19. Resa dei conti.

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Fu come se il tempo si fermasse all’improvviso ed io e Stiles finissimo, quasi senza nemmeno volerlo, in un vortice di buio silenzio e momentaneo smarrimento. Non importava, infatti, che la stragrande quantità di ragazzi attorno a noi fosse intenta a ballare a ritmo di musica – il tempo dei lenti era già finito, ahimè – dimenandosi sull’improvvisata pista da ballo senza notare affatto né noi due né la nostra immensa preoccupazione: intorno a me e Stiles c’era solo silenzio. E paura.

Fu con immensa calma che mi feci lontana dal suo corpo e cercai i suoi occhi, nell’attesa di una risposta che potesse tirarci fuori da quel baratro. Quello era il punto di non ritorno, lo sapevamo benissimo entrambi. La resa dei conti, la grande battaglia, il posizionamento dei tasselli più importanti del mosaico che – inutilmente – da mesi provavamo a costruire. Stiles ricambiò il mio sguardo, immobilizzato, e solo quando notò la mia espressione indecifrabile decise di parlare. Fu come ritornare a vivere.

«Dobbiamo andare da Jackson», stabilì, ed io annuii subito, consapevole che non ci fosse nient’altro di meglio da fare.

Certo che dovevamo andare da Jackson: dovevamo aiutarlo. Per quanto non fosse un nostro grandissimo amico o una persona che mai aveva dimostrato di meritare aiuto e compassione, di certo non meritava di morire per mano di un alpha sanguinario né di essere morso e trasformato in un licantropo. Non importava quanto Jackson lo volesse: sbagliava. Io e Stiles lo sapevamo bene: ecco perché, mano nella mano, ci avviammo a passo spedito verso l’uscita della palestra. Pronti a combattere una guerra molto più grande di noi. 

«Aspetta!», esclamai però ad un certo punto, stringendo la mano di Stiles quanto bastava ad arrestare anche la sua camminata. «E Lydia?».

Era incredibile come riuscissi a rimanere lucida e concentrata di fronte a certe situazioni e mi complimentai subito con me stessa. Ci trovavamo ad un passo dal portellone d’emergenza della palestra e la musica già arrivava ovattata alle nostre orecchie, segno del pacifico silenzio nel quale ci saremmo immersi una volta attraversata la porta. Stiles si fermò e si voltò a guardarmi con un’espressione vagamente sorpresa. Possibile chelui non avesse pensato a Lydia?

«Sta cercando Jackson», stabilì infine, prima di riafferrarmi la mano e prendere a camminare in direzione dell’uscita.

Sperai che avesse ragione, che la conoscesse abbastanza da riuscire a prevedere dove fosse finita la Martin quando s’era defilata perché io e Stiles potessimo ballare insieme. Lo sperai con tutte le mie forze mentre mi sentivo stanca e dolorante ogni minuto che passava un po’ di più. Continuai a pregare avesse ragione anche mentre le luci laser rosse di un paio di fucili mi riempivano gli occhi, Jackson si accasciava a terra implorando di ottenere un potere che era stato concesso – per un tragico scherzo del destino – solo a Scott, e Chris Argent spuntava dal buio del bosco col solito sorriso malefico in volto. Rabbrividii, sperando Stiles non se ne accorgesse. Non gli dissi nulla di quelle visioni fulminee né di ciò che sentii e vidi dopo. Semplicemente continuai a seguirlo, fuori dal mondo.

«Prometta che non gli farà del male», pregò Jackson, donando a Chris Argent uno sguardo vagamente spaurito.

Lui di tutta risposta si limitò a sorridergli accomodante, stringendo un po’ di più il braccio attorno alle sue spalle.

«Ma certo, è solo un ragazzo», lo rassicurò, mentre io mi sentivo morire.

Chris sapeva di Scott. Jackson gliel’aveva detto. Non Kate. Jackson.

«Che cosa gli farà?».

A quella domanda, scoppiai a piangere. Stupido. Ingenuo. Infantile. Lo volevo morto. Come lo sarebbe stato Scott alla fine di quella serata. Sempre se non avessi fatto qualcosa di pazzesco per impedirlo.

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