15. Luna piena.

658 17 0
                                    

Qualcosa mi premeva sulla spalla. Non era una pressione indelicata: non era forte né fastidiosa o tantomeno dolorosa. Eppure non potevo fare a meno di sentirmene innervosita. Sapevo cosa significasse. Ero sveglia. E come al solito, non sarei più riuscita a prendere sonno. Era ora di alzarsi.
Mugugnai dispiaciuta, agitandomi nel letto almeno finché la lieve pressione sulla spalla non si tramutò in uno strattone e successivamente in scuotimenti veloci e periodici. Quando poi il mio nome abbandonò le labbra di Stiles, sgranai gli occhi fulmineamente, e mi resi conto di essere intenta a dargli le spalle solo nel momento in cui il giallino chiaro delle pareti mi riempì le iridi ancora assonnate. Grazie a Dio non poteva vedermi bene da appena sveglia.
«Harry? Dai, ti devi alzare! Non abbiamo l’intero pomeriggio».
Quando Stiles pronunciò quelle parole, continuando imperterrito a reclamare la mia attenzione, mugolai rumorosamente, cercando di scappare dalla sua presa. Purtroppo, però, avere un letto singolo aveva i suoi svantaggi. Incapace di svincolarmi, optai per la seconda opzione: nascondermi. Facendo sgusciare velocemente le mani da sotto il cuscino, afferrai il pesante piumone e me lo tirai fin sulla testa. Quando Stiles smise di chiamare il mio nome e di puntigliarmi, sorrisi soddisfatta. Non volevo più stare a letto: a quel punto mi sarei alzata presto perché sicuramente non sarei più riuscita a dormire… volevo solo che Stiles mi concedesse la calma per farlo tranquillamente e che uscisse quindi dalla mia stanza.
«Okay, vuoi giocare duro? Perfetto».
Feci a malapena in tempo ad aggrottare le sopracciglia e subito le dita di Stiles sui fianchi fecero sì che il viso mi andasse a fuoco e il respiro mi mancasse. Mi stava facendo il solletico. A me. Ai fianchi! Una delle cose che di più soffrivo al mondo.
Ancora nascosta – inutilmente – sotto il piumone di colore chiaro, presi a dimenarmi mentre ridevo a crepapelle. A dire il vero all’inizio non avevo fatto altro che lamentarmi e urlare, ma dopo un po’ l’impulso di ridere era stato così forte che resistergli mi era risultato impossibile. Quando davvero fu troppo difficile per me respirare, decisi di arrendermi. Sgusciai fuori dal piumone mentre intimavo a Stiles di fermarsi, rendendomi conto forse un po’ troppo tardi dei capelli scompigliati e della faccia rossa come un peperone.
«Buongiorno, Medusa!», mi riprese infatti Stiles, riservandomi un sorrisone quando, stesa di schiena, feci correre i miei occhi sul suo viso.
A quel punto sbuffai, divertita, tirandomi indietro il disastro che erano capaci di diventare i miei capelli ogni mattina e riafferrando il piumone per sistemarlo almeno un po’. Okay, ci eravamo divertiti ed era bello essere svegliata da Stiles, ma… perché? Me lo chiesi solo in quel momento.
«Che è successo? Non è forse domenica?», mormorai, mentre mi voltavo di fianco nella direzione di Stiles, ancora fermo di fianco al mio letto.
«Certo che è domenica», mi rassicurò lui, annuendo mentre trascinava la sedia della mia scrivania di fronte a me e ci si sedeva sopra placidamente.
«E allora?».
«E allora possiamo indagare ancora sulla tua famiglia! Devi finire la relazione per la professoressa Finnigan, no? Ed io sono curioso da morire».
«Stiles… è domenica», borbottai semplicemente, calcando la parola “domenica” mentre cercavo di voltarmi per stare a letto in santa pace ancora un altro po’. «E non ho voglia di studiare di prima mattina. Riparlamene stasera, mh?».
«Non è prima mattina, Harry».
A quelle parole, aggrottai le sopracciglia. Eppure, non chiesi niente mentre mi stendevo prona e abbracciavo il cuscino, voltando la testa verso il muro e socchiudendo appena gli occhi. Aspettai semplicemente che Stiles decidesse di spiegarsi, mentre davo pieno sfoggio della mia immensa pigrizia.
«Sono le quattro del pomeriggio e abbiamo due ore prima che la biblioteca chiuda», esalò dopo qualche attimo, facendo sì che i miei occhi si sgranassero nuovamente. «Dai, voglio andarci con te! Dobbiamo cercare i diari di Charles Carter, ricordi?».
Okay, sul serio: cosa gli prendeva? Era ammattito del tutto? Voleva andare in biblioteca di domenica? E soprattutto: avevo dormito così tanto?
Mentre mi muovevo fulmineamente nel letto per puntellarmi sui gomiti e voltare la testa nella direzione di Stiles, presupposi fosse perché tutte quelle scorribande notturne non stavano facendo altro che privarmi del sonno e rivoluzionare tutti i miei ritmi. In fondo, il sabato precedente ero andata a letto praticamente all’alba, dunque svegliarsi alle quattro del pomeriggio non sembrava poi così assurdo.
«Stiles, è domenica», ripetei, ancor più infastidita della prima volta. «La biblioteca è chiusa. Ed io non muoio affatto dalla voglia di studiare».
