Il teorema del delirio

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Varelli ostentava un sorrisetto che dava ai nervi. Avevo voglia di colpirlo, ma non lo feci: ero certo che gli avrei dato solo più soddisfazione.

- Allora? - chiese a mo' di sfida, mentre mi guardava dall'alto in basso, a cogliere ogni segnale della mia tensione, che trattenevo a stento.

- E' solo una casa abbandonata. - replicai a muso duro, mentendo come un adolescente recalcitrante che non vuole ammettere la verità. Mi ero precipitato in casa di quel pazzoide per dirgli chiaro e tondo che volevo lasciar perdere, ma appena messo piede in quel piccolo appartamento in disordine non ne ero più tanto convinto. Per la verità non sapevo cosa fare, né che pensare di quella stramba situazione.

- Certo, e io sono una bionda da paginone centrale di Playboy. - ironizzò velenoso, mentre mi scrutava con quei suoi occhietti penetranti. Portava degli occhiali con una strana montatura di metallo, con le lenti perfettamente rotonde: pareva davvero che avesse quattro occhi invece di due, ed ero certo che in quel momento riuscisse a leggermi dentro.

- Ok, è tutto molto strano da quelle parti... E allora? Il mondo è pieno di stranezze di ogni genere! - reagii alle sue occhiate insinuanti, mentre mi aggiravo in quel buco di appartamento in preda al nervosismo. Adocchiai la finestra (l'unica lì dentro), e attraverso i vetri non proprio puliti vidi le strade vuote e buie, che acutizzarono il mio malessere. Era passata poco più di un'ora dalla mia spedizione, ed era già calata la notte, portatrice di ogni genere di terrore. Rivolsi allora l'attenzione al mio interlocutore: Giacomo Varelli era un trentenne che non dimostrava la sua età, con la faccia da eterno bambino, rassicurante fino a quando non apriva bocca... O ti fissava con i suoi occhi indagatori, potenziati da quei bizzarri occhiali circolari. Era basso e piuttosto esile, con un cespuglio di capelli ricci perennemente in disordine.

- Menti a te stesso prima ancora di mentire a me. Te ne rendi conto, vero? - disse con ragionevolezza, mentre si sistemava una ciocca ribelle.

- Non so più a cosa credere. - ammisi, sconfitto dalle certezze incrollabili di quel nanerottolo occhialuto.

- Credi a quello che hai visto. E a quello che senti dentro. - proclamò come un oratore professionista. Sarebbe stato capace di vendere un frigorifero al Polo nord, poco ma sicuro. Ma che ci facevo lì? Ero tornato nel mio paese natale solo perché mia madre era morta, e invece di piangere la sua scomparsa o godermi l'eredità, avevo passato le ultime due settimane ad ascoltare le storie bizzarre di quel tipo che non vedevo dai tempi della scuola, quando io ero un ragazzo e lui solo un bambino. Avevo quasi dieci anni in più, ed ero alto e grosso quanto lui era piccolo e magro, eppure mi ero lasciato trascinare dalla sua macabra passione per delle teorie che nessuno sano di mente avrebbe perso tempo ad ascoltare. Dopo tanti anni me l'ero ritrovato al funerale, e nei giorni seguenti non fece altro che riempirmi la testa con le sue astruse teorie, rendendomi suo complice. Mi aveva beccato proprio nel momento adatto, era evidente, quando ero più fragile e malleabile, l'unico in tutto il paese disposto ad andargli dietro.

- La casa di per sé non è importante. - aggiunse Varelli con convinzione, e mi vennero in mente tutte le storie assurde che circolavano in paese a proposito di quell'abitazione abbandonata, truci vicende come omicidi, suicidi e malattie inspiegabili. L'ultimo fattaccio risaliva a mezzo secolo addietro: un tizio era impazzito all'improvviso, sterminando l'intera famiglia, cane compreso, finendo per passare il resto della sua esistenza in un manicomio criminale. Da allora più nessuno aveva voluto abitare da quelle parti, e la casa era stata lasciata andare in rovina, acquisendo ad ogni anno che passava una fama sempre più sinistra.

