«Qui è lo sceriffo Stilinski, mi dica pure».
Aprii gli occhi lentamente, non appena avvertii la voce di mio padre provenire da molto vicino. Fino a quel momento ero stato in una specie di dormiveglia piacevolissimo: avete presente quel momento magico giusto un attimo prima del risveglio in cui vi sembra di aver trovato il posto più comodo del letto e, in un certo qual modo, la pace dei sensi? Be’, io mi ero sentito così finché papà non aveva parlato con la sua voce seria e profonda.
Improvvisamente non mi interessava più stare a letto il più possibile prima di dover iniziare un nuovo e faticosissimo giorno di scuola. In quel momento volevo solo scoprire con chi stesse parlando mio padre e perché. Avevo sempre sentito dire che la curiosità fosse donna, ma secondo me era sbagliato credere che fosse così. La curiosità era Stiles. La curiosità era me. Almeno quanto io ero lei.
Scossi la testa per quei pensieri – come al solito – stupidi, lasciandomi anche andare ad un sorrisetto divertito mentre cambiavo posizione nel letto e mi ci sdraiavo di schiena, maledicendomi dopo due secondi per averlo fatto a causa del sole che così facendo mi colpiva in piena faccia. Sole a Beacon Hills prima del tempo? Davvero molto strano.
«Come? Davvero? Wow, è… una bella novità».
Stavo quasi per ridare le spalle alla finestra e ritornare a sonnecchiare in pace prima che mio padre venisse ad urlarmi di alzarmi prima di uscire per andare a lavoro – e sì, già mi ero dimenticato del mio proposito di ascoltare la sua telefonata per capire cosa stesse ‘‘tramando’’ – quando lo sentii parlare nuovamente e non potei fare a meno di aggrottare le sopracciglia.
Abbandonai ben presto l’idea di restare a poltrire ancora cinque minuti e mi misi in piedi in fretta e furia, correndo verso la porta chiusa della mia cameretta e aprendola per potermi affrettare verso la cucina – perché ero quasi sicuro che mio padre fosse lì. Ed infatti non mi sbagliavo. Se ne stava nei pressi del frigorifero, col telefono premuto contro l’orecchio e un’espressione un po’ confusa. Aggrottai le sopracciglia nuovamente mentre lo vedevo annuire molto spesso e capivo quindi che stesse ascoltando attentamente il suo interlocutore.
«No, in verità non sapevo niente di questa iniziativa dell’intercultura».
Mi immobilizzai sulla soglia della cucina, abbandonando ben presto il mio proposito di fare colazione e poi prepararmi per scuola mentre chiedevo spiegazioni a papà. Oramai non ne avevo più bisogno: lui mi aveva già detto tutto ciò che volevo sapere con quella semplice parola sulla quale aveva messo un accento particolare per evidenziarla a sufficienza. L’intercultura, cazzo. Come avevo potuto dimenticarmi di parlarne a papà?
Feci dietrofront non appena intercettai la sua occhiata truce nella mia direzione e camminai – senza correre, per non destare ulteriori sospetti – verso la mia cameretta, dove mi rifugiai con la porta chiusa a chiave. Quello sarebbe stato un buon espediente per guadagnare tempo utile ad inventarmi quantomeno una scusa per scappare. Ma, alla fine, quale scusa migliore della scuola? Non potevo mica arrivare in ritardo.
Poco prima di chiudere a chiave la porta sentii mio padre dire: «Ma non si preoccupi, signorina Morrell. È tutto a posto, mi serve solo un po’ di tempo per… abituarmi all’idea. Ma sono certo che insieme a mio figlio risolveremo la situazione».
Certo, perché quale altra opzione avevamo? Quella che venissi rimandato in Francese? Non credevo proprio che mio padre l’avrebbe mai e poi mai permesso. Comunque, decisi di evitare le perdite di tempo e mi affrettai a vestirmi. In meno di dieci minuti, ero pronto. Diedi un’occhiata alla sveglia posta sul comodino di fianco al mio letto: erano le sette e mezza. Ancora troppo presto per uscire. Ma forse… se avessi detto a papà che andavo a scuola a piedi…
«Stiles!», sentii mio padre urlare mentre, a giudicare dai passi affrettati lungo il corridoio, si stava dirigendo proprio verso la mia camera. Sobbalzai e fui distolto da ogni possibile ‘‘piano di fuga’’. «Stiles, apri! Dobbiamo parlare».
Merda. Era arrivato davanti alla porta chiusa della mia cameretta e alternava inutili tentativi di girare la maniglia per aprirla a colpi furiosi sul legno bianco. Merda, merda, merda. Dovevo inventarmi qualcosa.
«N-non… non posso, papà!», gli feci presente alla fine, guardandomi intorno nella speranza di trovare una buona scusa.
Nulla. Niente di niente.
