Capitolo 4

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***

A vent'anni credi di avere tutta la vita davanti a te; pensi di finire le scuole, l'università, di prendere una laurea e con quel pezzo di carta cercare un lavoro che possa soddisfarti nella vita. A vent'anni credi che per completare la tua esistenza bisogna solo trovare l'amore, sposarti, avere dei figli e un briciolo di sfacciata fortuna per veder crescere almeno per qualche tempo i tuoi nipoti.
Lavoro, famiglia, tutto il resto può anche andarsene al diavolo.
Sembra un ottimo quadretto, magari a lunga veduta e un po' più lontano dai vent'anni per chi invece vuole sfondare e fare carriera, ma alla fine è quello a cui tutti pensano, o per lo meno quello che i tuoi genitori ti inculcano in testa quando inizi ad avere l'età per capirci qualcosa.
Non ho mai pensato a tutto questo, ma si dice che quando sfiori la morte a queste cose ci pensi eccome.
Ecco, io sto appena pensando che questo bel quadretto sul futuro sta andando deliberatamente a puttane.
Sto per morire.
Sto per morire soffocata dal mio stesso fiatone.
Il cuore è peggio di un martello pneumatico che mi sta fracassando il petto, le gambe sono quasi diventate della stessa consistenza dello zucchero filato, e a forza di respirare velocemente il freddo dell'aria che mi entra nella gola me la sta praticamente ibernando.
Ho sempre amato correre, ma farlo di prima mattina, dopo essermi svegliata in ritardo e aver fatto affidamento su un furgone malefico che mi ha di nuovo lasciata a piedi, non è affatto una bella cosa. Per non parlare del fatto che è il primo giorno di università e che ancora devo capire in quali aule si terranno le lezioni. Durante la chiusura estiva hanno fatto dei lavori che non sono ancora terminati, quindi tutto quello che conoscevo dopo aver passato tre anni alla Clevelend State University è completamente nullo. Da quello che mi hanno detto soltanto il posto della mensa è rimasto invariato, dopodiché ogni aula resta un mistero da dover scovare peggio di una caccia al tesoro.
Quando mi sono catapultata in segreteria per farmi dare gli orari la tipa con gli occhiali a mezza luna mi ha guardata come se fossi una fuorilegge pronta a far fuoco nella sua scuola. Non è la stessa dello scorso anno, quindi non è abituata a vedere la mia faccia struccata, i capelli fuori posto e gli occhi fuori dalle orbite per i continui ritardi. Ci ha messo il doppio del tempo dovuto a farmi avere tutto quello che mi serviva e per tre volte di seguito le ho dovuto richiedere dove diavolo hanno spostato l'aula E2. Non ci voleva molto a dirmi che era la quarta porta a sinistra dopo la fine delle scale del secondo piano, eppure lei per due volte consecutive non è riuscita a spiegarsi in un modo che io potevo apprendere. A questo punto le cose sono due: o ancora non riesco a svegliarmi del tutto e a mettere in moto il cervello oppure lei non sa fare il suo lavoro.
Usando tutta la delicatezza che mia madre mi ha donato al momento della nascita spalanco la porta dell'aula di letteratura; ci sono più o meno una sessantina di persone e non c'è una sola testa che non è voltata verso di me. Alcuni hanno gli occhi spalancati, forse per il silenzio che ho interrotto quando mi sono catapultata all'interno, altri sghignazzano sottovoce e immagino che si stiano divertendo un mondo a fare battutine sarcastiche sulla ragazza elefante che ha appena interrotto la lezione. Ho un fisico normale, non posso definirmi delle stesse dimensioni di un pachiderma, ma in quanto a grazia nel fare le cose non mi posso proprio definire una donnina delicata. Appunto per questo l'elefante di solito è l'animale a cui più spesso mi associo.
Mi rivolgo direttamente alla professoressa Wallace scusandomi per il ritardo, lei, con le braccia conserte, batte ripetutamente la punta delle sue decolté nero fumo facendo riecheggiare nella grande stanza quel ticchettio fastidioso.
Abbassa gli occhi sul suo polso, osservando un orologio che molto probabilmente costa più del mio rottame di furgone. «La lezione è iniziata quindici minuti fa, signorina...?» Mi chiede il nome nonostante io segua le sue lezioni da tre anni e nonostante il fatto che sono tra la cerchia di quelli che di solito prendono il massimo dei voti. Vuole mettermi in ridicolo la stronza, ma non ha capito che a me non me ne frega niente se la gente mi classifica come quella che è arrivata in ritardo alla prima lezione del primo giorno di università.