Osservai Stiles mentre, con una mano premuta sulle labbra, cercava di trattenere una sonora risata. Solo allora mi resi conto di quanto dovessi essere buffa in quel momento: a letto col piumone disfatto, i capelli in disordine e lo sguardo truce già da appena sveglia. Per un solo attimo, mi chiesi se a Stiles piacesse davvero così tanto come sembrava mettermi in costante imbarazzo.
«E non osare prenderti gioco dei miei capelli», borbottai infatti quando mi resi conto davvero della sua espressione divertita, sdraiandomi nuovamente – questa volta, però, continuando a guardare Stiles.
«A dire il vero mi piacciono», esalò lui, serio come raramente l’avevo visto mentre io sbuffavo lievemente. «Hanno qualcosa di… selvaggio».
«Smettila».
«D’accordo».
Alzò le mani al cielo in segno di resa, mentre anch’io decidevo di gettare via la spugna e socchiudevo gli occhi stancamente. Non volevo alzarmi, affatto, ma sapevo che Stiles non si sarebbe arreso tanto facilmente. Neanche a dirlo, infatti, riprese a parlare pochi secondi dopo.
«Ma ti prego, alzati. Voglio indagare, dai! La biblioteca è aperta fino alle sei, oggi. E noi dobbiamo andarci», spiegò, terminando con quello che aveva tutta l’aria di essere un ordine. «Come faccio ad essere io più curioso di te?».
«È nella tua natura, Stiles».
«La mia è una bellissima natura».
«Non ho mai detto nulla in contrario», risi, alzando gli occhi al cielo mentre – finalmente – prendevo la decisione di assecondarlo.
Era l’unico modo che avessi per farlo andar via.
«Ora però esci, altrimenti non mi alzerò mai», intimai, riservandogli l’ennesimo sguardo ammonitore.
Stiles non se lo fece ripetere due volte: si mise in piedi velocemente, spostando la sedia sulla quale era stato seduto fino a quel momento di nuovo di fronte alla scrivania in legno chiaro e poi ritornò brevemente di fronte a me, sorridendo.
«Preparati, Watson! Questa sera sveleremo il mistero della famiglia Carter!», esclamò, poco prima di avviarsi verso la porta mentre io scoppiavo a ridere.
«Ai suoi ordini, Holmes…».
Che coppia di scemi eravamo alle volte?
 
Nonostante tutto l’iniziale interesse, dopo circa un’ora di ricerche pressoché inutili, Stiles aveva deciso di gettare la spugna e s’era dileguato chissà dove. Sospettavo fosse nella sezione fumetti dell’immensa biblioteca di Beacon Hills, e la cosa non mi stupiva affatto. Sapevo sarebbe finita così, ma non me ne curai più di tanto quando – a mezz’ora dalla chiusura – ancora ero intenta a gironzolare nel reparto “storico”. Reperire i diari di Charles Shelby Carter si stava dimostrando una cosa più difficile del previsto, ma chissà perché riuscivo ad essere ancora fiduciosa. La curiosità di Stiles mi aveva senz’altro contagiata.
Anche Scott era lì con noi: proprio Stiles gli aveva proposto di accompagnarci affinché potesse distrarsi dopo la sua rottura con Allison, e lui – seppur controvoglia – aveva accettato di venire. Gli riservai uno sguardo dispiaciuto mentre lo analizzavo: seduto ad uno dei grandi tavoli che gli studenti utilizzavano per studiare, con lo sguardo perso e il piede che ticchettava nervosamente a terra, sembrava nient’altro che un fantasma. Stava diventando l’ombra di se stesso e non avrei mai voluto che reagisse così alla cosa. Continuai a pensare a cose del genere mentre mi muovevo distrattamente sul posto, e tutto andò bene almeno finché non mi scontrai con qualcuno.
«La prego, mi perdoni! Ero sovrappensiero!», sobbalzai, posizionando le mani di fronte a me in un gesto del tutto istintivo.
Tuttavia, mi tranquillizzai immediatamente nel ritrovare Marin Morrell dinanzi ai miei occhi. Mentre la mia espressione preoccupata si distendeva e vietavo al mio sopracciglio di svettare verso l’alto, piegai addirittura le labbra in un sorriso mentre incrociavo le braccia al petto.
«Professoressa, buonasera», osservai, cordiale come mio solito con quella donna capace di ispirarmi pur senza far nulla.
«Buonasera, Harriet», mi ricambiò subito lei, sorridendomi. «Che ci fai qui, se posso saperlo? È davvero raro trovare qualche studente in biblioteca di domenica. Complimenti!».
Ridacchiai, alzando lievemente gli occhi al cielo mentre mi spostavo una ciocca di capelli dietro l’orecchio.
«Cerco di portarmi avanti con lo studio. Stiles mi ha detto che la biblioteca sarebbe stata aperta e abbiamo deciso di approfittarne. C’è anche Scott McCall».
«Tre studenti in biblioteca di domenica! Che carini. Vi farei una foto!», mormorò la Morrell, fingendosi stupita poco prima di scoppiare a ridere, seguita a ruota da me. «E se posso saperlo, quale materia ti ha presa così tanto da portarti a studiare nel weekend?».
«Storia», esalai velocemente, prendendo a passeggiare insieme a lei lungo gli infiniti corridoi di libri. «La signora Finnigan ci ha assegnato una ricerca da svolgere sulla storia delle nostre famiglie. Quella della mia si sta rivelando un po’ complicata».