- Non è importante! - insistette Varelli, afferrandomi per un braccio, quasi volesse contestare i miei pensieri – E' il luogo dove sorge che conta: è un varco, forse solo un piccolo pertugio, ma che può spalancare visioni inaudite! - gridò quasi, a voler scacciare dalla mente del sottoscritto qualsiasi esitazione – Esiste una quinta dimensione ancora sconosciuta ai più, che pochi uomini nella storia hanno avuto il coraggio di affrontare! -

Si riferiva ad alchimisti ed occultisti vari, autori di libri maledetti, di cui riprendeva le folli teorie. Avevo letto solo uno di quei tomi, a metà per giunta, e le cose abominevoli che descriveva mi avevano tolto il sonno per più di una notte. Solo in quel momento capii, in un estremo attimo di lucidità, che era stato il suo entusiasmo a fregarmi: Varelli viveva per quelle sue fissazioni, ne era totalmente dedito, fino all'ossessione, mentre il sottoscritto era solo un insoddisfatto cronico, che nemmeno ricordava quando aveva provato un po' di trasporto per qualcosa o qualcuno. Nel suo strano modo quel dannato quattr'occhi era più vitale che mai, mentre io appassivo giorno dopo giorno; la verità era che volevo per me un po' del suo entusiasmo, non mi importava quanto folle o pericolosa potesse risultare quella faccenda. Volevo sentirmi vivo ancora per una volta, forse l'ultima.

- Hai trovato delle scritte su una parete... - aggiunse di punto in bianco, sicuro della risposta che gli avrei dato.

- Si. - ammisi riluttante – C'erano dei calcoli su un muro, come avevi detto, ma non ci ho capito niente. Non sono mai stato forte in matematica, non sono come te, fottuto secchione! - sibilai a denti stretti, tanto per sfogare un po' di nervosismo, senza riuscirci. L'aspetto più assurdo di tutta la faccenda era che insegnava matematica in una città non lontana; quell'uomo riusciva ad unire ciò che era pura logica ai sogni più sfrenati, la realtà più concreta a ciò che reale non poteva essere: mischiava senza ritegno la matematica più complessa alla magia, la scienza al delirio, sicuro così di ottenere la chiave per la conoscenza. Era uno studioso rigoroso e allo stesso tempo un moderno stregone, senza che l'evidente contraddizione di questo suo modus operandi scalfisse mai le sue incrollabili certezze.

- La formula è incompleta... - fece una pausa drammatica, che al sottoscritto risultò solo grottesca - O meglio era incompleta. - e sparì nell'altra stanza, per ritornarne subito dopo, armato di un vecchio quaderno ormai logoro.

Lo aprì davanti ai miei occhi stanchi, mostrandomi le stesse formule incomprensibili che avevo visto solo un'ora prima. Con una mano teneva il quaderno, con l'altra indicava con l'indice i calcoli che non potevo decifrare; ad un certo punto, lì dove ricordavo che le formule si interrompevano con un punto interrogativo, seguivano un altro paio di righe fitte di numeri e operazioni, con alla fine tanto di simbolo di = a cui seguiva un 8, presumibilmente la soluzione.

Era tutto lì!? Una stupida equazione (o come cavolo si chiamava) che finiva con un numerino piuttosto che un altro? Era tutto talmente assurdo che scoppiai a ridere come un pazzo, una risata rauca e senza allegria che durò un paio di minuti buoni.

- Hai finito? - chiese gelido Varelli, mentre chiudeva il quaderno e lo poggiava su un tavolino – Il risultato che hai visto non è soltanto un numero, ma il simbolo dell'infinito: hai appena letto la formula che dà accesso all'infinito, ma sei troppo ottuso anche solo per intuire ciò che ti è stato messo davanti agli occhi. - Non mi scomposi.

- E allora? - protestai, facendo spallucce – Ammesso tu abbia risolto l'equazione, cosa hai ottenuto? Non vedo niente di infinito qui, non è successo proprio un bel niente! - lo punzecchiai con cattiveria.

- Qui non è successo niente. - e fece un gesto ampio, a indicare le quattro mura che ci circondavano – Ma ... - finì alludendo alla dimora maledetta. Già, il posto su cui era stata costruita era un varco, o qualcosa del genere. O almeno lui ne era convinto. Mi si avvicinò di nuovo, e gli lessi negli occhi una volontà incrollabile.

Il suo piano era semplice ma efficace: mi aveva mandato ad ammirare coi miei stessi occhi quell'orribile meraviglia, facendomela entrare nel sangue come una droga, sapendo che dopo ne avrei voluta sempre di più. E la rivelazione della presunta formula per l'infinito, come la chiamava lui, era la ciliegina sulla torta della mia capitolazione. Dopo un simile trattamento non avrei saputo dirgli di no, sarei diventato il primo testimone della sua grandiosa scoperta.

- Dobbiamo provare questa notte stessa, perché aspettare? Non abbiamo nulla da temere, in quella casa ci aspetta l'infinito. - proclamò senza aggiungere altro.

- L'infinito. - replicai a mezza voce come un automa, ormai arresomi al mio tentatore. Sapevo che se non fossi andato con lui me ne sarei pentito per il resto dei miei giorni; pensai che era meglio andare, e magari affrontare una delusione, che restare con il dubbio e il rimpianto. Non potevo ancora sapere a quale disastro andavo incontro.

La casa sull'abissoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora