La storia mi aveva appassionata fin da sempre. La trovavo una materia molto interessante, oltre che ovviamente utile. Mi piaceva tanto poter avere la possibilità di conoscere il passato e spesso mi ero ritrovata a dispiacermi per tutte quelle persone che, per un motivo o per un altro, non avevano avuto i miei stessi privilegi. Poter scoprire cosa avesse spinto i popoli di tutto il mondo a guerre e conquiste – ma non solo – imparando a capire almeno un po’ i pregi e difetti di tutti, mi aveva sempre incuriosita abbastanza da studiare la materia con parecchia voglia. Trovavo la storia bella anche e soprattutto perché non importava quanto tempo fosse passato dal principio: lei era sempre la stessa. Le passioni degli uomini non mutano mai e la storia non fa altro che ripetersi, sempre uguale nel tempo, proprio a causa di queste ultime. La storia va innanzitutto capita, diceva il professor Timber, e poi studiata.
In quei primi giorni di ottobre mi ritrovai a pensare molto spesso alle sue parole, anche se non so spiegarmi tutt’ora l’esatto motivo. Forse mi spingeva la nostalgia di Austin, forse il fatto che la mia nuova professoressa di storia – la signora Finnigan – avesse assegnato alla sua intera classe una ricerca da svolgere sulle nostre famiglie e soprattutto sulle loro storie. Appassionata com’ero della materia avrei dovuto essere felice di quel compito, e invece no. Non appena ne ero venuta a conoscenza ero caduta in un vero e proprio vortice di disperazione assoluta. Perché se era vero che mi era stata data fin da sempre la possibilità di conoscere il passato di greci e romani, quella invece di conoscere il passato della mia famiglia mi era stata negata fin da subito.
Philip Carter era il nome di mio padre, l’uomo che, dopo aver visto mia madre mettere alla luce Cassandra e in seguito me, aveva deciso pochi giorni dopo la mia nascita di essere più interessato alla sua carriera di musicista che alle tre donne della sua vita. Non l’avevo mai conosciuto né visto, nemmeno in foto, né credevo ne avrei mai avuto l’occasione. Non che mi interessasse più di tanto: d’altronde, perché nutrire interesse verso qualcuno che non ne ha mai avuto nei tuoi confronti? Non ho mai conosciuto lui né i suoi genitori, né i genitori dei genitori e così via. Niente zii, cugini, nipoti. Niente di niente. Jenette, Cassandra e io. L’unica cosa che davvero mi collegasse ai Carter era il cognome che sia io che mia sorella portavamo. Erano una famiglia – ma siamo sicuri che davvero si potesse definire come tale? – inesistente, morta. Almeno per me. E davvero non avevo alcuna intenzione di conoscerne la storia.
«La cosa… di chi?».
Il tono confuso di Lydia riuscì immediatamente a riportarmi alla realtà, fuori da quell’insieme di pensieri che mi tenevano costantemente a metà tra la tristezza e la rabbia. Per un attimo provai l’impulso di ringraziarla per avermi distratto, ma la sua espressione sorpresa mi portò a domandarmi di cosa stessero parlando lei ed Allison mentre io non avevo fatto altro che giocare distrattamente col cibo da quando eravamo entrate in mensa quel giorno.
«La bestia del Gévaudan. Ascolta», spiegò proprio la Argent, e lanciandole uno sguardo attento notai che teneva tra le mani un libro dalla copertina consunta dal quale cominciò a leggere alcune informazioni. «“È un mostro quadrupede simile al lupo che terrorizzò le regioni francesi dell’Alvernia e della Dordogna dal 1764 al 1767”».
«Scusate», mi intromisi all’improvviso, bloccando la lettura – senz’altro interessante – di Allison. «Cos’è questa roba?».
«Ho cominciato a lavorare alla relazione sulla storia della mia famiglia. A quanto pare sono l’unica», fu la sua risposta, accompagnata da un sorriso gentile. «Sentite come continua. “La bête uccise oltre un centinaio di persone, diventando tanto famigerata che il re Luigi XV inviò uno dei suoi migliori cacciatori ad ucciderla”».
«Noioso», sentenziò allora Lydia, spostando un ciuffo di capelli rossi da una spalla all’altra con estrema noncuranza.
