualche problema. Ci è già capitato un paio di volte di arrivare con un paio di minuti di ritardo e lui ci ha scalato dieci dollari dalla giornata. La sua ultima raccomandazione è stata fin troppo chiara: un altro ritardo e siamo entrambe fuori.
Ma questo è un giorno fortunato, perché varchiamo la soglia esattamente due minuti prima dell'orario prestabilito. Darren sta controllando dei fogli con la testa bassa accanto al registratore di cassa e non appena ci vede alza gli occhi sull'orologio accanto all'entrata. Non lo sento sospirare però capisco dal modo in cui ha gonfiato il petto per poi sgonfiarlo subito dopo che l'ha fatto. Scuote la testa e ci riserva un'occhiata obliqua. In risposta alzo le spalle. «Non fare quella faccia, siamo perfettamente in orario» gli faccio notare.
«Non vi ammazza nessuno se una volta tanto arrivate con cinque minuti d'anticipo, Emory.»
Ha ragione, questo glielo posso concedere, eppure non glielo dico. Ha poco meno di cinquant'anni, è passato dai venti molto prima di noi, e sa perfettamente quanto i giovani se la prendano comoda. Scommetto che alla nostra età anche lui si comportava esattamente come noi, se non addirittura peggio. Con un movimento meccanico mi lego i capelli in una coda disordinata passando uno dei miei laccetti a Callie, che come al solito si è scordata di portarsi. Mi ringrazia con un sorriso complice, il solito che mi rifila ogni volta che io precedo qualche sua mossa, dopo di che ci dividiamo i ruoli: lei all'interno della cucina ad aiutare Morgan a fare i dolci e io tra i tavoli a servire. Nonostante abbia fatto tutto di corsa, lasciato la spesa a mia nonna direttamente fuori dalla porta di casa, ed essere arrivata a lavoro per il rotto della cuffia, sorrido. Oggi è il penultimo giorno di vacanza e abbiamo deciso di passare la serata fuori. L'ultima notte senza pensieri, senza pagine e pagine di libri da studiare, senza quel briciolo di maturità di cui dovrò farmi di nuovo carico da dopodomani. L'ultima serata che mi concedo senza pensare a nulla che non sia il solo e unico divertimento. E quel sorriso me lo porto appiccicato addosso per tutto il resto della giornata. È su di me quando mi sciolgo i capelli uscendo dalla caffetteria; è su di me quanto salgo in macchina e la mia migliore amica accende il vecchio stereo a tutto volume; è su di me anche quando arriviamo a casa e mia nonna mi punta contro il grosso cucchiaio di legno urlando che la spesa non si lascia fuori dalla porta e che la mattina dovrei alzarmi prima per fare le cose come sia giusto farle. Nemmeno un uragano avrebbe il potere di togliermi questo sorriso perché ho la strana sensazione che la giornata sia perfetta.
Butto sul letto ancora disfatto una manciata di vestiti, mentre la testa rossa di Callie sparisce oltre le ante dell'armadio bianco che quasi cade a pezzi. Dormo nella vecchia camera di mia madre e non c'è un solo mobile che possa definirsi decente; l'unico comodino che c'è ha i cassetti sfondati e non si possono aprire. Al lungo specchio posizionato nell'angolo destro della stanza manca la parte superiore. La scrivania in legno scuro è completamente scorticata in ogni dove e ancora non capisco come possa reggersi in piedi data la miriade di libri che ci sono sopra. L'unica cosa che si salva è il letto: quello me lo sono portato da casa dei miei. In realtà loro volevano farmi portare l'intera camera ma so quanto mia nonna ami la sua casa così com'è quindi mi sono rifiutata. A parte una mensolina dove tengo le casse per la musica e un paio di mani rosse impresse su una delle pareti con lo sfondo bianco non c'è nient'altro che abbia cambiato in questa stanza. Sono venuta qui perché è vecchia, per darle una mano nelle faccende domestiche, non per stravolgere i ricordi che l'hanno accompagnata in questa casa per una vita intera.
«Secondo te è troppo corto?» La sua faccia spunta dall'armadio, mentre tra le mani tiene una stampella con un vestitino rosso glitterato. Le labbra sporte in fuori, le sopracciglia lievemente inarcate, come se stesse cercando da sola una risposta alla sua domanda.
Scuoto la testa. «Ti renderesti ridicola. Quello non sembra affatto un vestito.»