«Cosa stai facendo? Anzi no: non mi interessa! Qualsiasi cosa tu stia facendo devi farmi entrare subito! Hai scuola tra mezz’ora», disse papà, evidentemente irremovibile.
«Ma io…».
«STILES!».
E quando lo sceriffo Stilinski pronunciava il mio nome in quel modo, era ormai più che certo che non avessi nessuna probabilità di sopravvivenza.
Prima che potesse ordinarmi ancora una volta di aprire la porta della mia camera lo feci io, stampandomi anche sul viso un sorriso falsissimo.
«Buongiorno, papà! Scusa ma ero impegnat…».
«Mi spieghi cos’è questo?», mi chiese mio padre, interrompendo il mio – solito – straparlare e facendomi perdere il sorriso. «Perché non ne sapevo nulla?».
Tra le mani stringeva un foglio di carta bianco pieno di scritte. Mi feci vicino a lui per poter riuscire a leggere. Erano… una sfilza di nomi? Nomi sconosciuti, tra l’altro. Aggrottai le sopracciglia.
«Posso?», domandai poi, chiedendo che mio padre mi passasse il foglio.
Lui lo fece senza esitazioni. Poi aggiunse: «Sono dei nomi di ragazzi segnati per l’intercultura. Sono tutti texani: Beacon Hills… o meglio, la tua scuola… ha deciso di iniziare il gemellaggio con Austin».
Annuii.
«Sì… la signorina Morrell ha detto che d’ora in poi il nostro liceo si occuperà ogni anno di attività come queste. Per stringere rapporti anche con ragazzi ‘‘stranieri’’…», constatai, passando in rassegna i nominativi di ragazzi e ragazze presenti nella lista.
«E posso sapere per quale assurdo motivo tu hai deciso di renderti disponibile all’iniziativa senza dirmi nulla?».
«Diciamo che…», iniziai, cercando di trovare le parole giuste. «Potrei… essere messo un po’ male con la materia della Morrell, che si occupa dell’iniziativa e me l’ha proposta come ‘‘rimedio’’. E comunque ne abbiamo parlato moltissimo tempo fa: nemmeno me ne ricordavo più!».
Mio padre mi donò uno sguardo a metà tra il deluso e il comprensivo. Emozioni contrastanti.
«Quindi in poche parole ospitando un ragazzo texano per tutto l’anno eviti la bocciatura in Francese?».
«Be’, tecnicamente sì. Ma praticamente devo continuare ad impegnarmi finché la scuola non sarà finita e continuare a farlo anche l’anno prossimo».
Papà annuì, come se fosse ovvio. E in effetti lo era.
«D’accordo, allora. La tua insegnante ha detto che dobbiamo scegliere uno di questi nomi sulla lista. Vieni di là, così risolviamo la situazione prima che tu debba andare a scuola».
Io e papà ci eravamo sistemati in cucina. Erano passati dieci minuti, e li avevamo impiegati tutti a discutere sugli eventuali pro e contro dell’avere un ragazzo in casa o dell’averci una ragazza. Alla fine, però, quando mancava solo un quarto d’ora all’inizio di scuola e sarei dovuto uscire di casa subito per evitare di essere in ritardo, capimmo entrambi che o ragazzo o ragazza non sarebbe cambiato poi molto. Avremmo comunque avuto un ospite in casa Stilinski per nove mesi: un ospite che avrebbe dormito nella camera degli ospiti – perché sì, quando mi ero detto disponibile all’intercultura avevo pensato anche a quell’evenzienza. Eh-eh, per chi mi avete preso? Sono intelligente, io – un ospite, mio coetaneo, che avrebbe frequentato scuola con me e che probabilmente avrebbe conosciuto tutti i miei amici.
Se vista solo da quel punto, la cosa poteva sembrare molto interessante. Insomma, la vita del figlio unico non era così divertente come sembra. Io molto spesso mi sentivo solo… perché sì, nonostante avessi Scott quasi sempre con me non sarebbe stato mai come avere un fratello o una sorella accanto, e questo già lo sapevo bene. Quindi l’idea di ricavare una sorellastra o un fratellastro grazie a questa cosa dell’intercultura mi faceva molto felice. Cioè, per nove mesi non sarei stato più solo come prima. E, in più, avrei sistemato la mia situazione col Francese.
«Papà!», trillai ad un certo punto, portandomi una mano alla fronte. Avevo avuto un colpo di genio? Be’, certo che sì. «Perché ci stiamo scervellando da dieci minuti su chi scegliere? Io so già chi merita davvero di venire a stare a casa nostra!».
Vidi mio padre riservarmi un’occhiata scettica. Come al solito. Riponeva in me troppa poca fiducia.