Quando ebbi finito di parlare, mi sembrò quasi di vedere uno scintillio negli occhi di Marin. Per un attimo, mi preoccupai anche. Perché all’improvviso non mi sentivo più al sicuro? Cercai di non farmi troppi complessi inutili, dicendomi di aver solo immaginato quella sua improvvisa quanto sospettosa fiammata di interesse acceso. Tuttavia, decisi che non le avrei rivelato nulla di troppo intimo.
«Complicata in che senso? Sempre se posso saperlo», la sentii infatti domandarmi, un po’ a conferma delle mie sensazioni. «Vorrei provare ad aiutarti, se me lo permetti. Sono o no la tua tutor?».
«È molto gentile da parte sua, ma non intendo annoiarla con tutta la storia», le feci presente, mettendo su un sorrisino falso mentre ancora le camminavo al fianco. «Dunque, per farla breve: sto cercando i diari di un mio antenato. So per certo che ne ha scritti alcuni: l’ho letto su internet. E sono convinta che sarebbe interessante poterli sfogliare».
«Trovo che sia un’idea davvero ottima. Com’è il nome?».
«Charles», pigolai, stringendomi le braccia al petto. «Charles Carter».
Ancora una volta, vidi uno scintillio attraversarle le iridi e un brivido mi partì incontrollato lungo la schiena. Cercai di nuovo di non farci caso e ripetermi che fosse solo una mia impressione, ma proprio non riuscivo a togliermi dalla mente il brillio che avevo intravisto nel fondo di quei due pozzi scuri.
«Capisco. E finora non hai trovato nulla?».
«No. Credevo che cercare nella sezione storica sarebbe stato utile, ma niente», spiegai, facendo spallucce verso la fine, poco prima di controllare nuovamente l’orologio.
Era davvero ora di andar via.
«Chiederò informazioni a qualche addetto, quando tornerò. Ormai è l’orario di chiusura».
«Già, che peccato», annuì Marin. «Sarà per un’altra volta, dai. Adesso devo andare anch’io. Ci vediamo a scuola, Harry».
«Certo. Arrivederci, professoressa».
Non appena la Morrell mi ebbe lasciata “libera”, non mi preoccupai nemmeno di guardarla andare via, limitandomi solo a raggiungere Scott – sempre fermo al solito posto – per intimargli di cercare Stiles insieme a me per poi tornare a casa. Probabilmente avrei dovuto dare ascolto alle mie sensazioni e tenere d’occhio la professoressa di francese almeno per un po’, perché se solo l’avessi fatto l’avrei vista allontanarsi nervosamente verso l’entrata della biblioteca di Beacon Hills mentre tirava fuori dall’elegante borsa in pelle il suo cellulare.
L’avrei vista anche portarlo all’orecchio dopo aver composto velocemente chissà quale numero e aspettare impaziente una risposta dall’altra parte che le avrebbe permesso di parlare. La cosa fu possibile solo quando un: «Pronto?» pronunciato da una voce grossa le arrivò alle orecchie.
«Sono Marin», si presentò allora la Morrell, spiccia. «Tua nipote è alla ricerca dei diari di paparino. Credo sia meglio tirarli fuori da quella polverosa soffitta. Tu che ne dici?».
 
«Non ci credo».
Al suono di quelle parole, sollevai lo sguardo dalla nuova edizione di Cime tempestose e portai i piedi – che fino a quel momento avevo tenuto sollevati sul sedile dell’auto – a terra.
«Davvero, papà? Qui è pieno di agenti e tu hai anche insistito per accompagnarci a scuola? Un altro paio di occhi in più addosso, eh?».
A parlare, ovviamente, era Stiles. In quel freddo lunedì mattina del ventuno ottobre, Stephen aveva deciso di accompagnarci a scuola – anzi, più che altro ce l’aveva imposto. Be’, credo non ci sarebbe stato nulla di male se non fosse stato che quella mossa era ovviamente piazzata ad arte per poter spiare ogni nostro movimento.
«Che imbarazzo. Mi sento come se fossi in arresto», continuò Stiles, facendo per scendere dalla volante della polizia con uno sbuffo.
Stephen lo bloccò immediatamente, ponendo una mano sul suo braccio e riservandogli uno sguardo ammonitore, almeno finché il figlio non si voltò a guardarlo con aria interrogativa. Io, dal mio canto, posi il segnalibro all’ultima pagina letta e riposi il volume di Cime tempestose nello zaino. Personalmente, credevo anch’io che farsi scortare a scuola dalla volante dello sceriffo fosse alquanto imbarazzante, ma non avevo avuto alcuna intenzione di lamentarmi della cosa – al contrario ovviamente di Stiles.
«In arresto prima o poi ci finirai sul serio, se non impari a comportarti degnamente», sentii Stephen che lo rimproverava, con tono grave. «Adesso filate in classe. E tu, attento. Resterò qui per un po’ a parlare col preside».
A quel punto, Stiles non ci pensò su due volte e sgusciò fuori dalla macchina velocemente. Io, al contrario, mi misi lo zaino in spalla con tutta calma e prima di scendere mi sporsi in avanti quel tanto che bastava da lasciare a Stephen un bacio sulla guancia. Poi, donandogli uno sguardo attraverso lo specchietto retrovisore, gli sorrisi.
