I fari dell'automobile fendevano l'oscurità densa come inchiostro; più avanzavamo nella notte, e più forte provavo la sensazione di essere immerso in una perenne nube nera, un gas tossico che circondava l'auto e soprattutto i miei pensieri, sempre più tetri. Varelli guidava senza dire una parola, e il sottoscritto si limitava a guardare fuori dal finestrino, sempre più teso e pessimista. Osservavo in silenzio le strade buie e silenziose, certo di star combinando la più grossa sciocchezza della mia vita; rimuginavo sui motivi che mi avevano spinto ad abbracciare quell'impresa, detestando le ossessioni di cui non riuscivo a liberarmi.
Per fortuna il tragitto fu breve: nel giro di pochi minuti eravamo già fuori dalla cittadina, in aperta campagna. Varelli accostò a lato del grande spiazzo infestato dalla gramigna che ricordavo, e uscimmo dall'abitacolo. Fuori l'aria era fredda e umida, e si infiltrò senza difficoltà nei nostri cappotti, come dita gelide di morti. Eravamo in novembre, per tradizione un mese senza calore né speranza, e capii in quel momento per analogia che i miei ultimi anni erano stati così, un novembre triste ed ininterrotto... Erano stati loro a condurmi in quel posto in piena notte, i miei giorni perduti che nessuno avrebbe potuto restituirmi.
Da quelle parti il buio era pressoché totale. Senza lampioni dovevamo accontentarci della luce della luna e delle stelle, invero assai rade quella notte: accendemmo le torce elettriche che ci eravamo portati dietro, camminando in mezzo al nulla come due visitatori di un paese inospitale. Nonostante il buio fitto, scorgemmo presto la sagoma della casa, ancora ad una certa distanza: era una forma nera e minacciosa che si stagliava scura nelle tenebre, come un'ombra soprannaturale. Per un attimo pensai fosse un fantasma di cemento, ma scacciai subito quell'idea fantasiosa.
Il mio compagno non stava più nella pelle: camminava sempre più svelto, ansioso di arrivare a destinazione e per niente impaurito, tanto che faticavo a stargli dietro. Ormai a pochi metri dalla meta, si fermò di colpo e si voltò, mostrandomi il suo sorriso soddisfatto. Allargò le braccia, quasi a voler abbracciare il lugubre panorama, e proclamò trionfante: - Qui si fa la storia: da questo momento il futuro dell'umanità prenderà una nuova direzione! I nostri nomi finiranno sui libri, si parlerà di noi per secoli, se non millenni! -
La luce spettrale della torcia che gli puntavo contro stagliò netta la sua figura, lì in mezzo alla campagna buia. Fermo con le braccia aperte, con quei capelli arruffati e quegli stravaganti occhiali, mi parve più che mai uno spaventapasseri particolarmente inquietante.
Dentro la casa l'oscurità era pressoché totale, come in una tomba. I potenti raggi delle torce illuminavano solo porzioni di quel manto nero e soffocante, rivelando scorci di pareti scabre e ricoperte di polvere. Ci volle un po' per individuare le scritte che cercavamo; Varelli si mise subito al lavoro, completando con un gessetto blu i calcoli che uno sconosciuto ossessionato quanto lui non era riuscito a terminare chissà quanti anni addietro.
- Può darsi che non duri molto... Potrebbe essere instabile. - puntualizzò una volta che ebbe finito - Forse la formula dovrà essere perfezionata. Non lo escluderei. -
Se ne stava lì tranquillo a sproloquiare da professore (quale in effetti era), ma più passavano i minuti, più mi veniva da chiedergli di che diavolo stesse parlando. Non accadeva un bel niente, e stavo per protestare, quando sentii vibrare il pavimento sotto i piedi.
- Terremoto... - riuscii appena a biascicare, senza riuscire a sentire la mia stessa voce: la vibrazione si era trasformata in un boato assordante, e la terra si sollevò scagliandoci con violenza contro le mura rimanenti, privandoci delle nostre preziose torce. In quel caos riuscii a sentire i vetri delle finestre infrangersi in contemporanea, neanche fosse esplosa una bomba. Finì all'improvviso com'era iniziato, lasciandoci storditi ed ammaccati. O almeno io lo ero.
- Ha funzionato! - gridò il saputello in estasi – Ci siamo! - mi avvisò, mentre lo sentivo rialzarsi non lontano da me, e mettere un piede su un pezzo di vetro, facendolo scricchiolare. Le torce, rotolate chissà dove, si erano spente, il buio ci avvolgeva come un sudario: tremavo, perché Varelli aveva ragione, lì stava succedendo qualcosa, e quella scossa nella terra era solo il principio. Me lo dicevano i miei sensi all'erta, quel qualcosa di primordiale che non abbandona nemmeno gli esseri civilizzati.
