1. Ho bisogno di andare via da qui.

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Quello a cui stavo lavorando da almeno quattro ore era il mio ultimo progetto per la Austin High School: lo sapevo bene. Fin dal momento in cui avevo deciso di accettarlo.

Continuai a far scorrere freneticamente gli occhi sulle pagine internet aperte sul mio laptop mentre cercavo di non cadere addormentata. Era davvero troppo tardi, ma non potevo andare a dormire senza aver prima finito la mia ricerca. Non potevo perdere altro tempo. Prima avrei scritto quel saggio sull’Ucraina per il professor Timber, prima sarei stata libera di considerarmi in vacanza – seppur prematuramente.
Ero nata e cresciuta ad Austin, ma non volevo più starci. Il Texas ormai mi andava stretto. Avevo sedici anni e tanta voglia di indipendenza. Se fossi stata fortunata, quella che stava per arrivare sarebbe stata la mia ultima estate laggiù.
Quello stesso inverno mi ero segnata volontaria per un corso di intercultura in California. Se solo qualche famiglia avesse deciso di adottarmi, sarei andata a stare lì per ben nove mesi. E mi sarei liberata almeno per un po’ di tempo della mia terra natale. Avrei frequentato il mio penultimo anno di liceo a Beacon Hills, una cittadina piccola e tranquilla. Proprio ciò di cui avevo bisogno io per scampare dall’aria metropolitana della quarta città più grande del Texas.
«In seguito alle elezioni per la Verchovna Rada...», iniziai a leggere, mentre trattenevo uno sbadiglio.
Credevo che leggere ad alta voce la ricerca – o quello che ne stava venendo fuori, insomma – potesse aiutarmi a rimanere più concentrata. Purtroppo, però, visto quant’ero stanca non ero nemmeno più tanto sicura del fatto di starmi comportando nel modo giusto. E se stessi sbagliando tutto?
Non potevo permettermelo. Non potevo avere un debito in storia, dal professor Timber. Mia madre non me l’avrebbe perdonato mai, mia sorella – la secchiona di famiglia – mi avrebbe preso in giro a vita e io di conseguenza sarei stata eliminata repentinamente dalla lista dei nominati per l’intercultura.
Alzai gli occhi color nocciola al cielo, incontrando la visione del grande orologio rotondo che tenevo in cameretta, sopra la porta. Segnava l’una meno venti. Merda. Era davvero troppo tardi.
Comunque, evitai di farmi distrarre anche dal movimento lento delle lancette e riportai gli occhi sul laptop, imprecando in mezzo ai denti.
«Stai concentrata, Harry», mi ammonii, scuotendo la testa mentre prendevo un bel respiro. Riaprii gli occhi e fissai nuovamente il documento di Word ancora incompleto. Ripresi a leggere ad alta voce. «… il parlamento ucraino, tenutesi il 26 marzo 2006, la ‘‘coalizione arancione’’ presieduta da Juščenko uscì notevolmente ridimensionata... a causa del voltafaccia di una parte della coalizione: il partito socialista».
Pensai immediatamente di aver scritto un paragrafo senza senso. Sentii gli occhi riempirsi di lacrime.
«Oh Dio. Non posso anche perdere tempo a piangere, ora!», brontolai, allontanando il pc dalle mie gambe e lasciandolo sulla coperta, incurante del fatto che non fosse bene per l’apparecchio essere lasciato su superfici come quella.
Di certo avrei dovuto farci attenzione – in fondo, se mi si fosse rotto proprio il pc allora sì che sarei stata irrimediabilmente fottuta – ma ormai, dopo quattro ore no stop di studio, non ero più molto attenta a cose del genere.
«Sono troppo stressata. Adesso basta», dissi, prendendo l’ennesimo respiro profondo.
Abbandonai il caldo letto e mi misi in piedi, toccando il pavimento con le doppie calze di spugna. Quelle là erano una delle mie più grandi stranezze. Infatti, non importava che stagione fosse e quanto caldo facesse, ma io tendevo a non toglierle quasi mai.
Non lo so, forse il tutto derivava del fatto che non avendo mai in vita mia portato ciabatte, l’unico modo che avessi per sentire protetti i miei piedi fossero le calze. E finivo così per non toglierle mai, nemmeno d’estate. Questo ovviamente solo quand’ero in casa.
Alzai gli occhi al cielo, ravviandomi i capelli e muovendomi titubante lungo tutta la cameretta. L’ennesimo sbadiglio sfuggì al mio autocontrollo. E finalmente, decisi di andare a dormire. 
«Okay, continuerò domani. Non hai nessuna fretta, in fondo. Lo sai, Harry?». Sì, parlavo da sola. Serviva a tranquillizzarmi. «La scuola finirà tra diciassette giorni. Hai tutto il tempo per fare un buon lavoro. Ma adesso hai bisogno di riposare».
Conclusi la mia arringa che ero arrivata di fronte all’enorme specchio a parete a furia di camminare a zonzo per la cameretta. Fui costretta a scontrarmi col mio riflesso – orribile – e mi sforzai di farmi un sorriso per riparare a quella brutta faccia che mi ritrovavo.
Maledizione a me che non riuscivo mai a studiare nel pomeriggio, perché troppo impegnata a stare fuori coi miei amici, e mi riducevo ogni volta a dover iniziare i compiti alle nove di sera.
Cercai nuovamente con lo sguardo l’orologio da parete. Mancavano ormai pochissimi minuti all’una.
Non aspettai nemmeno di darmi un’altra controllatina allo specchio. Mi girai fulminea verso il letto e arraffai il pc alla velocità della luce, muovendomi altrettanto repentinamente verso la scrivania.