«Buona giornata, bambina», mi augurò allora lui, poco prima che scendessi dalla macchina per raggiungere Stiles – che stranamente, invece di scappare si era fermato poco più avanti ad attendermi.
Mi diressi nella sua direzione con un gran sorriso sulle labbra ma la mia smorfia non perdurò granché. Mentre fianco a fianco ci muovevamo in direzione dell’entrata, potei sentire distintamente il nervosismo di Stiles e mi preoccupai non poco.
«Ehi, cosa c’è?», gli domandai, curiosa, quando capii che non mi avrebbe parlato della cosa.
«È papà. Mi sta addosso, ed è fastidioso», sbuffò, velocemente. «E come se non bastasse è in costante pericolo e non ho idea di come farglielo capire».
Aggrottai le sopracciglia.
«Cosa intendi?».
«Stasera c’è la luna piena».
«E allora?», continuai, ancora confusa. «Stiles, siamo più in pericolo noi di tuo padre. Smettila di preoccuparti».
«Credimi, è più in pericolo lui», mi contraddisse, nel momento in cui entravamo finalmente a scuola. «Stasera usciranno a cercare il corpo di Derek».
Non potei fare a meno di boccheggiare, arrestando la mia camminata mentre dentro di me, un po’ tutto si fermava. Il respiro, il cuore, il cervello. Avrei voluto chiedere a Stiles delle informazioni ma mi sentivo improvvisamente svuotata di ogni energia.
«Sì, il suo corpo è scomparso. E capirai bene quanto sia pericoloso uscire in una notte di luna piena con un alpha a piede libero. Devo assolutamente parlare con papà».
 
Davvero non credevo ci fosse sensazione più brutta dell’angoscia immensa che faceva della sua preda ogni studente intento a ricordare a meno di dieci minuti dall’inizio della giornata scolastica, la presenza di un importantissimo test o interrogazione. Sebbene avessi provato già quella sensazione orribile – sbadata tanto da dimenticare spesso cose così importanti – ogni volta era peggio della precedente.
E fu proprio ciò che mi accadde quella mattina, nel momento stesso in cui ritrovandomi a passeggiare da sola per i corridoi della Beacon Hills High School, osai pensare con un debole sorriso a qualcosa di molto simile ad un: “Che bello, oggi sarà una giornata nient’affatto pesante”. Certo, lo sarebbe stata sul serio se solo non fosse stato per il test di ancora non avevo capito bene cosa che Harris aveva avuto la faccia tosta di assegnare alla sua classe tanto – a mio parere troppo – tempo prima della fine del trimestre. Un test per il quale, ovviamente, non ero preparata.
Nascondendo alla bell’e meglio la smorfia di delusione profonda che improvvisamente era arrivata a deturparmi il viso, lasciai velocemente alcuni effetti personali nel mio armadietto e poi me lo richiusi alle spalle, lanciando uno sguardo tutt’intorno a me. Non avevo nemmeno idea di dove si tenessero prove di quel calibro: da quanto ne sapevo io venivano usate classi adatte ed era inutile dire che, anche in quello, fossi completamente disinformata.
Stiles era sparito per parlare con suo padre, proprio come da programma, mentre io non riuscivo ad individuare né la Morrell né nessun altro di utile. Per fortuna, però, mi resi conto di aver “parlato” troppo presto. Quando Lydia Martin ed Allison Argent mi apparvero davanti agli occhi, quel freddo lunedì mattina, proprio non potei fare a meno di sorridere. Avevano tutta l’aria di essere la mia salvezza.
Velocemente mi avvicinai a loro, giusto in tempo per sentire Lydia chiedere: «Stai scherzando?» con un tono di voce esterrefatto. Allison si limitò a scoccarle un’occhiata confusa specchio della mia, che non ebbi nemmeno tempo di salutare le due ragazze perché la Martin me lo impedì, continuando a parlare.
«Scott ci ha chiusi in quell’aula e ci ha lasciati a morire. Avremmo potuto denunciarlo, o fargli pagare i conti degli psicologi. Il tuo rompere con lui è il minimo».
A quel punto pensai di scappare via, a gambe levate. Al contrario, però, non feci altro che restare immobilizzata alle spalle delle mie due “amiche”. Come potevano avere una considerazione simile di Scott? Okay, non conoscevano tutta la storia, ma perché non si impegnavano nemmeno per provare a comprendere?
Feci per allontanarmi da loro di modo che non si accorgessero del mio aver origliato, senza volerlo, la conversazione, ma proprio nel momento in cui provai a muovere un passo all’indietro Allison si voltò istintivamente alle sue spalle e i nostri occhi entrarono subito in contatto. Osservai la sua espressione congelarsi e perfino Lydia notò lo sgomento improvviso.
«Oh. Ciao, Harriet», la sentii dirmi infatti, quando seguendo lo sguardo di Allison trovò me. «Hai compito con noi, vero? È meglio se andiamo in classe, vieni!».
Falsa. Falsa, falsa, falsa. Lydia Martin non si era mai comportata da amicona con me, tranne che per alcuni sorprendenti sprazzi di gentilezza, perché mai iniziare a farlo allora? Solo perché sospettava avessi sentito ciò che aveva detto e temeva che le sue parole arrivassero alle orecchie di Scott? Perché lo sapeva del buon rapporto che avessimo noi due, anche grazie a Stiles, proprio come ne era consapevole Allison. Proprio lei, infatti, mi ignorò per tutto il tempo. Era arrabbiata con McCall. E con me.
