4. Oh. Merda.

1K 47 5
                                    

Contrariamente a quanto sarebbe potuto sembrare, incontrare gente nuova non mi era mai piaciuto. Magari riuscivo a nasconderlo bene – o forse no – ma in fondo in fondo ero semplicemente la solita ragazzina insicura, quella che si faceva complessi per tutto e non riusciva mai a sentirsi ‘‘abbastanza’’.

Perciò, mentre la maggior parte delle mie coetanee si ritrovava alla costante ricerca di un ragazzo che le amasse oppure di amici disposti a fare di tutto per loro, io facevo al contrario ogni cosa possibile ed immaginabile per evitare la gente che non conoscevo. Detto così magari sembrerebbe una cosa bruttissima, vi verrebbe da pensare che io sia una delle solite sedicenni asociali e depresse con la fobia di ‘‘ciò che è diverso da loro’’. Ma non è così. Io ero semplicemente… troppo poco coraggiosa. Non riuscivo a credere in me stessa, ad accettarmi per quella che ero e a dire: «Okay, sono fatta così e mi sta bene».

Odiavo le cose che non conoscevo, temevo il confronto con persone con le quali non avevo mai parlato perché – come già detto – non riuscivo proprio a vedermi alla loro altezza, mentre invece il problema era proprio questo. Non esistono persone migliori di altre: siamo tutti uguali, tutti con gli stessi difetti e pregi miscelati in diverse misure. Avrei scoperto queste cose solo più tardi, però, quando sarebbe arrivato qualcuno a cambiarmi la vita e ad aprirmi gli occhi. Per altro tempo ancora, comunque, non sarebbe successo nulla di tutto ciò. Ed io mi ritrovavo quindi nell’atrio della Beacon Hills High School, con le guance rosse per l’imbarazzo e la voce flebile e tremolante.

C’erano un sacco di persone di fronte a me. Persone che non conoscevo e con le quali non avevo assolutamente voglia di parlare e confrontarmi, perché come al solito temevo di poter dire l’ennesima ‘‘cosa sbagliata’’ e rovinare tutto. Se solo avessi potuto esprimere un desiderio, avrei sicuramente chiesto che Beacon Hills fosse già casa mia.  

Tutta quella sensazione di spiazzamento data dalle millemila novità che mi stavo ritrovando ad affrontare non mi piaceva nemmeno un po’. Avevo la fobia dell’ignoto, sì. E avrei voluto che Beacon Hills fosse già casa mia per sentirmi a mio agio, per ritrovarmi a salutare calorosamente tutti gli sconosciuti di fronte a me, per sapere tutto di loro e per fargli sapere tutto di me. Per poterli considerare miei amici – come consideravo le persone a me vicine ad Austin, insomma – e fare della paura di non essere adatta e apprezzata, solo un brutto ricordo.

Perché con gli amici va così, no? Una volta che riesci a costruire un rapporto e a mostrarti per quella che sei senza farti frenare da paure infondate, poi arrivi al punto in cui non ti vergogni più di nulla e non fai altro che dire: «Non devo trattenermi con loro, perché qualunque cosa io faccia capiranno. Mi conoscono come le loro tasche».

Avrei voluto superare ‘‘i primi tempi’’: quelli dell’imbarazzo, quelli dei gesti trattenuti e delle parole non pronunciate. Quando si ha sempre troppa paura di osare perché non si ha idea di come reagirà il nostro nuovo amico. Io odiavo quella fase. Odiavo conoscere gente nuova proprio per questo. E mi avrebbe fatto comodo un desiderio magico… ma sapevo benissimo di non poterne avere. Perciò, forse, era meglio tornare alla realtà.

«Oh, tu devi essere la famosa Harriet Carter. Non è così?».

Fissai la donna dalla pelle olivastra e i lunghi capelli scuri di fronte a me con occhi curiosi, sforzandomi di riservare un sorriso timido tutto per lei. Il professor Islan mi era ancora al fianco: come da promessa, non mi aveva abbandonata nella tana del lupo ma era rimasto con me, rincuorandomi con parole di conforto.

«Già, sono proprio io. È davvero un piacere essere qui e… conoscerla, signora…», incominciai, porgendo una mano in direzione della donna e interrompendo poi il mio fiume di parole quando scoprii di non sapere ancora il suo nome.

parachuteDove le storie prendono vita. Scoprilo ora