«Scott» finisco la frase. «Emory Scott.»
Sarebbe bastato anche il solo cognome, ma glielo voglio far capire che lei non ha potere su di me. Per una decina di secondi non proferisce parola, si limita a guardarmi e basta, poi mi avvisa che sono graziata solo per questa volta.
Quello che invece vorrei risponderle io è che dovrebbe farsi una scopata di più al giorno, perché la sua acidità è fuori misura. Se queste sono le condizioni in cui si presenta il primo giorno di lavoro non posso immaginare a che livelli arriveremo a metà semestre.
Conto esattamente quattro teste rosso fuoco tra la massa, ma soltanto una agita la mano verso di me. Mi affretto a raggiungere Callie, che sposta la sua roba per farmi spazio dal banchetto accanto a lei. Siamo nella terzultima fila, nel lato opposto di dove sono entrata, e ovviamente era chiedere troppo se i posti li avesse presi accanto alla porta.
Quando scivolo sulla sedia per la prima volta da questa mattina mi sembra di prendere una pausa per respirare normalmente. Correre da casa mia fino a qui mi ha sfiancata.
Il suo gomito mi sbatte addosso e per poco non interrompo la lezione per la seconda volta urlando dal dolore. La odio quando fa così.
«Avevamo appuntamento al parcheggio più di quaranta minuti fa» mi sussurra avvicinandosi.
«Mi sono svegliata tardi e il pick-up non è partito.»
«Ti ho chiamata tipo venti volte.»
«Il telefono non si è caricato stanotte, è per questo che mi sono svegliata tardi. La sveglia non ha suonato» mi giustifico. Se non fosse stato per mia nonna che è entrata sbattendo la porta della mia camera non sarei arrivata in tempo nemmeno per la terza lezione della giornata.
Sul suo visto c'è dipinto il disgusto mentre mi guarda; per un attimo penso che sia per il fatto che non ho avuto tempo di lavarmi, ma poi mi rendo conto che non è possibile: ieri sera me la sono fatta la doccia, non è per il mio odore che mi guarda in questo modo.
«Che ti prende adesso?» Forse ho qualcosa fuori posto, di certo non oso immaginare in che stato siano i miei capelli dopo averli sballottati per tutta la corsa senza nemmeno averli pettinati questa mattina, ma presto capisco che non sono nemmeno i capelli a spingerla a guardarmi in questo modo.
Si sposta di lato, osservando la professoressa mentre parla del piano di studio di questo ultimo anno. «A volte ho paura che la tua sfiga si attacchi anche addosso a me» confessa. «Ne hai troppa con cui devi fare i conti.»
Sorride sotto i baffi, portandosi una mano alla bocca con le unghie laccate di viola. Per quanto mi riguarda non ci trovo nulla di divertente: le sue parole sembrano fin troppo veritiere. Per non mandarla direttamente a quel paese sposto lo sguardo dritto davanti a me e non le rivolgo la parola per tutto il resto della lezione.
«Ho provato a parlare con Darren ieri, ma non c'è stato verso di fargli cambiare idea.» Cammina accanto a me, tenendo tra le mani il vassoio stracolmo della mensa. Ha preso praticamente tutto, dalla zuppa di pesce che puzza di piedi alla carne che ancora getta sangue dal centro. I broccoli sono talmente cotti e sfatti alla vista che sembra li abbiano bolliti nell'acido. Forse sono quelli che puzzano di piedi e che mi stanno facendo torcere lo stomaco. Ci sediamo all'angolo di un tavolo lungo, dalla parte opposta un gruppetto di matricole sono intente a parlare e a ridere tra di loro. Qualche tavolo più in là la voce di Meredith ci chiama indicando i posti vuoti. Pranziamo con lei e le altre dal primo anno in cui abbiamo messo piede alla CSU e non capisco cosa ci debba essere di diverso oggi. Quando glielo chiedo mi risponde che sta soltanto salvaguardando me.
«Ieri sera quando è finito il turno mi sono fatta venire a prendere da mio fratello» dice, mettendosi in bocca una cucchiaiata della zuppa. Osservo il mio vassoio, e tra il piccolo panino e la frutta –le uniche due cose che mi sembravano commestibili- mi butto sui carboidrati.
«Ha detto che era al The Hole quando l'ho chiamato, e che c'erano anche loro» aggiunge indicando con la testa il tavolo dov'è Meredith.