«Sì, d’accordo», pigolai semplicemente quando ne fui in grado, prendendo a seguire le due verso un’aula dentro la quale mai ero stata prima di allora.
Il cammino verso “il patibolo” mi sembrò più lungo ed imbarazzante che mai, e mentre passeggiavo al fianco di Lydia – in religioso silenzio – mi ritrovai a sperare di poter scappare in qualche modo da quella situazione scomoda.
Quando finalmente fui libera di allontanarmi dalle due e fummo arrivate nella classe che il professor Harris aveva deciso di farci occupare per svolgere il suo test, mi diressi a passo spedito verso un banco che fosse il più lontano possibile sia da Allison che da Lydia. Alla fine, infatti, mi ritrovai in una delle ultime file. E mentre mi guardavo intorno pensando che quello fosse senz’altro un lato positivo della cosa, non potei fare a meno di chiedermi dove fosse finito Stiles.
 
Il professor Harris mi avrebbe bocciata. Il professor Harris mi avrebbe bocciata. Il professor Harris ci avrebbe bocciati. Quello era diventato il mio unico pensiero fisso. Era nient’altro che la verità. E sapevo fin dall’inizio che sarebbe andata così, se non per Scott e Stiles di sicuro per me. Non ero pronta a quel test: non quella mattina, non a quell’ora. Mi era bastato semplicemente leggere qualcosa al riguardo del “meccanismo dei prezzi” per capire di essere irrimediabilmente fottuta. E, sinceramente, a giudicare dall’ansia che avevo visto nei movimenti di Scott, anche lui non sembrava molto preparato.
Che fossi rimasta in classe a completare il test con risposte messe lì a caso o che fossi uscita dopo nemmeno dieci minuti dall’inizio – come in effetti avevo fatto – per seguire Stiles e Scott all’esterno, senza nemmeno sapere perché, ero convinta del fatto che non sarebbe cambiato nulla. Sarei stata bocciata comunque. Il che, almeno un po’, riusciva a consolarmi.
Prendendo un grande respiro, fermai di colpo la mia corsa e mi accasciai sulle ginocchia. Ero stanca come se non mi fossi fermata da secoli e per un attimo, mi chiesi perché. I corridoi della Beacon Hills High School erano più che deserti, com’era normale che fosse durante lo svolgimento delle lezioni, e cercai di scacciare via dalla mia mente il ricordo di quei corridoi avvolti dal buio durante la notte infernale che io e gli altri eravamo stati costretti a passare dentro quell’edificio a causa dell’alpha. Avanzando a passi lenti verso nemmeno sapevo io dove, mi tranquillizzai solo nel momento in cui Stiles apparve nella mia visuale.
Se ne stava inginocchiato sul pavimento: mi dava le spalle, perciò non potevo dire con certezza cosa stesse analizzando lì per terra ma ero sicura che fosse intento a guardare qualcosa. Istintivamente buttai un’occhiata dietro di me, come per mettere a tacere l’insistente vocina nella mia testa che cercava da ormai troppo tempo di convincermi che ci fosse qualcuno che mi seguiva, poi – a passi veloci – raggiunsi Stiles, chinandomi alla sua altezza mentre gli posavo una mano sulla spalla.
«Che succede?», mormorai nella sua direzione, subito dopo aver pronunciato il suo nome con lo stesso tono di voce.
Per un attimo mi sembrò di sentirlo sobbalzare lievemente sotto il mio tocco, poi si voltò a guardarmi e posò l’indice sulle labbra prima di rispondermi. Distogliendo brevemente lo sguardo dal suo viso, notai che teneva tra le mani lo zaino di Scott. Stava guardando quello, prima.
«Stai attenta», mi ordinò, mettendosi in piedi lentamente poco prima di chiamare il nome del migliore amico ad alta voce.
Ovviamente non ricevette risposta, e mentre mi rendevo conto di essere intenta a trattenere il respiro – nascosta dietro le sue spalle, praticamente – lo osservai afferrare il cellulare e comporre velocemente il numero di Scott. Mentre Stiles attendeva che la suoneria si facesse sentire, si guardò intorno, ed io d’istinto feci lo stesso. Quel silenzio nei corridoi era innaturale, e in un certo senso – per i ricordi che riportava alla mia mente – doloroso. Non volevo più trovarmi in certe situazioni, ma era di Scott che stavamo parlando. Cos’altro avrei potuto fare?
«Da questa parte», stabilì, prendendo a seguire la suoneria del cellulare di McCall.
Io lo seguii senza farmelo ripetere due volte, sempre attenta a non perderlo di vista – non che fosse poi molto probabile, ma non si sapeva mai. Dopo aver svoltato nel primo corridoio a destra, ci ritrovammo di fronte alla porta aperta dello spogliatoio maschile. Capimmo subito entrambi che la musichetta alquanto fastidiosa provenisse da lì, e mentre Stiles entrava nella stanza ponendosi lo zaino di Scott in spalla e posando nella tasca dei pantaloni il cellulare, io lo seguii ancora.
Quando però i suoi passi si arrestarono di botto, fu inevitabile per me finirgli contro la schiena.
«Ouch», mugolai, lievemente infastidita. «Che ti prende? Perché ti sei fermato di colpo?».
«Devi stare ferma qui. Vado avanti io», sussurrò allora Stiles, voltandosi a guardarmi mentre io non indietreggiavo di un passo.