Sbuffai, strappandogli la lista coi vari nomi candidati all’intercultura a Beacon Hills ed iniziando ad analizzare attentamente tutti i requisiti degli studenti che ancora né io né mio padre avevamo escluso dalla selezione. Perché sì, in quei dieci minuti sia io che lui avevamo deciso di escludere qualcuno in modo che la cerchia dei prescelti fosse più ristretta. Naturalmente non avevamo escluso nessuno dei candidati perché fosse poco bravo a scuola o cose del genere… erano tutti bravissimi, altrimenti i loro nomi non sarebbero stati presenti su quella lista.
Ma, siccome avevamo bisogno di restringere la scelta, io avevo iniziato ad escludere ragazzi perché: ‘‘Questo qui mi sta antipatico a pelle’’, ‘‘Questa ha un nome impronunciabile’’, ‘‘Lui mi sa tanto di palestrato senza troppo cervello e mi basta già Jackson’’, ‘‘Lei ha un nome simile a quello di Lydia e di Lydia ce n’è solo una’’… e così via. Mio padre per un momento mi aveva pure assecondato, iniziando a cancellare nomi alla rinfusa mentre teneva gli occhi chiusi per non vedere. Si era giustificato dicendo: «I nomi dei ragazzi che cancellerò ha voluto che li cancellassi il Destino. Mi dispiace, cari». Non avevamo quasi mai scherzato in quel modo. Era stato molto divertente. E in più c’eravamo liberati di altri nomi. Ma comunque non riuscivamo ancora a scegliere.
«Quindi deduco che siamo finalmente vicini ad una scelta», affermò mio padre, facendomi annuire in risposta.
Di ogni studente segnato all’intercultura avevamo i nominativi, la data di nascita e tutti i voti scolastici. Io avevo problemi col francese… quindi quale mossa più astuta di ospitare qui da noi un esperto della materia? Afferrai un pennarello rosso e cerchiai i nomi degli studenti coi voti più alti nella materia della Morrell. Ne trovai quattro: tre ragazzi e una ragazza. Avevano tutti nove in francese: quello che mi serviva.
«I quattro nomi cerchiati. Sono i quattro ragazzi coi voti più alti in francese. Ospitiamo uno di loro, così potrà aiutarmi durante tutto l’anno con la materia della Morrell. Mi sembra ovvio!», spiegai a mio padre, fiero della mia – ennesima – idea geniale.
Se solo avessi potuto, mi sarei battuto il cinque da solo.
«Sai che ti dico? Scegli tu, tanto non mi cambia nulla. Vado di là a prendere lo zaino e le chiavi della Jeep. Sono già in ritardo per scuola».
Mio padre annuì, prendendo ad analizzare i quattro nomi papabili con occhio attento. Io tornai nella mia cameretta e mi misi lo zaino in spalla, recuperando le chiavi della mia macchina da sopra la scrivania. Ritornato in cucina per salutare mio padre, gli donai un’occhiata sospettosa.
«Non riesci ancora a scegliere?», chiesi.
«No, no», mi rassicurò lui prontamente, mettendosi in piedi e raggiungendomi sulla soglia. «Ho scelto. Harriet Carter. L’unica ragazza. Ha un nome che colpisce e perciò… lei».
Annuii.
«D’accordo. Sono certo che andrà più che bene». Io e papà ci dirigemmo, come capitava spesso quando lui andava al lavoro in ritardo, insieme fuori di casa, separandoci per entrare ognuno nelle rispettive automobili. «Come hai detto che era il nome? Magari più tardi a scuola faccio qualche ricerca».
«Harriet Carter», mi ripeté mio padre, poco prima di entrare nella volante dello sceriffo. «E comportati bene a scuola. Ci vediamo stasera».
«Come sempre, papà», assicurai, entrando anch’io nella mia Jeep e posizionandomi al posto di guida.
Harriet. Era un nome strano davvero. Non l’avevo mai sentito. Fu proprio la curiosità che aveva spinto mio padre a scegliere proprio lei e che in quel momento si stava impadronendo di me, a farmici pensare fissamente per tutta la mattina finché non ebbi occasione di occupare un computer e fare un po’ di ricerche sul sito del liceo di Austin dal quale sapevo provenisse.
La trovai quasi subito. Nel profilo dedicato a lei, ebbi la possibilità di vedere tutte le varie foto inserite nell’annuario. Ma non persi tempo più di tanto: non ne avevo bisogno. Mi bastò semplicemente ritrovarmi di fronte il suo sorriso, i suoi occhi scuri, i capelli mossi e la pienezza delle sue labbra. E capii subito che non sarei mai e poi mai riuscito a considerare una ragazza così bella come una sorella e niente più.
Molto probabilmente mio padre aveva fatto la scelta sbagliata.
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parachute
FanficEro nata e cresciuta ad Austin, ma non volevo più starci. Il Texas ormai mi andava stretto. Avevo sedici anni e tanta voglia di indipendenza. Se fossi stata fortunata, quella che stava per arrivare sarebbe stata la mia ultima estate laggiù. Quello s...