Poi, però, un rumore agghiacciante per poco non mi fece cadere il laptop di mano. Mi ritrovai a sobbalzare mentre per la sorpresa e la paura inciampavo nella sedia da studio di fronte alla scrivania e mi ritrovavo stesa per terra, col pc a pochissimi passi da me.
In quel momento sinceramente non pensai neanche minimamente all’evenienza di poterlo aver rotto. Chi se ne fregava? Meglio lui che io. Stavo rischiando un esaurimento nervoso.
In realtà non pensai nemmeno all’imbarazzo che in un’altra situazione mi avrebbe causato la caduta appena fatta. Cioè, in realtà c’ero abituata e fin troppo a cadere dovunque. Era scritto nel mio dna. Se qualcuno mi avesse chiesto in cos’ero brava avrei risposto che inciampare era la mia abilità numero uno.
Comunque… il raschiare contro la porta continuava, imperterrito. Mi rimisi in piedi lentamente: stavo tremando. Chi mai poteva essere? Mia madre e mia sorella erano uscite come loro solito, e io ero chiusa in casa. Da sola.
Ma forse mi sbagliavo. Non ero affatto sola.  
«Tranquilla… tranquilla, Harry», sussurrai a me stessa, desiderando fortemente aver invitato Ryan a passare la notte con me.
Mi guardai intorno affannata, nella ricerca di qualche oggetto contundente più o meno pericoloso. Speravo che impugnare qualcosa mi avrebbe fatto sentire più al sicuro ma… non c’era nulla lì. Nulla di utile. Mia madre, Jenette, aveva sempre avuto la fobia degli incidenti, quindi faceva di tutto per procurarmene il minor numero possibile – soprattutto a me che tra le due figlie che si ritrovava ero quella più imbranata. E sì, questo significava che alla veneranda età di sedici anni mi propinasse ancora le forbici dalla punta arrotondata. 
Sospirai affranta, rinunciando al proposito di ricavarmi un’arma. Intanto il raschiare contro la porta chiusa della mia camera continuava. Mi ci avvicinai in punta di piedi, anche se in realtà ero più che conscia del fatto che non potessi fare rumore dal momento che ero senza ciabatte. Per un attimo ringraziai quel mio strano vizio.
Pensai di aprire semplicemente la porta e affrontare chiunque ci fosse dall’altro lato. Poi cambiai subito idea. Decisi di abbassarmi in ginocchio in modo da vedere nella fessura per la chiave e, mentre il rumore al di là della porta aumentava… mi diedi della stupida.
«Cazzo, Randall!», strillai, mettendomi nuovamente in piedi alla velocità della luce e aprendo la porta in un lampo.
L’enorme alano altresì conosciuto come uno dei miei migliori amici se ne stava in quel momento accucciato accanto alla porta della mia camera, sulla quale aveva graffiato fino a quel momento affinchè gli aprissi. Dannazione.
«Cosa ci fai qui in casa? Te l’ho detto mille volte che non devi entrare: rischi di rompere tutto grande e grosso come sei!», lo ammonii, mettendomi sulle ginocchia e prendendo ad accarezzargli il dorso. Randy mi rivolse un’occhiata stanca. «Chi ti ha fatto entrare, poi?».
E, quasi come se capisse cosa gli stessi dicendo, Randall si mise in piedi alla velocità della luce e prese ad abbaiare furiosamente. Poi lo vidi correre lungo il corridoio tappezzato di moquette color panna e sparire giù per le scale che portavano al piano inferiore.
Io mi limitai a fare spallucce, controllando che non fossero rimasti brutti segni sulla porta in legno bianco della mia cameretta. Cucciolo cattivo, avrei dovuto sul serio punirlo. Ma come si faceva ad anche solo sgridare Randy quando lui ti guardava con quegli occhioni neri estremamente dolci?
Constatando che non ci fosse nessun graffio esagerato – giusto due o tre zampate copribili benissimo con un po’ di pittura – decisi di raggiungere il mio alano al piano di sotto. Ancora non aveva smesso di abbaiare, e non appena i miei piedi abbandonarono le scale lo vidi di fronte alla porta sul retro, spalancata, che ringhiava contro il buio della notte.
«Randall, si può sapere cosa diamine hai?», gli domandai a quel punto, ormai visibilmente preoccupata. Lo raggiunsi e cercai di tenerlo buono con delle carezze, ma il mio cane non voleva proprio saperne di starsene zitto. A quel punto mi fu inevitabile ridonare un altro sguardo al buio che si stagliava oltre la porta completamente aperta. E non potei fare a meno di chiedermi chi l’avesse aperta. Era davvero poco probabile credere che ci fosse riuscito Randy. «Stai tranquillo, cucciolo. Non c’è nessuno lì fuori».
Subito dopo decisi di chiudere la porta sul retro a chiave, evitando così di far entrare odiosi spifferi di vento e, ovviamente, malintenzionati in casa. Ma ciò che vidi proprio a terra di fronte alla porta mi paralizzò, e non appena fui vicina abbastanza da poter vedere distintamente coi miei occhi il quadrato di carta bianca firmato Beacon Hills High School, Randall smise di abbaiare e mi si accostò, spingendomi la testa sulla schiena di modo che continuassi ad avanzare. 
Quindi… aveva cercato di dirmelo per tutto quel tempo? Non me ne stupii. Il mio cagnolone era molto più in gamba di quanto potesse sembrare.
A quel punto non potei far altro che chinarmi a raccogliere la lettera, aprendola in fretta e furia e leggendola con la curiosità che mi divorava. Fantastico. Una famiglia californiana aveva acconsentito ad ‘‘adottarmi’’ per nove mesi.
Gli Stilinski.   

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