Difatti, ci ritrovammo vicini come mai lo eravamo stati. Per fortuna, comunque, non ebbi modo di perdermi troppo in pensieri del genere perché Stiles mi diede nuovamente le spalle e fece per proseguire all’interno dello spogliatoio, convinto del fatto che avrebbe trovato lì Scott. Io, incurante dei suoi ordini, gli andai dietro tranquillamente. Speravo non avrebbe sentito i miei passi dietro di sé – avevo cercato di fare meno rumore possibile e di non stargli troppo addosso – ma le cose non andarono così, per sfortuna. Stiles si rese subito conto di me che continuavo a muovermi contro il suo volere e si voltò di nuovo, velocemente, nella mia direzione, ponendomi entrambe le mani sulle spalle per far sì che arrestassi finalmente la mia camminata.
«Harry!», mi ammonì, alzando la voce pur senza volerlo. «Ferma. Ti prego».
A quel punto, cos’altro avrei potuto fare se non sospirare sconfitta e annuire? Osservando il mio acconsentire, Stiles mi lasciò andare e proseguì tranquillo verso l’interno dello spogliatoio. Io non disubbidii al suo comando ma tuttavia avanzai quel tanto che bastava per poterlo tenere almeno un po’ d’occhio, nascosta alla bell’e meglio dietro uno dei tanti armadietti grigi.
Quando lo sentii rivolgere una domanda confusa a Scott, tirai un sospiro di sollievo. Non riuscii a captare la loro intera conversazione ma solo domande come: «Ti stai trasformando?» e preghiere tipo: «Non ora, ti scongiuro. Di là c’è Harriet!». A quelle parole, fu inevitabile per me sorridere, ma quella smorfia soddisfatta abbandonò subito il mio viso nel momento in cui capii che il problema non fosse la licantropia. Scott stava male. E volevo assolutamente capire perché.
«Stiles?», chiamai con voce flebile, quando mi ritrovai praticamente in direzione delle docce. «Cosa succ… oh. Stai bene, Scott?».
Un solo breve attimo di smarrimento e sopresa separò quella mia esclamazione sussurrata dalla domanda preoccupata che posi a McCall. Lui, di tutta risposta, annuì nella mia direzione mentre il respiro affannoso andava via via scemando. Stiles, invece, arrestò il chiacchiericcio nervoso e – dopo aver lanciato un’occhiata nella mia direzione – si rivolse nuovamente al migliore amico. 
«Hai avuto un attacco di panico», gli spiegò, con voce decisa. «Ma credere di avere un attacco d’asma ha bloccato il tutto».
«Geniale», non potei fare a meno di mormorare, voltandomi a guardare Stiles con un’espressione esterrefatta.
Come faceva lui a sapere certe cose? Mi venne spontaneo chiedermelo.
«Grazie!», mi rispose allora, velocemente, mettendo su un sorriso che gli illuminò il volto. «Aspetta. Ti avevo detto di non muoverti, mi pare. Perché non mi ascolti mai?».
Quella consapevolezza arrivò forse con un po’ di ritardo, tanto che il vedere tutto l’entusiasmo provocato dal mio complimento sparire via dal suo viso lentamente per essere sostituito dalla confusione e poi dal nervosismo, mi fece venir voglia di ridere.
«Ti divertiresti di meno se lo facessi», esalai dopo qualche attimo, piegando le labbra nell’ennesimo sorriso mentre Stiles alzava gli occhi al cielo, vagamente infastidito.
Di fronte a quella sua reazione, non potei proprio evitare di metter su uno dei miei tipici bronci infantili. Sapevo che fossero più che infallibili e trattenni un sorrisino vittorioso nel momento in cui Stiles, captando la mia espressione, socchiuse le labbra e ridusse gli occhi a due fessure. Era indignato dal mio usare mezzucci subdoli come quello: non ci voleva un genio per capirlo. Io, di tutta risposta, accentuai ancor di più il tremolare del labbro inferiore.
«Harriet Carter, non mettermi il…», mi disse proprio Stiles, calcando ogni minima parola mentre mi teneva un indice puntato addosso.
Tuttavia, il suo ordine fu interrotto da Scott e solo quando lui distrasse Stiles dal nostro piccolo battibecco, mi concessi di sfogare la risata che avevo trattenuto fino a quel momento.
«Come fai a sapere tutte queste cose sugli attacchi di panico?», domandò McCall, mentre un’idea balenava improvvisamente nella mia testa e sentivo l’aria farsi un po’ più cupa.
«Ne ho sofferto quand’è morta mia madre», soffiò Stiles immediatamente, infilando entrambe le mani nelle tasche dei pantaloni chiari mentre prendeva anche a dondolarsi nervosamente sul posto. «Non era divertente».
Dopo che il silenzio fu caduto in quell’angusto spogliatoio, cercai il viso di Stiles mentre mi mordevo il labbro inferiore nervosamente, e lo trovai intento a rifuggire il mio sguardo. Non ci fu nemmeno bisogno di chiedersi perché: sapevo benissimo – immaginavo, più che altro – come potesse sentirsi. E non c’era niente che potessi fare per aiutarlo. Se non, forse, stargli vicino.
«Io…», prese a dire Scott all’improvviso, facendo in modo che tutta l’attenzione fosse su di lui. «mi è bastato guardare Allison per sentirmi come se mi avesse colpito un martello».