Dal pavimento si alzava rapida una sorta di nebbiolina rossastra, che in breve tempo sparse la sua vampa malsana in ogni angolo dell'abitazione, rendendo tutto visibile. Ad un tratto il mio compagno d'avventura mi apparve avvolto in quella strana opalescenza, distante solo pochi metri, come se stesse nuotando nel sangue, o bruciasse dall'interno. Da come mi guardava, compresi che anch'io avevo lo stesso aspetto, e allarmato mi controllai le braccia e il corpo, rendendomi presto conto che era tutto a posto, che per quanto macabra quella era solo una luce.
Nel pavimento si era aperta una crepa lunga una decina di metri, e larga altrettanto, se non di più. Ci avvicinammo con cautela al bordo dello strapiombo, e quello che vedemmo ci tolse il fiato. Dire che dava le vertigini è poco; ci si sentiva sopraffatti, addirittura annientati da quell'immane spettacolo.
Era un abisso senza fine: per quanto ci si sforzasse, per quanto si aguzzasse la vista, non si riusciva a scorgere il fondo, una qualsiasi fine a quell'immensità; forse conduceva alle viscere del pianeta, ma era facile credere che affondasse fin nei più lontani recessi dell'universo. Scorgemmo non lontane delle figure che si arrampicavano lungo le pareti dell'abisso, avvolte dal rosso persistente che lì era molto più intenso, quasi vermiglio.
Erano figure antropomorfe, che di umano avevano solo la forma, esseri calvi e glabri che perdevano brandelli di pelle ad ogni movimento, come abiti logori che si sfaldino per la troppa usura. Nei loro movimenti c'era un che di inesorabile, come se fossero stati lì in attesa per epoche intere, uomini disumanizzati di un altro tempo e un altro spazio. Alcuni di loro volsero lo sguardo in alto, e ci guardarono. Non c'era alcuna curiosità nei loro occhi obliqui e degenerati, ma solo una sofferenza insopportabile che trascendeva qualsiasi comprensione.
Insieme a loro c'erano alcuni esseri immondi, dei nani ripugnanti metà uomo e metà lumaca, che li superavano in velocità e destrezza, tenendosi attaccati alle pareti del precipizio grazie ai ventri appiccicosi, simili a ventose. Non avevano gli occhi, ed annusavano famelici l'aria in cerca di qualcuno... Cercavano noi.
Più in fondo altre creature risalivano il burrone, esseri dall'aspetto così alieno da risultare impossibili da descrivere, se non addirittura da ricordare.
- L'infinito... - blaterò Varelli come un demente, fissando istupidito l'inferno che egli stesso aveva evocato. Qualunque cosa si fosse aspettato, non era certo quell'accozzaglia di mostri: il sogno di quell'uomo si era tramutato nel peggior incubo possibile.
Se ne stava lì, a riempirsi gli occhi di qualcosa a cui non riusciva a credere; era come ipnotizzato da quell'oscenità, quando si riscosse e fece qualcosa che in un primo momento non capii. Si tolse gli occhiali e lì gettò via, per poi chiudere gli occhi e massaggiarsi le palpebre con frenesia, quasi volesse cancellare le atroci visioni a cui era stato sottoposto. Continuò così per un po', per poi mormorare qualcosa di indistinto, probabilmente senza senso, tenendosi una mano sulla faccia, disperato. Era evidente che la sua mente non aveva retto: era stato troppo per lui, ma lo sarebbe stato per chiunque.
Non saprò mai se il suo fu un gesto consapevole o un semplice incidente; fatto sta che ad un tratto lo vidi precipitare nello strapiombo. Mi mossi quasi nello stesso istante: nonostante fossi a mia volta sotto shock reagii con prontezza, ma non abbastanza per evitare la tragedia; con la destra afferrai solo l'aria, e non potei fare altro che guardare impotente Varelli mentre precipitava nell'abisso. Finì tra le braccia di un gruppo di quegli esseri disumani, ormai prossimi all'orlo del baratro.
Ciò che fecero di quel misero corpo mi mise le ali ai piedi: gridai come un pazzo isterico e fuggii all'istante da quel rosso inferno. Fuori mi accolsero il buio e il freddo, compagni di certo migliori della follia a cui avevo appena assistito. Correvo senza una meta, come un animale braccato, senza pensare a niente se non a salvarmi. Ma non andai lontano: dopo pochi metri crollai al suolo, esausto, come una batteria ormai scarica. Il mio cervello e il mio fisico avevano sopportato troppo, e si ribellavano ad ogni ulteriore sforzo. All'improvviso non vidi e non sentii più niente, fu un vero e proprio black out. Svenni, inseguito nell'oblio dalle urla disperate di Varelli.
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La casa sull'abisso
HorrorSe guardi a lungo nell'abisso, anche l'abisso guarderà dentro di te. Scoprirai allora una nuova dimensione, in cui l'unica realtà è l'orrore.