Non so dire da quanto tempo esattamente io e Stiles ci trovassimo in biblioteca quella mattina: molto probabilmente da mezz'ora, quasi sicuramente da molto meno. L'orologio da parete scandiva il tempo regolarmente grazie alla lancetta dei minuti che, avanzando sul quadrante, segnava un orario che non avevo voglia di guardare – mi limitavo a sentire il suono della lancetta rimbombarmi nelle orecchie e provavo ad indovinare che ora fosse: sollevare gli occhi da ciò che stavo leggendo sarebbe stato troppo faticoso.
Il sabato prima mi ero recata a casa di mio nonno per poter finalmente leggere i diari di Charles Shelby Carter, ma come mi succedeva molto spesso in quell'ultimo periodo, nel momento in cui li avevo stretti tra le mani e la possibilità di poterli leggere era divenuta sul serio concreta, avevo quasi avvertito un mancamento e non ce l'avevo fatta. Ero irrazionalmente spaventata da ciò che ci avrei trovato all'interno, e il risultato era stato chiedere per favore a mio nonno di poter portare via i diari con me e provare a leggerli con calma. Lui, naturalmente, aveva acconsentito.
Perciò eccomi lì in una tranquilla domenica mattina che avevo deciso di passare in biblioteca insieme a Stiles, del quale avevo bisogno – oramai non aveva più senso negarlo – sempre. Provavo a concentrarmi su ciò che leggevo, sulle testimonianze di ogni singolo sogno premonitore avuto dal mio bisnonno e poi trascritto dalla moglie, ma non ci riuscivo. Passavo interi minuti ferma allo stesso rigo, o peggio proseguivo a leggere senza davvero comprendere cosa ci fosse scritto e infine mi ritrovavo immersa in conclusioni che proprio non riuscivo a capire. Allora aggrottavo le sopracciglia, sbuffavo lievemente e cominciavo daccapo. Indovinate tutto questo per colpa di chi?
Stiles se ne stava seduto al mio fianco, col corpo addossato al tavolo in legno intorno al quale c'eravamo accomodati e la testa poggiata sulla mano sinistra. Teneva il viso voltato nella mia direzione e nonostante quanto mi sforzassi di ignorarlo, riuscivo comunque a vederlo con la coda dell'occhio e capivo benissimo cosa in realtà stesse cercando di fare. Pur non distogliendo mai lo sguardo dalle pagine ingiallite del diario di Charles, avvertivo benissimo il respiro regolare di Stiles infrangersi sul mio collo e i suoi occhi costantemente puntati sul mio viso, come se alla ricerca di chissà quale bellissimo particolare che fino a quel momento non aveva avuto occasione di notare. Dire che mi distraesse sarebbe stato un eufemismo.
«Ti stai perdendo la lettura», lo ripresi giocosamente quando mi reputai stanca di ignorarlo, sollevando dopo quelli che mi sembrarono secoli gli occhi dalla pagina consunta che stavo provando a leggere.
Sentii il collo scricchiolare appena, indolenzito, e lo massaggiai con una mano mentre lo piegavo all'indietro e mi guardavo velocemente intorno. Mia cugina Oriesta correva da un corridoio all'altro della biblioteca cercando di aiutare chissà chi, buffissima nella polo gialla che tutti i dipendenti dovevano indossare e che lei aveva candidamente confessato di odiare. Proprio non potevo biasimarla.
«Lo sai cos'ho pensato la prima volta che ti ho vista?».
Al suono di quella domanda, distolsi immediatamente lo sguardo da mia cugina e mi voltai a cercare il viso di Stiles. Lo trovai esattamente come l'avevo lasciato: poggiato al tavolo con la testa voltata nella mia direzione e gli occhi intenti ad analizzarmi attentamente. Aggrottai le sopracciglia mentre lo fissavo confusa, poi scossi la testa, finalmente consapevole del fatto che il mio richiamo non avesse avuto l'effetto che speravo. Seppur sapessi che nemmeno quella volta sarei riuscita a leggere, provai nuovamente a farlo.
«Non so, cos'hai pensato?», domandai però, troppo curiosa per ignorarlo ma troppo timida per guardarlo in viso mentre affrontavamo un argomento del genere.
«Non intendo quando ti ho vista dal vivo», spiegò, continuando imperterrito a fissarmi, nonostante il fatto che rifuggissi il suo sguardo e gioissi delle ciocche di capelli intente a coprirmi buona parte del viso. «Anche se in effetti in quel momento ho riformulato i pensieri che ho fatto la vera prima volta».

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parachute
FanfictionEro nata e cresciuta ad Austin, ma non volevo più starci. Il Texas ormai mi andava stretto. Avevo sedici anni e tanta voglia di indipendenza. Se fossi stata fortunata, quella che stava per arrivare sarebbe stata la mia ultima estate laggiù. Quello s...