Prima che potessi anche solo provare a dire qualcosa, intervenne Stiles. E per un attimo, mi sembrò proprio nient’altro che il ragazzo solare di sempre. Mentre parlava al suo migliore amico, mi presi del tempo per osservarlo attentamente e provai a pensare a come dovesse sentirsi. Era disarmante come riuscisse a passare dalla serietà al sorriso in un battito di ciglia.
«Si chiama cuore infranto. Due milioni di canzoni sono state scritte al riguardo. Ti dice niente?», domandò, apparentemente tranquillo.
«Non riesco a non pensare a lei».
«Be’, pensa a questo: suo padre caccia lupi mannari, e… tu sei un lupo mannaro. Non credo che avrebbe funzionato».
Non potei fare a meno di sgranare gli occhi. I ragazzi e il loro rapporto conflittuale col tatto. Stiles ne era la prova lampante. Con un’espressione alquanto spiritata, mi avvicinai a lui quanto bastava per colpirlo su un braccio – nemmeno troppo scherzosamente.
«Stiles!», esclamai, richiamando la sua attenzione mentre Scott aveva un’espressione un po’ più atterritta ogni minuto che passava. «Così non sei d’aiuto».
Provai anche a consolare Scott, mentre Stiles aggiungeva qualcosa tipo: «È normale che tu stia così, ma ti passerà» ed io gli davo manforte. Tuttavia, lui non ne sembrò affatto convinto e fece in modo che l’aria afflitta che aveva assunto già da parecchi minuti, rimanesse a deturpargli il viso – aumentando sempre di più.
«Stanotte ci sarà la luna piena», osservò poi ad un certo punto, facendo volare lo sguardo all’oblò posto in alto dal quale filtravano i raggi spenti del sole. «Non credo basterà rinchiudermi in camera mia. Se uscirò… io… io ucciderò qualcuno».
Ah.
 
«Stiles?».
La voce mi abbandonò le labbra in un soffio appena appena udibile, cosa provocata dal fatto che da ormai troppo tempo fossi intenta a rincorrere il diretto interessato per i corridoi della Beacon Hills High School. Ero stanca, e preoccupata. La situazione di Scott sembrava non far altro che peggiorare sempre di più e avevo bisogno di parlarne con Stiles e di metterlo in guardia, o perlomeno provarci. Lui però non sembrava avere le mie stesse intenzioni.
«Stiles, ti dispiacerebbe rallentare?», pregai ancora, allungando i miei passi nella sua direzione, nei pressi – ancora – dello spogliatoio maschile.
La giornata scolastica stava quasi per giungere al termine e da quando Scott aveva confessato la sua paura di poter uccidere qualcuno, non c’era stato niente che potessi fare per tranquillizzarmi. Né seguire lezioni né anticipare nuovi compiti per casa. Niente di niente, solo la sua frase che si ripeteva nella mia mente ancora ed ancora.
Non avevo avuto il coraggio di cercare Scott: al contrario, mi ero tenuta a debita distanza da lui e di conseguenza anche da Stiles. A quel punto avevo però compreso di star sbagliando e mi ero messa a cercarlo. Non era proprio il momento di abbandonarli.
«Stiles?».
Quando pigolaii per l’ennesima volta il suo nome, alquanto esausta, lui decise di avere – finalmente – abbastanza pietà di me da fermarsi. A dire il vero, realizzai qualche minuto più tardi, l’aveva fatto solo perché ormai giunto a destinazione. Col respiro corto, gettai uno sguardo alla porta blu dello spogliatoio dalla quale uscivano ed entravano ragazzi in gran numero. Era l’ora del lacrosse e si vedeva.
«Harry, non ho tempo, mi dispiace», lo sentii spiegarmi, dopo che si fu voltato a cercare il mio viso arrossato. «Possiamo parlare dopo, a casa. Adesso vado a cambiarmi».
Quando ebbe finito di parlare, allontanò la schiena dal muro contro il quale era stato appoggiato e velocemente, mi diede le spalle. Inspirai bruscamente mentre mi avvicinavo a lui tanto da afferrare la sua maglia e trattenerlo esattamente lì dov’era. Non avevo più intenzione di rincorrerlo né tantomeno potevo seguirlo all’interno dello spogliatoio. Proprio perché Stiles lo sapeva aveva cercato di sgattaiolare dentro velocemente.
«No, non possiamo parlare dopo a casa perché quasi sicuramente non ci tornerai nemmeno», sibilai, mollando la presa sul tessuto della t-shirt di Stiles solo quando lui si voltò a guardarmi con espressione interrogativa. «Quindi ascoltami».
«D’accordo», non poté fare a meno di sospirare, posizionandosi di fronte a me mentre incrociava le braccia al petto. «Cosa succede?».
«Succede che Scott è totalmente fuori controllo e muoio dalla paura, Stiles», sussurrai, muovendo un passo nella sua direzione affinché potesse sentirmi meglio.
Era il cambio dell’ora e la scuola era gremita di gente che parlottava ad alta voce – o meglio urlava – perciò non che ci fosse bisogno di mormorare per tenere al sicuro il nostro segreto, ma a dire il vero con certe cose non si sa mai. Meglio sempre essere cauti.
«Lo so che è la luna piena: non ce l’ho con lui. Ma capisci? È come una bomba ad orologeria, e nel momento in cui scoppierà… semmai dovesse scoppiare… verremo colpiti entrambi. Tu specialmente».