La guardo confusa; il The Hole è l'unico posto della zona aperto di notte da poter essere definito decente. Tutti vanno lì. «E quindi?» la sprono a parlare. Si agita lievemente sulla sedia, facendo saettare gli occhi per tutta la mensa prima di riportarli su di me. «E quindi c'era anche Ryan.»
Annuisco lentamente, non so se se ne renda conto ma sono più confusa di prima.
«Michael dice che era ubriaco perso e che si stava quasi scopando una sulla pista da ballo.» Non si fa scrupoli a dirmi cosa le ha riferito suo fratello, la sua voce non ha nemmeno un picco di esitazione mentre mi mette davanti la verità dei fatti.
Smetto di masticare il panino, pensando al sorriso da bastardo che di solito gli si piazza in faccia poco prima di baciarmi. Immagino quel sorriso visto dagli occhi di un'altra che non sono io, e le sue labbra prendere possesso di labbra che non sono le mie. Lo cerco quel senso di disperazione che vorrei sentire, mi scavo dentro con prepotenza cercando di affondare gli artigli e far uscire allo scoperto qualcosa, ma l'unica cosa che davvero sento è solo un gran fastidio per il poco tempo che ci ha messo a rimpiazzarmi.
«È stato veloce» commento, staccando un pezzo di pane con la stessa voracità che vorrei usare per staccare la testa a lui. Adesso capisco perché non si è voluta sedere con le altre: voleva risparmiarmi i loro commenti sulla fantastica scena che hanno visto ieri notte.
«Può scoparsi chi vuole, Callie, non me ne frega un accidente» borbotto masticando. E non è nemmeno del tutto falso. L'ho chiusa io questa storia, e non ho nessuna intenzione di tornare sui miei passi. Per colpa di quell'imbecille ci ho anche rimesso il lavoro.
Aspetto di vedere la sua bocca aprirsi per dirmi che tanto lo faceva anche prima; secondo lei mi ha riempita di corna per tutto il tempo. Non posso dire se sia vero oppure no, e di sicuro non ho intenzione di perdere un altro misero secondo a pensare a lui.
La sua bocca alla fine si apre davvero, solo che dalle sue labbra non esce un singolo suono. La zuppa ricade nel piatto dal cucchiaio di plastica sospeso all'altezza del suo seno, i suoi occhi sbarrati e perfettamente truccati fissano un punto dietro le mie spalle. Sembra che abbia appena visto un fantasma.
«Callie Lowrence e Scotty trecce lunghe» sento qualcuno dire vicino al mio orecchio. «Non ci posso credere» aggiunge, e nella sua voce percepisco l'ombra di un sorriso.
Mi sento combattuta prima di voltarmi. Da una parte vorrei non aver sentito questa voce e dall'altra sento già le spine sotto il culo per alzarmi e fiondarmi al suo collo. Cerco invano di trattenere un sorriso, ma le guance fanno male e sono abituata ad esternare ogni cosa che sento e, ovviamente, tra le due prospettive preferisco di gran lunga la seconda. Il problema è che non so cosa aspettarmi da lui. Sono anni che non ci vediamo, e non ho la minima idea se è ancora il ragazzo estroverso con cui sono cresciuta per tutta la vita. Provo a mantenere saldo il mio corpo, e alzo lo sguardo solo quando il suo vassoio si poggia accanto al mio. Uno sguardo, e il sorriso che stavo trattenendo si ferma per un attimo.
Porta una maglia nera dei Metallica, con un teschio e una mano che stringe un pugnale impressi sopra. Ma non è la maglia a sconvolgermi, né le braccia dai fini muscoli definiti che ha sempre avuto. Gioca a basket da una vita, si allena da quando ha iniziato a camminare, quindi non l'ho mai visto solo pelle e ossa... No, quello che resto a fissare è il viso di uno dei migliori amici che ho lasciato sotto forma di bambino e che adesso sembra non avere più niente di un dannato bambino. I capelli scuri gli ricadono sulla fronte scomposti, come se al mondo non esistesse pettine che possa avere il lusso di poter essere usato dalle sue mani; gli occhi, altrettanto scuri come i suoi capelli, sorridono maliziosi completamente consapevoli dell'effetto che possono avere su qualsiasi ragazza. La pelle è pulita, senza un filo di barba, e i lineamenti più rotondi che aveva una volta si sono sfinati dandogli un senso di maturità in più. Cazzo, ha sempre avuto il suo fascino come del resto ogni individuo che proviene dalla sua famiglia, ma se al liceo aveva il potere di portarsi dietro gruppi e gruppi di ragazze, ho il sospetto che adesso sarebbero disposte a prendersi a capelli pur di accaparrarsi una serata con lui.