Non le interessava affatto ciò che Allison le stava leggendo con tanto entusiasmo, al contrario mio che ero grata a qualsiasi tipo di distrazione possibile. Le rivolsi un veloce sguardo poco prima di concentrarmi nuovamente sulla Argent, seduta di fronte a me, facendole cenno di continuare a leggere la storia senza dar retta alla Martin. Più che altro, ero curiosa di capire che legami avesse quella leggenda con la famiglia Argent.
«“Anche la Chiesa alla fine dichiarò il mostro un messaggero di Satana”», continuò proprio lei infatti, leggendo con intonazione e interesse mentre Lydia ancora sussurrava lamentele. «“I criptozoologi ritengono che si tratti di un predatore ungulato: forse un mesochinide. Alcuni credono si trattasse di uno stregone in grado di trasformarsi in un mostro cannibale…”».
«Mi spieghi tutto questo cosa c’entra con la tua famiglia?», la interruppe Lydia a quel punto, spazientita e curiosa forse quanto me.
Allison, di tutta risposta, quotò altre righe del vecchio libro che ancora stringeva tra le mani mentre io prendevo un sorso d’acqua nell’attesa.
«“Si pensa che la bête fu intrappolata ed uccisa da un famoso cacciatore, il quale sosteneva che la bestia gli avesse ucciso sua moglie e i suoi quattro bambini”. Si chiamava Argent», completò poi alla fine, riservando uno sguardo soddisfatto a Lydia.
Per un solo breve attimo, mi chiesi se anch’io avrei trovato una storia così sorprendente nel passato della mia famiglia – se solo avessi deciso di mettermi a cercare qualcosa. Ancora non lo sapevo, ma la risposta era assolutamente sì.
«Un tuo antenato ha ucciso un grosso lupo. E allora?».
«Non è solo questo. Guarda quest’immagine», ordinò la Argent, mostrando poi ad entrambe la rappresentazione illustrata presente su una delle tante pagine ingiallite di quello strano libro.
Il suo: «Che cosa ti sembra?» rivolto a Lydia arrivò ovattato alle mie orecchie. Ero stata rapita dalla grossa bestia dagli occhi rossi che Allison mostrava quasi con orgoglio, forse fiera di poter dire che un suo vecchio antenato fosse stato capace di compiere un atto di coraggio tale da poter uccidere un animale del genere e ridare di nuovo la pace.
La creatura abbozzata a malapena sulla carta era fin troppo simile a quella che, in uno dei sogni che avevo fatto da quand’ero lì a Beacon Hills, aveva ucciso Derek coi suoi artigli aguzzi. Sentii un brivido scorrermi velocemente giù per tutta la schiena e ancora una volta, proprio come nel mio sogno, mi ritrovai incapace di parlare.
Scoprii che Lydia avesse avuto una reazione molto simile alla mia solo quando la voce di Allison, intenta a richiamare la sua attenzione ripetutamente, raggiunse di nuovo le mie orecchie. Ritornai in un batter d’occhio alla realtà, strizzando le palpebre mentre sentivo appena Lydia balbettare una delle sue solite scuse prima di sparire verso chissà dove.
«Che le è preso?», mi domandò Allison delusa, riservandomi uno sguardo vagamente intristito.
«Lascia perdere. Sarà preoccupata perché ancora non ha iniziato la sua ricerca. Proprio come me!», trillai, subito dopo aver fatto spallucce come se niente fosse.
Allison sospirò lievemente, tornando a leggere il suo libro in silenzio almeno finché non vide sfrecciare davanti a sé Scott e Stiles, anche loro diretti chissà dove.
«Scott? Scott, aspetta!», esclamò, poco prima di raccattare le sue cose velocemente e prendere a rincorrere i due ragazzi.
Oh. No, no, no, no. Non andava bene! Il piano era di far stare lontani i due piccioncini, merda! Pensai a tutta questa serie di imprecazioni mentre seguivo Allison a stento, ascoltandola richiamare Scott almeno finché lui non si chiuse la porta del bagno maschile alle spalle mentre io tiravo un sospiro di sollievo. Di Stiles, invece, non c’era traccia.
«Non ti sembra che mi stia evitando?», mi domandò la Argent, scoraggiata, voltandosi a guardarmi mentre ci allontanavamo dai bagni ed io sentivo distintamente le mie guance imporporarsi.
Certo che la stava evitando, ma lo stava facendo per il suo bene e per quello di tutti. Come avrei potuto spiegarglielo, però?