«Però ce l'hai nell'armadio» replica, poggiandoselo addosso e osservando il suo riflesso nello specchio rotto. Non le starebbe male; a vederla così, con quel vestito rosso e quei capelli rosso fuoco mi ricorda tanto Jessica Rabbit, ma non siamo in un cartone e conciata in quel modo passerebbe agli occhi della gente per quella che non è.
«In realtà non è nemmeno mio. Credo che l'abbia buttato lì dentro Izzie» deduco osservandolo meglio, e il che è molto probabilmente perché mia cugina ha sempre avuto il vizio di lasciare roba sua ovunque metta piede.
Me ne lancia altri due sul letto, questa volta dei miei, e senza nemmeno guardarglieli addosso scuoto la testa.
«Non staresti più comoda con un paio di jeans e una maglietta?»
«Non voglio stare comoda, Emory. Voglio rimorchiare» afferma maliziosamente. Perdendo ogni speranza le indico il vestito nero. Ogni vestito presente nel mio armadio ha toccato la mia pelle solo per le feste di famiglia. Non sono il tipo da gonna, né da vestitini, né tantomeno il tipo che indossa cose raffinate ed eleganti. Bisogna essere predisposti per vestire in quel modo e io non ho nemmeno un quarto di questa predisposizione. Amo le scarpe basse, amo i jeans e amo le magliette comode, quelle che non fanno passare nemmeno un filo di freddo quando le hai addosso. Le scarpe con il tacco? Per me sono un autentico invito per l'inferno. Quelle rare volte in cui l'ho dovute indossare si è sentito migliore e superiore anche un elefante storpio.
Osservando l'accumulo di panni sul mio letto mi chiede se ho già deciso cosa indossare. In realtà sì, mi è bastata una sola occhiata per scegliere cosa mettere. Prendo tra le braccia la pila di roba che ormai si è deliberatamente spiegata, pronta a buttarla di nuovo nell'armadio con la promessa silenziosa che domani piegherò di nuovo tutto quanto. Non ci arrivo però all'armadio: gli schiamazzi che arrivano da fuori mi incuriosiscono talmente tanto che mi impediscono di fare un altro passo. Do le spalle a Callie, troppo intenta a rimirarsi allo specchio per udire quello che sento io, e in un attimo le braccia cedono sotto il poco peso che stanno sorreggendo. Scosto di poco la tenda che mi copre l'intera visuale e vedo un ragazzo centrare un canestro che da troppo tempo è rimasto inusato. L'ha fatto con una mano sola, mentre nell'altra mantiene un paio di scatoloni color sabbia. Mi è impossibile non far saettare gli occhi su ogni individuo che è appena sceso da quelle macchine, cercando quello che non vorrei cercare, mentre lo stupore e l'incredulità mi sovrasta.
Non è possibile.
«Sono tornati» sussurro, tenendo gli occhi e le mani incollati al vetro della mia finestra. Sono tutti lì sotto, sorridono con gli scatoloni tra le braccia.
Lui, è l'ultimo che chiude la fila.
«Chi sono tornati?»
Mando giù qualcosa, forse saliva, forse ansia, forse tante cose del passato che pensavo aver mandato giù tanto tempo fa. Ma il cuore mi sta spaccando le costole, la saliva sembra sia sparita dalla mia bocca, e mi rendo conto che –forse- non ho mai mandato giù proprio un bel niente.
«I Cole» sussurro di nuovo, e questa volta me la sento soffocare la gola.
«I Cole sono tornati
Non bado alla sua spalla che si scontra con la mia quando arriva accanto a me per osservare; non bado all'imprecazione che le esce sussurrata dalle labbra. Non bado a niente perché mi sento sconvolta anche se non dovrei. Però al suo sorriso ci bado eccome. Ha la bocca spalancata, gli occhi che quasi le escono di fuori, e sembra che l'aria sia uscita del tutto dai suoi polmoni. Sembra sconvolta peggio di me, ma io non ce l'ho il suo sorriso stampato sulla faccia.
«Callie» la chiamo, ma lei non mi presta attenzione.
«Lo sapevo» sussurra. «Cazzo, lo sapevo che aveva ragione!»
«Che aveva ragione chi
I suoi occhi si allargano se possibile ancora di più. «Evan Beaumont, quello dell'oroscopo!» esclama.
«Smettila di dire stronzate» le ringhio tra i denti. Non posso credere che stia pensando davvero quello che ha appena detto.
«Sono tornati a casa, Emory. Lui è tornato a casa. Beaumont ha ragione su tutta la linea: quest'anno sarà tutto diverso» afferma, mentre io mi sento solo risucchiare da un vuoto immenso senza essere in grado di dargli nemmeno un nome.

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