Tra tutti loro ne ho sempre guardato uno soltanto con occhi differenti, oggi, per la prima volta, ho il dubbio di aver sbagliato a puntare il radar verso il fratello sbagliato.
Ora capisco meglio l'espressione sulla faccia di Callie: probabilmente diventerà presto una di quelle che si prenderanno per i capelli.
«Il piccolo Cole» pronuncio alzandomi dalla sedia. Mi supera di una quindicina di centimetri, e se resto fissa a guardare dritto davanti a me l'unica cosa che vedo è il suo sorriso allargarsi. Scuote la testa, poi allarga le braccia, ed è l'unico invito che mi serve per rimettere insieme le idee. Non è cambiato affatto.
Mi alzo sulla punta dei piedi e lo stringo all'altezza del collo; il profumo che emana la sua maglietta mi sa di passato, ma di un passato bello, una delle poche parti che non cambierei per nulla al mondo.
«Sembri uno straccio, Scotty!» esclama, una volta che ci allontaniamo. «E hai messo la ciccia sui fianchi» aggiunge toccandosi una guancia con un dito e piegando la testa di lato mentre mi osserva.
«Tu invece sei venuto su davvero bene.» Mi volto di scatto verso la mia migliore amica; nonostante abbia appena parlato la sua faccia resta quella di prima. Non so se ridere o se prenderla per le spalle e darle uno sgrullone, ma alla fine opto per la parola. «Puoi anche richiudere quella bocca, Callie.» Probabilmente si rende conto che il suo mento sta quasi toccando il tavolino della mensa, perché dopo avermi ascoltata la richiude di botto.
«Posso anche chiudertela io, Callie.» Le si avvicina, scivolando sulla sedia accanto alla sua e avvicinandosi alla sua faccia. Dall'altro lato del tavolo nessuna delle matricole sta più sorridendo o sghignazzando: sono troppo impegnate ad osservare lui.
Alzo gli occhi al cielo per la sua battuta cretina e pregando per loro che abbiano un briciolo di istinto di sopravvivenza da non farle avvicinare a Deven Cole. Mi sono appena ricordata perché non l'ho mai guardato con altri occhi se non quelli di una sorella acquisita: è bello, intelligente, eppure troppo spesso cade nel baratro della deficienza.
Callie si avvicina di un paio di centimetri alla sua bocca facendo scivolare l'indice sulla sua guancia fino a farlo arrivare all'altezza del mento. Inaspettatamente le mie sopracciglia si inarcano non capendo cosa stia succedendo. Stavo scherzando quando ho pensato che lei potesse essere una di quelle che si sarebbero strappate i capelli.
Soffia il suo nome a fior di labbra, poi, di colpo, si volta dalla parte opposta e sorride malignamente.
«Sei cresciuto bene, ma non sono così stupida da farmi portare a letto da un Cole» sentenzia alla fine. La risata di lui si sparge tra le mura della mensa, e la mia la segue subito dopo. Per un attimo avevo davvero creduto che Callie si fosse bevuta il cervello.
«Sono contento di vedere che non è cambiato niente» sostiene Dave, alzandosi e riprendendo in mano il suo vassoio.
«Non resti?»
Scuote la testa guardandomi. «Devo vedere un paio di ragazzi per sapere dove e quando si tengono i provini per la squadra di basket.» Sorride mentre lo dice, ma poi affina lo sguardo e cambia espressione. Non so cosa ci sia dietro, ma io questo cambiamento l'ho notato. «E devo cercare mio fratello perché dovevamo pranzare insieme. Ma domani sono tutto vostro.»
Non mi interessa sapere che domani ci farà compagnia a mangiare questo schifo di cibo, quello che mi interessa è sapere di che sta parlando. I Cole l'hanno finita l'università, e lui è l'ultimo dei fratelli, quindi la sua è una supposizione che non mi quadra affatto, ma in questo Callie è più veloce di me.
«Di chi fratello stai parlando?»
«Mayson.»