«Sicuramente no», la rassicurai infatti, fingendo un sorriso mentre le accarezzavo un braccio.
«Forse è arrabbiato perché zia Kate ci ha interrotti sul più bello, l’altro giorno».
A quelle parole arrossii nuovamente, pregando che Allison non se ne accorgesse. Me lo ricordavo ancora troppo bene il racconto dettagliato che proprio lei mi aveva fatto del suo ultimo incontro con Scott, che nonostante gli avvertimenti di Derek aveva deciso di andare a casa Argent per vederla.
«Ma figurati», mormorai, nervosa. «Doveva semplicemente andare in bagno di corsa. Smettila di farti paranoie e andiamo a lezione, piuttosto».
E sperai solo di essere stata convincente abbastanza.
Ancora non sapevo chi ringraziare o maledire, eppure eccomi lì in quel tardo pomeriggio di ottobre nella grande biblioteca della Beacon Hills High School, rapita dagli infiniti documenti riguardanti la “dinastia Carter” che ero stata capace di trovare navigando in internet.
Ero stata in grado di leggerne così tanti, in relativamente poco tempo, che i miei occhi stanchi chiedevano pietà, semi-nascosti dalle lenti degli occhiali da lettura che di tanto in tanto mi decidevo ad indossare.
Pareva che i Carter fossero originariamente inglesi emigrati in America a partire dal XVIII secolo. Dietro la storia della mia famiglia non si celavano leggende straordinarie come quella degli Argent che avevo avuto modo di ascoltare quella mattina stessa da Allison, eppure ebbi occasione di capire, in quel freddo pomeriggio di ottobre, che a loro modo anche i Carter avessero qualcosa di eccezionale.
Tutto sembrava partire dalla figura di Charles Shelby Carter, l’unico di loro che fosse riuscito a far parlare di sé abbastanza da non finire subito nel dimenticatoio. Nato a New York nel 1888, secondogenito in una famiglia di umili trasportatori di merci, dopo aver servito per dieci anni nell’esercito americano e aver raggiunto l’alta carica di secondo luogotenente d’artiglieria terrestre, aveva deciso di congedarsi per trasferirsi aBeacon Hills nel 1919.
«Cioè, hai capito? I Carter appartengono a questo luogo ed io non ne sapevo nulla!», esclamai, rivolta a Stiles, subito dopo aver letto quella strabiliante notizia.
«Che coincidenza che anche tu ti trovi qui», mi fece notare lui allora, mettendo su una smorfia divertita che mi fece venir voglia di ridere. «Cosa ha fatto Charles dopo essere arrivato in California?».
«“Nel ventotto ottobre del 1920 prese in sposa la giovane Rita Fitzgerald, che diede alla luce il suo primogenito – Eric – esattamente un anno dopo. I tre vissero una vita più che agiata, affermandosi come una delle famiglie più celebri della piccola cittadina di Beacon Hills. Agli inizi degli anni ’30 Charles diventò inoltre uno degli uomini più ricchi d’America, famoso non solo per la sua carriera militare ma anche per essere stato in grado di fondare una delle banche d’investimento più conosciute del paese. La fortuna era senza dubbio a favore dei Carter, cosa che riempì d’invidia alcuni nemici, colpevoli dell’organizzazione di un vero e proprio attentato ai danni del patriarca”».
«Figata», fu l’unico commento di Stiles, rimasto ad ascoltarmi con attenzione dopo un iniziale momento di noia acuta che ai miei occhi non era passato per nulla inosservato. «Sembra un film! Continua».
Feci come mi aveva chiesto, riprendendo la lettura da dov’ero rimasta. Che quella di Charles Shelby Carter fosse una storia interessante era innegabile, ma quanto di vero c’era in quelle righe? Mentre riprendevo a leggerla lentamente a Stiles, me lo chiesi più volte.
«“A seguito di un tragico incidente che subì il primo luglio del 1935 – un incidente organizzato con l’obiettivo di ucciderlo – rimase paralizzato perennemente e inoltre, per un qualche inspiegabile trauma cranico, si narra in uno dei tanti diari che la moglie di Charles scrisse sotto dettatura del marito, che perse l’abilità di sognare”».
«Wow. È possibile una cosa del genere?», mi domandò Stiles, aggrottando le sopracciglia, confuso.