Vidi l’espressione sul viso di Stiles cambiare radicalmente, distendersi quasi. Fui tentata dal tirare un sospiro di sollievo: credevo avesse finalmente capito il mio punto di vista e mi avrebbe assecondata, dandomi ragione. Tuttavia, mi sbagliavo.
«Ti stai preoccupando troppo, come al solito», mi disse, tenendo un tono di voce basso mentre cercava i miei occhi scuri. «Voglio solo che tu stia tranquilla, d’accordo? Fallo per me. Io sono al sicuro: Scott è il mio migliore amico e non mi farebbe mai del male. Per quanto riguarda te, stanotte gli starai lontana e da domani ritornerete amici come prima».
Gemetti. Era proprio quello il problema. Il fatto che io fossi esclusa a prescindere, che tutti si preoccupassero di proteggermi senza pensare a se stessi – Stiles in primis. Liberai un grosso sospiro stanco, passandomi una mano sulla fronte mentre strizzavo gli occhi.
«Lo vedi? Non capisci. Non voglio lasciarti solo con Scott. Perché devi farlo tu?», domandai dopo qualche attimo, con la voce ridotta praticamente ad un lamento.
«Scusami, ma non credo che lui si incatenerebbe di sua spontanea volontà, proprio come non credo funzionerebbe dirlo a Melissa», osservò subito Stiles, guardandomi con occhi stralunati. «E poi, chi dovrebbe aiutarlo se non io? Sono il suo migliore amico. Riuscirò a tenerlo a bada».
«Riformulo la domanda», mormorai, scuotendo la testa e sospirando ancora.
Perché incappavamo solo in incompresioni?
«Perché devi farlo solo tu? Voglio esserci. Devo esserci».
«È fuori discussione. E lo sai».
«Ma…».
Ogni mio tentativo di protesta fu smorzato sul nascere, e donai uno sguardo al pavimento mentre mi sentivo letteralmente la coda tra le gambe. Sapevo sarebbe andata così: lo sapevo benissimo. Tuttavia, mi era sembrato giusto almeno provare a cambiare le cose.
«Niente ma», si limitò a dire Stiles, richiamandomi poi con un: «Ehi» sussurrato per attirare di nuovo la mia attenzione sul suo viso.
Non volevo guardarlo di nuovo negli occhi, non per ricadere ancora nella trappola che stavo scoprendo fossero. Tuttavia, quando l’indice di Stiles toccò il mio mento dolcemente e lo spinse verso l’alto, non mi restò altro da fare che assecondarlo. Evitandogli di usare la “violenza”, tirai su il viso di mia spontanea volontà e solo quando ritrovai gli occhi nocciola di Stiles, liberai un sospiro arrendevole.
«Dopo continuiamo, promesso. Adesso devo scappare», furono le sue parole, seguite poi da un leggero bacio sulla fronte che mi lasciò a dir poco stupita.
E imbambolata. Così tanto che quando Stiles mi richiamò, poco prima di entrare nello spogliatoio maschile per cambiarsi, quasi non lo sentii. Fu solo il suo sguardo indagatore puntato sul mio corpo a riscuotermi, e cercando di allontanare dalla mente qualsiasi pensiero futile, misi a fuoco la figura di Stiles di fronte a me strizzando gli occhi. 
«S-Sì?», balbettai poi rivolta a lui, ancora frastornata per via di tutti quei gesti affettuosi e nuovi.
«Prevedi che succederà qualcosa di bello, oggi? Usa i tuoi superpoteri».
Quella richiesta mi fece immediatamente aggrottare le sopracciglia.
Poi: «Come, prego?», pigolai, facendomi ancor più vicina a Stiles mentre mi domandavo se non avessi sentito male.
Aveva davvero parlato di superpoteri? A me? Non intendeva quello che pensavo, vero?
«Dai, hai capito!», esclamò, gesticolando furiosamente come suo solito. «Vedi qualcosa?».
Mi fece quell’ultima domanda muovendo velocemente le sopracciglia e quella sua buffa espressione mi fece venir voglia di ridere. Il che fu proprio ciò che feci, incapace di trattenermi.
Solo quando sentii il respiro mancarmi e l’espressione lievemente scocciata di Stiles mi indicò di smetterla, misi fine al mio divertimento, trattenendomi l’addome dolorante con una mano poco prima di riprendere a parlare, col viso arrossato e i capelli scompigliati.
«Andrà tutto bene», osservai, con un tono di voce solenne. «Divertiti».
Quella mia previsione sembrò bastare a Stiles, che mi riservò l’ennesimo grande sorriso prima di sparire finalmente all’interno dello spogliatoio maschile. Era in un mostruoso ritardo per gli allenamenti di lacrosse eppure non sembrava importargliene: era lì insieme a me e questo bastava. O perlomeno, a me piaceva pensarla così.
Prima di dileguarmi verso casa, sospirai un’ultima volta, con lo sguardo ancora rivolto alla porta blu di fronte ai miei occhi. Ovviamente non avevo nessun tipo di superpotere né tantomeno riuscivo ad utilizzarlo come avrebbe voluto Stiles: ciò che avevo detto era stato dettato dal puro caso e dalle mie speranze, soprattutto da quelle.

Perché Stiles Stilinski meritava solo il meglio e su quello non c’erano dubbi.

parachuteDove le storie prendono vita. Scoprilo ora