I loro occhi si agganciano, lasciandomi fuori dall'argomento. Lo stupore è disegnato sulla faccia di lei, come è giusto che sia, lo sguardo che le rivolge lui, invece, è fin troppo serio per appartenergli davvero. Mi sento esclusa da qualcosa di cui invece vorrei far parte, ma loro continuano a parlare ignorandomi del tutto.
«Sbaglio o Mayson avrebbe dovuto finire l'università lo scorso anno?» gli chiede, e mentalmente le rispondo io: si, avrebbe dovuto terminare i quattro anni qualche mese fa, in qualsiasi posto sia stato fino ad ora.
«Ha saltato un anno» confessa lui stringendosi nelle spalle. «Abbiamo avuto un problema a casa e ha deciso di rimandare.»
Di colpo, il sorriso di Callie si apre.
Di colpo, io, vorrei soffocarmi con la frutta ed evitare di mettere in chiaro quello che ho appena sentito.
«Questa è una notizia meravigliosa» squittisce lei battendo le mani sul tavolo. Sembra che le abbiano appena detto che ha vinto il concorso di Miss America, io, però, non la vedo nello stesso modo.
È una notizia pessima. Schifosa. Rivoltante.
È una notizia che mi ha appena regalato la sbirciatina su un anno scolastico che andrà praticamente di merda.
E quando penso che di peggio non possa esistere ovviamente accade qualcosa che deve farmi ricredere.
Mentre siamo in fila per riposare i vassoi, la mano di Callie si attacca al mio braccio quasi stritolandolo. Mi sembra una scena già vissuta: la sua bocca spalancata, gli occhi sbarrati che fissano un punto dietro le mie spalle.
Non mi piace.
«Porca... puttana» sussurra. «Hai circa venti secondi per decidere se sei pronta ad incontrare il Cole numero due, altrimenti non ti voltare, dammi il vassoio ed esci di qui tipo... Adesso
Le gambe si bloccano. Il cuore anche, ma solo per un briciolo di secondo. Ho capito bene l'avvertimento di Callie, eppure non riesco a muovere un solo passo.
«Emory» mi intima lei, iniziando a sorridere. Lo odio questo sorriso che le si stampa in faccia ogni volta che i Cole sono nell'aria, ma non posso fargliene una colpa: anche lei come me ci è quasi cresciuta con loro.
Non sono pronta per un confronto.
Non sono pronta a guardarlo negli occhi.
Non sono pronta a niente che riguardi lui.
Ho avuto troppo poco tempo per riflettere sulla questione.
Non. Sono. Pronta.
Le mollo tra le mani il vassoio, e finalmente riesco a comandare le gambe e a farle funzionare. Sento la sua voce chiamarlo, e allora accelero il passo con il cuore in gola.
Non appena sono fuori dalla mensa, appoggio la schiena sul muro accanto alla porta. Sento il respiro vibrarmi nelle orecchie mentre cerco di calmarmi e odio sentirmi in questo modo, come se non avessi la forza di poterlo affrontare.
C'è tanto nel mio passato che non mi quadra, e non riuscire a ricomporre i punti mancanti mi manda in tilt la testa.
Alla fine delle lezioni esco con lo sguardo basso; non voglio incrociare la faccia di nessuno, perché tutti i ragazzi che stanno camminando attorno a me potrebbero essere lui. Accanto a Callie raggiungo la sua auto, e quando il motore parte chiudo gli occhi e sospiro cercando una tranquillità che non ho più da ore.
«Sicura di non voler sapere niente?» domanda uscendo dal parcheggio. So con certezza che ha parlato con lui abbastanza a lungo da potermi intrattenere fino a che non arriviamo a casa mia, ma è la quarta volta che me lo chiede e per la quarta volto faccio di no con la testa. Non voglio sapere niente.
Non oggi.
«Okay» sbuffa, afflosciando le spalle. «Però ho una buona notizia per te. Stai per avere di nuovo un lavoro.»
Mi raddrizzo sul sedile talmente velocemente che sento dolore alla schiena. Tutto quello che è successo in questa giornata di merda svanisce per un attimo facendomi intravedere i colori dell'arcobaleno dopo una lunga tempesta.
«Hai parlato di nuovo con Darren?»
«No, ma ho parlato con mio zio» annuncia. «Da oggi sei ufficialmente una cameriera del Burger Phill
Ho mai accennato al fatto che io amo la mia migliore amica?
Se non l'ho ancora fatto allora lo dichiaro in questo esatto minuto.
Amo Callie Lowrance, perché in ogni momento di sconforto lei trova sempre un modo per farmi tornare in carreggiata.     

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