Di tutta risposta mi limitai a fare spallucce, poco prima di dire: «Me lo chiedo anch’io».
Era vero, ma in realtà non era quella la parte più interessante della storia. Il meglio doveva ancora venire.
«Senti come continua, comunque. “I sogni hanno una grande importanza terapeutica, cosa che Charles si ritrovò a provare sulla propria pelle. In seguito alla soppressione forzata di questi ultimi, infatti, visse le stesse fasi delle cavie da laboratorio sulle quali nella seconda metà dell’800, erano stati condotti diversi studi per cercare di comprendere la natura dei sogni e l’impatto che avessero sugli uomini, partendo proprio dall’abolizione di essi. Charles affrontò un iniziale periodo di aggressività comportamentale quasi incontrollabile, che poi si tramutò in allucinazioni tanto vivide che diventò sempre più difficile, per lui, distinguere la realtà dalla finzione”».
«Okay, adesso le cose si fanno inquietanti», sentenziò Stiles a quel punto, interrompendomi nuovamente mentre io sorridevo appena, più che d’accordo con lui. «Ma è sempre comunque una figata. Tu che ne pensi?».
«Dubito che cose del genere siano successe veramente», spiegai, subito dopo aver fatto nuovamente spallucce. «Insomma, tu certi siti li reputeresti affidabili?».
«Perché no? Anche se in effetti sarebbe bello poter leggere qualcosa di autentico, tipo i diari di Charles».
Oh. Perché non c’avevo pensato prima? Era un’ottima idea, e per un attimo mi chiesi se fosse sul serio possibile reperirli. Gettai un lungo sguardo tutt’intorno a me, cercando di individuare tra gli innumerevoli scaffali di libri, qualcosa che potesse attirare la mia attenzione.
«Lo sai che è proprio una buona idea?», feci notare a Stiles, mentre lo vedevo con la coda dell’occhio prendere a fare lo stupido come suo solito.
«Ci credo, è venuta a me», esalò difatti, mentre io scoppiavo a ridere.
«D’accordo. Ma non montarti troppo la testa, Stilinski», lo ammonii, riservandogli uno sguardo divertito. «Piuttosto, dopo mi aiuti a cercare qualcosa?».
«Certo che sì, signorina Carter», rassicurò, sorridendomi apertamente. «Ma prima devi finire di leggere la storia, perché sono troppo curioso».
Obbedii subito, riprendendo a leggere ad alta voce subito dopo aver annuito lievemente.
«“Il terzo ed ultimo stadio che l’uomo si ritrova ad affrontare in assenza di sogni è quello della morte per insufficienza surrenale, e Charles lo sapeva così bene che si dimostrò fin da subito disposto a tutto pur di riottenere la capacità di sognare. Tutti i rimedi che provò risultarono inutili, almeno finché Charles non riuscì ad entrare in contatto col popolo indiano e a scoprire così la Silene Capensis, pianta meglio conosciuta come “erba del sogno”. Ritenuta sacra dal popolo Xhosa ed utilizzata dagli indiani per l’iniziazione di aspiranti sciamani, era capace di provocare – se ingerita – vivide e profetiche allucinazioni e lucidi sogni durante la fase REM. Charles iniziò ad assumerla di buon grado, grazie ad un patto stipulato con alcuni sciamani che si offrirono di donargliene quanta ne volesse a patto che lui tenesse annotati tutti i sogni che la Silene gli avrebbe fatto fare. Carter riuscì a riottenere i suoi sogni, e tenne fede al patto col popolo degli Xhosa, dettando alla moglie Rita ognuno di essi affinché lei li annotasse nei diari che entrambi custodivano gelosamente”».
«Cavoli, voglio assolutamente leggerli!», esclamò Stiles, interrompendomi ancora.
A quanto pare, però, non aveva colto il punto cruciale di tutta la storia. La cosa che sembrava collegarmi in una maniera assurda ai Carter e riusciva a farmi sentire profondamente una di loro, seppur non volessi affatto e mi rifiutassi perciò di credere a quello che leggevo. Nell’attesa che potesse comprendere anche Stiles, continuai a leggere dopo avergli lanciato un lungo sguardo.
«“Pochi anni dopo la nascita del suo secondogenito avvenuta nel 1935, Charles smise di assumere la Silene Capensis a causa della rottura del patto con gli Xhosa, facendo una scoperta sorprendente. Pur senza ingerirla, continuava a sognare e per di più, continuava a fare sogni premonitori. Era diventato un chiaroveggente in piena regola e abitando in una cittadina piccola come Beacon Hills dove tutti sanno tutto di tutti, per lui raggiungere un’altra volta la fama in un batter d’occhio fu facile come bere un bicchiere d’acqua. Come se non bastasse, anche Thomas Carter – fratello di Eric – dimostrò di avere dentro di sé i poteri di chiaroveggenza del padre, sognando l’avvenimento di ben tre fatti storici a soli dieci anni. I poteri a lungo sopiti nelle terre della California erano stati risvegliati e da allora si tramandano di secondogenito in secondogenito nella famiglia Carter, capace di riportarli alla luce dopo secoli di buio. Da qui ebbe veramente inizio la “dinastia Carter”, che ottennero subito la fama di chiaroveggenti infallibili della cittadina”».
Quando quelle ultime quattro parole uscirono fuori dalle mie labbra e i miei occhi corsero a cercare quelli di Stiles, trovai sul suo viso l’esatta espressione che ore prima era stata sul mio. Era un misto di confusione e sorpresa, ma più che altro vi regnava l’incredulità.
«Adesso capisci perché non riesco a crederci?», gli domandai, chiudendo tutte le varie schede aperte dopo aver ricopiato solo alcuni file utili sulla mia pendrive.
Mi misi in piedi spegnendo il vecchio computer di scuola, raccattando le mie cose mentre ancora attendevo una risposta da parte di Stiles. Lui mi seguì, prendendo a boccheggiare. L’avevo davvero stravolto.
«Tu… cioè, i Carter… voi… i sogni… i tuoi sogni…», cercò di dire, non riuscendo tuttavia a trovare le parole giuste e limitandosi perciò a gesticolare furiosamente.
«Non dirlo», ordinai, con tono di voce perentorio. «Non venirmi a dire che sono una chiaroveggente perché potrei reagire con violenza alla cosa, sappilo. Non ci credo alle minchiate che ti ho appena letto: i miei sogni sono semplici coincidenze e per di più, si tratta di un caso di omonimia».
«Come vuoi tu. Però non picchiarmi se ti dico che non sono d’accordo per niente e che ti renderai conto ben presto anche tu di essere in errore», spiegò Stiles, mentre si ritrovava a camminarmi al fianco nei corridoi della Beacon Hills High School.
Trattenni una risata divertita, voltandomi a donargli uno sguardo interrogativo.
«Ora giochi anche tu a predire il futuro?», gli domandai, già dimentica dello sconforto dei minuti precedenti.
«Che ne sai, magari sono un chiaroveggente anch’io».
In seguito a quella risposta non potei far altro che scoppiare a ridere di gusto. Senza che ci fosse un motivo logico per farlo, come al solito io e Stiles avevamo trovato il pretesto per scherzare sulla scoperta sorprendente che mi ero ritrovata a fare per puro caso, e pensai in quel momento che fosse senz’altro meglio reagire così alla cosa che in modo negativo.
Stiles non era affatto un chiaroveggente, ma la sua predizione si dimostrò più che esatta quella sera stessa, quando in seguito all’ennesimo evento inspiegabile fui costretta a prendere coscienza di cosa – all’apparenza – ero veramente. La realtà è sempre dura da accettare, ma la mia dimostrò di esserlo in modo particolare.
«Questa è davvero una pessima idea».
No, non ero stata io a pronunciare quelle parole, ma Stiles. Sentirle venire fuori dalle sue labbra mi stupì e non poco, perché ancora una volta era riuscito ad esprimere alla perfezione i miei pensieri pur senza che io gliene parlassi. Gli donai uno sguardo sorpreso mentre sia io che lui e Scott scendevamo dalla Jeep per ritrovarci nel parcheggio di scuola.
«Sì, lo so», acconsentì proprio McCall, dirigendosi verso il bagagliaio posteriore dell’auto.
Ebbene sì, eravamo alla prese con l’ennesima missione suicida. Non che ci fosse più da stupirsi molto della cosa, né tantomeno del fatto che fossimo alla Beacon Hills High School – di notte fonda – invece che, per esempio, a casa a dormire. Sinceramente, dato come stavano andando le cose negli ultimi tempi, mi sarei stupita di più del contrario.
«Lo faremo lo stesso?».
«Hai un piano migliore?».
Be’, io avrei potuto proporre qualcosa, come ad esempio starne fuori del tutto e fare finta di nulla. Ma sapevo bene che né Scott né Stiles mi avrebbero mai presa sul serio né dato retta, perciò me ne rimasi in silenzio mentre assistevo al loro confronto.
«Proporrei di ignorare completamente il problema fino a che non sparirà da solo», spiegò Stiles, facendo sì che sulle mie labbra spuntasse un sorriso triste.
Quanto avrei voluto che quella fosse una possibilità da prendere in considerazione…
«Tu pensa a farci entrare».
Scott però riportò l’ordine, proprio mentre il sorriso spariva dalle mie labbra e Stiles annuiva appena, poco prima di mettersi a cercare nel bagagliaio della Jeep una torcia e una grande tenaglia che aveva portato da casa. Feci per chiedere a Scott cos’avesse davvero intenzione di fare, quando la luce di due fari catturò la mia attenzione.
«È qui», mormorò proprio lui, alludendo a Derek, che sia io che Stiles osservammo attentamente mentre scendeva dalla sua Camaro nera.
Sapevo che sarebbe stato presente anche lui ed era proprio per quel motivo che avevo voluto andare anch’io alla Beacon Hills High School con Scott e Stiles. Avevo bisogno di parlargli.
«E il mio capo?», sentii che McCall gli chiese, avanzando nella sua direzione.
«Sta dietro».
Alludeva al signor Deaton, il padrone della clinica veterinaria nella quale Scott lavorava da ormai un po’ di tempo. Quel pomeriggio Derek era andato a fargli una visita per nulla educata perché convinto che fosse lui l’alpha, e a quanto pareva, tutto quel piano era proprio per dimostrare l’innocenza dell’uomo di colore che, da quanto ebbi occasione di osservare, Derek continuava a trattare proprio bene.
«Tu e la gentilezza siete proprio amiche intime, vedo», gli soffiai contro, facendomi lontana dallo sportello posteriore e dalla visione di quell’uomo legato e imbavagliato.
Non riuscivo a sopportarlo.
Derek, di tutta risposta, mi riservò un sorrisino fintamente divertito che io ricambiai con una smorfia.
«Oh sì, sembra proprio che stia comodo», mi diede manforte Stiles, ironico come suo solito.
Scott invece lasciò correre, avviandosi verso scuola per poi essere seguito dal migliore amico, mentre io me ne rimasi nelle vicinanze della Camaro. Dovevo parlare con Derek e non l’avevo di certo dimenticato.
«Aspetta. Che fai?», domandò proprio lui, scettico.
«Sono collegato all’alpha. Vediamo se hai ragione».
E detto questo, sia Scott che Stiles sparirono dentro scuola. Io mi poggiai lentamente contro la carrozzeria della sua auto mentre aspettavo placidamente che Derek capisse. Perché a giudicare dalla calma che regnava in lui in quel momento, era chiaro che ancora non ci fosse arrivato. Tuttavia, le cose cambiarono e potei dirlo subito da come mutò radicalmente la sua espressione.
«Fammi capire bene», ordinò con voce dura, voltandosi a fronteggiarmi. «Vuole attirarlo qui? Cos’ha che non va, quel ragazzo?».
Sapevo bene che non volesse una vera e propria risposta, e lo capii soprattutto nel momento in cui compresi che avesse intenzione di raggiungere Scott e Stiles all’interno di scuola. In fretta e furia mi feci lontana dalla Camaro, raggiungendo Hale giusto in tempo da agguantargli un braccio con la mano sinistra.
«Derek, fermo!», lo ammonii, alzando la voce senza riuscire ad impedirmelo. «L’idea non piace nemmeno a me ma prova a fidarti di Scott, d’accordo?».
Per fortuna non ci fu bisogno di insistere più di tanto come avevo programmato, perché al contrario bastò che quelle poche parole abbandonassero le mie labbra perché Derek decidesse di calmarsi e dare una possibilità al giovane McCall – proprio come avevo fatto io. Sospirò arrendevolmente mentre insieme ci dirigevamo nuovamente nei pressi della sua auto.
«Posso chiederti una cosa?», trovai il coraggio di domandargli, in seguito a diversi minuti di silenzio assoluto.
Derek si limitò a dedicarmi un lungo sguardo poco prima di annuire appena, il che mi autorizzò a chiedergli ciò che avevo progettato di chiedergli da un po’ di tempo a quella parte.
«Cosa sai dirmi sulla mia famiglia?».
Sapevo che lui fosse nato lì a Beacon Hills, così come tutti gli Hale e in apparenza anche gli ultimi Carter. Sapevo anche che fosse l’unico a potermi aiutare a far luce su tutta quella strana faccenda, dal momento che mia madre Jenette sembrava non saperne nulla proprio come Stephen – col quale avevo parlato prima che uscisse per il suo solito turno di notte alla centrale di polizia.
«Perché mi fai questa domanda?», mi chiese allora Derek, riservandomi uno sguardo sorpreso.
«Tu inizia a rispondere. E bada bene di non raccontare cazzate come tuo solito».
«Non ne so niente».
«Come non detto».
Sapevo che ottenere risposte non sarebbe stato facile. D’altronde, credevo di conoscere già piuttosto bene il ragazzo che avevo di fronte, nonostante tutto. D’altra parte, però, non avevo alcuna intenzione di arrendermi così facilmente.
«Tu eri qui quando loro c’erano! E poi sono spariti nel nulla. Io voglio solo capire perché», esalai, mentre il mio tono di voce diventava sempre più lieve.
«Dovresti parlarne con la tua mammina», soffiò Derek, inspiegabilmente pieno d’astio.
«Lei non ne sa niente davvero, al contrario tuo».
«Ne sei sicura?».
No, no che non ne ero sicura. Ma perché farlo sapere anche a lui? Così da dargli motivo per burlarsi ulteriormente di me e dell’ignoranza in cui ero cresciuta?
Me ne rimasi in silenzio, stringendomi le braccia al petto mentre mi mordevo nervosamente l’interno guancia. Proprio quando credevo che la nostra conversazione si sarebbe conclusa in quel modo, Derek parlò ancora.
«Erano molto famosi, qui. In senso buono, stai tranquilla. Erano brava gente. Forse un po’ boriosi. Ma con quello che erano in grado di fare, ci sta che lo fossero. Hanno evitato un sacco di guerre inutili», mi spiegò, mentre io lo osservavo, rapita da tutte le belle parole che pronunciava.
«Quindi tutto quello che ho letto in internet è vero?», domandai, con la voce ridotta ad un sussurro.
Derek annuì nuovamente ed io ancora mi ripetei che non riuscivo a crederci.
«Continuo a non crederci», gli feci presente infatti, scuotendo la testa. «Ci sono un sacco di cose che non tornano. Ad esempio: perché nessuno a parte te sembra ricordare dei Carter? Se è vero che erano così famosi, Stephen avrebbe dovuto dirmi qualcosa sul loro conto».
«Beacon Hills non è così piccola come sembra, Harriet. Se da una parte c’è gente che col soprannaturale ci vive da sempre o che anche solo ha imparato ad accettarlo, dall’altra ci sono comunque persone scettiche come te. Non tutti riescono a credere, sai? Ecco perché una volta che i Carter furono spariti nel nulla, la maggior parte della città acconsentì a lasciarli sepolti sotto un velo».
«Se tutto questo è vero, dovrei avere anch’io dei poteri. Sono una secondogenita».
«E vorresti dirmi che non ne hai?».
Quella domanda divertita mi lasciò di nuovo senza fiato, tanto che mi rifiutai di rispondere, chiudendomi ancora una volta in un silenzio glaciale.
«Tutto questo non ha senso», mormorai però dopo qualche momento di riflessione.
«Non deve per forza averne. Ti ricordo che stai parlando con un nato licantropo».
Giusto.
«Faresti meglio a chiedere informazioni a tua madre, comunque. Dico sul serio», mi consigliò Derek, ancor prima che ebbi la possibilità di rispondergli qualcosa.
«Lo farò. Grazie».
E detto questo mi diressi verso scuola, più che decisa a cercare Stiles e Scott. Volevo sapere cosa stessero combinando.
«Non ho fatto nulla», sentii Derek sussurrare, e la sua voce arrivò alle mie orecchie a malapena, dal momento che già mi ero allontanata un bel po’ da lui.
Avvertii le mie guance imporporarsi appena: sapevo che non fosse la verità e avrei voluto dirglielo, ma qualcosa mi trattenne. Ancora una volta, Derek Hale aveva fatto molto di più di nulla.
Riuscii ad entrare all’interno della Beacon Hills High School nel momento esatto in cui qualcosa di molto simile ad un intenso miagolio arrivò a riempirmi le orecchie. Era un suono che ancora non so come descrivere meglio di così, tanto fastidioso che fui costretta a pormi entrambe le mani sui timpani per poterlo non sentire più.
Mentre speravo con tutta me stessa che non fosse stato Scott a farlo, mi mossi a tentoni verso la fonte di quel fastidioso rumore. I lupi ululavano per segnalare la propria posizione al branco, ma quello non aveva nulla di un ululato. Se McCall contava di attirare l’alpha a scuola in quel modo, direi che il piano non aveva alcuna speranza di riuscita.
Tuttavia, scoprii di sbagliarmi quando – dopo aver cercato a lungo – riuscii a trovare sia lui che Stiles, e un ululato di quelli proprio fatti bene si levò sul silenzio che circondava l’intero istituto. Se solo non fosse stato che Scott era di fronte a me mentre lo faceva, con gli occhi gialli brillanti, non avrei mai creduto che fosse opera sua.
«Io vi ammazzo tutti, lo giuro! Che cos’avevi intenzione di fare? Volete attirare tutto lo stato qui a scuola?».
Non mi stupii per nulla del fatto che Derek non fosse entusiasta nemmeno la metà di quanto lo fossimo noi tre. Al contrario, mi aspettavo una sua reazione del genere.
«Non sapevo che fosse così forte», si giustificò subito Scott, sorridendo divertito.
«Sì, era forte. Ed era fighissimo!».
«Sta’ zitto».
Il commento soddisfatto di Stiles fu stroncato dall’ordine perentorio di Derek, ed immediatamente potei vedere altra preoccupazione farsi spazio sul suo viso. Stiles provò ancora a parlare ma quella volta venne zittito anche da Scott, mentre mi sembrò di avvertire un rumore per nulla rassicurante. Non sapevo cosa stesse succedendo esattamente, ma avevo capito subito che non fossimo più al sicuro.
«Che gli hai fatto?», sentii chiedere a Scott.
Deaton era sparito ma Derek non ne era responsabile, mi bastò guardarlo in viso per averne la certezza.
Il resto, accadde tutto così velocemente che quando ci penso ancora non riesco a capacitarmene. Mi sembrò di rivivere il mio sogno per la seconda volta, con l’unica eccezione che allora ero fin troppo sicura di essere sveglia.
Un’enorme creatura dagli occhi rossi e cattivi arrivò di scatto alle spalle di Derek, afferrandolo coi suoi artigli aguzzi. Lui, ferito, prese a sanguinare.
Sentii Stiles e Scott che correvano via, lontani da quello scenario da perfetto film horror, e provai l’impulso di raggiungerli per poi rendermi conto del fatto che le mie gambe non me l’avrebbero permesso. Erano inchiodate al suolo, schiacciate dall’immensa paura mista alla consapevolezza di cosa davvero stesse succedendo che mi aveva colta.
Avrei sicuramente urlato, se solo non fosse stato che anche le mie cordi vocali sembravano congelate, proprio come tutti i miei muscoli. Fu solo quando la bestia ebbe lanciato via il corpo inerme di Derek che capii di essere spacciata, perché sicuramente a quel punto si sarebbe tuffata su di me, che – indifesa – non avrei potuto far altro che soccomberle.
Ma nel momento esatto in cui l’alpha si mosse nella mia direzione, un forte rumore di passi mi riempì le orecchie, e prima ancora che potessi vederlo, capii che si trattasse di Stiles quando mi afferrò forte la mano. Non mi servì nient’altro, solo sentire la sua pelle a contatto con la mia bastò a farmi ritrovare la forza adatta a mettermi in salvo.
«Harry, andiamo!», mi spronò, urlando, e senza tuttavia aspettare un mio cenno prese a trascinarmi di corsa verso la scuola.
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parachute
FanfictionEro nata e cresciuta ad Austin, ma non volevo più starci. Il Texas ormai mi andava stretto. Avevo sedici anni e tanta voglia di indipendenza. Se fossi stata fortunata, quella che stava per arrivare sarebbe stata la mia ultima estate laggiù. Quello s...