Mistero

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Il cielo terso, sereno, era percorso qui e là da rade nuvole, bianche come il latte. Era una visione rassicurante, una vera e propria medicina dopo l'incubo che avevo vissuto. Avevo da poco aperto gli occhi, temendo il peggio, ancora steso pancia all'aria sulle erbacce, lo sguardo rivolto al cielo. Mi alzai con fatica, ancora disorientato, guardandomi attorno in cerca di una minaccia qualsiasi. Ma lì non c'era nessuno, niente a parte il freddo del mattino. Diedi allora un'occhiata all'orologio, e constatai che ero rimasto privo di sensi per parecchie ore: avevo passato il resto della notte steso su quel campo, per poi risvegliarmi alle otto e trenta del mattino dopo. Mi pulii alla bell'e meglio i jeans sporchi di terra, spazzolandoli con le mani, ancora frastornato. Da quelle parti tutto era quiete e pace, e mi chiesi se davvero la notte precedente fosse successo ciò che ricordavo. Non lontano notai la macchina di Varelli, ancora ferma dove l'avevamo lasciata. Pareva un relitto.

Decisi di tornare nella casa. Ero tutt'altro che entusiasta di rientrare lì dentro, ma sentivo urgente il bisogno di vederci chiaro; se non l'avessi fatto sarei impazzito di sicuro. E poi i miei timori erano mitigati dalla mia parte razionale, che in quei minuti prendeva sempre più il sopravvento, tranquillizzandomi.

Tornai con la memoria ai fatti della notte prima, e più li analizzavo, più mi convincevo che non quadravano. Mentre ero svenuto le creature avrebbero dovuto raggiungermi e attaccarmi, e invece ero ancora tutto intero. Inoltre ricordavo un vero e proprio terremoto; eppure lì, nelle immediate vicinanze dell'epicentro, il terreno non ne recava alcuna traccia: niente crepe o segni di smottamenti, il suolo era pressoché intatto. Com'era possibile?

Ad ogni passo che facevo in direzione di quel rudere, mi ripetevo che non esistono dimensioni alternative che pullulano di mostri, che quello era materiale buono solo per film e racconti di serie zeta. Qualunque cosa fosse successa, doveva esserci una spiegazione razionale, come per ogni umano accadimento: ero ormai quasi certo che Varelli fosse solo un mitomane, ancora vivo e vegeto, e che mi avesse fatto vedere ciò che voleva. Magari drogandomi o ipnotizzandomi, senza che potessi ricordarlo, o forse solo con la forza della suggestione. Non sono forse le vittime dei ciarlatani i loro migliori complici? Per quanto improbabile, era comunque un'interpretazione dei fatti decisamente più plausibile dei ricordi assurdi che mi infestavano la mente: per fortuna dopo un periodo di squilibrio emotivo ero tornato l'uomo pratico di sempre. La sua auto era ancora parcheggiata vicino al campo, ero quindi certo che quell'imbroglione fosse ancora lì dove l'avevo visto per l'ultima volta, magari ad architettare qualche altra truffa; ero ansioso di affrontarlo e fargli sputare la verità, insieme a qualche dente, se fosse stato necessario.

Anche la casa non mi sembrava più così sinistra: in fondo era solo una vecchia bicocca abbandonata ed erosa dal tempo. Non era in condizioni peggiori di come l'avevo lasciata, a parte i vetri delle finestre tutti infranti. Ma c'era una spiegazione anche per quello: quel risultato non era niente che una buona mazza e qualche sasso non avrebbero potuto fare, come per ogni vandalo che si rispetti.

Entrai senza indugiare oltre, e gridai con rabbia il nome del mitomane, ma in quel grande spazio vuoto mi rispose solo l'eco. A causa delle finestre rotte, la luce del mattino penetrava senza difficoltà nell'ambiente scuro, illuminandolo come mai prima, anche se certi angoli più remoti restavano bui come li ricordavo. Ispezionai con foga quella casa deserta, in cerca di qualcuno che non c'era, imprecando per la frustrazione, rendendomi presto conto di essere solo. Le formule matematiche che imbrattavano una parete erano sgorbi che mi irridevano, insieme alla polvere che sollevavo ad ogni passo; sempre più irritato raccattai dal pavimento una delle torce elettriche usate la notte prima, e puntai il fascio di luce sul pavimento, in cerca di qualsiasi indizio che confermasse o smentisse i miei ricordi. A parte la polvere, sotto i miei piedi si stendeva una superficie pressoché intatta, lì non c'era nemmeno la più piccola delle crepe. Eppure nemmeno dodici ore prima avevo visto quel pavimento aprirsi... Che stessi impazzendo?

Stavo per andarmene, quando con la coda dell'occhio intravidi qualcosa in un angolo in ombra. Vi puntai la luce contro, e quello che vidi cambiò per sempre la mia concezione della vita e dell'universo. Le mie certezze crollarono all'improvviso come un misero castello di carte, dovetti ammettere di raccontare a me stesso solo pietose bugie. Era tutto vero: esiste una quinta dimensione, un altrove proibito che minaccia di distruggere il nostro piccolo e fragile mondo, un altro tempo e un altro spazio che è bene restino ignoti all'umanità, se vogliamo continuare ad esistere. L'universo è troppo vasto e complesso perché essere limitati come noi possano sfidarlo, o anche solo comprenderlo; siamo soltanto piccoli esseri sperduti nell'infinito, condannati all'ignoranza e al terrore.

Solo il caso aveva salvato il nostro pianetucolo dall'invasione, Varelli ci aveva visto giusto: la formula andava perfezionata, il varco che si era aperto era assai instabile, probabile che fosse durato solo pochi minuti. Per questo, e solo per questo, per un difetto di approssimazione nei calcoli, la Terra era ancora salva. L'abisso si era aperto e richiuso, inghiottendo l'incauto umano che aveva osato evocarlo, senza lasciare alcuna traccia della sua orrenda meraviglia.

L'oggetto che avevo scoperto per caso in mezzo alle ombre, era un paio di occhiali con la montatura in metallo e le lenti perfettamente circolari.

Non c'erano dubbi, erano gli occhiali di Giacomo Varelli. Di lui non si seppe più nulla.


La casa sull'abissoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora