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Il nonno mi raccontava spesso della guerra. Diceva sempre che, appena partito da casa, era come se avesse smesso di essere lui.

Ribadiva continuamente di essersi rifiutato di ricoprire altri ruoli all'infuori di quello del soldato semplice, come per togliersi di dosso delle colpe che non gli appartenevano: noi, comunque, sapevamo che il grado della medaglia non dipendeva esclusivamente da sue scelte. Non era un gran corridore, non sparava preciso e aveva il cuore troppo grande per metterlo a tacere sotto i colpi della rivoltella.

Ogni volta ci parlava dei viaggi in mare, delle traversate lungo la Manica, degli inverni ghiacciati trascorsi con una coperta sulle spalle e un bicchiere pieno di sputi che non riuscivano ad attraversare la gola arida. Ci parlava sempre di quelle quattro mura in cui lui e i suoi compagni di reggimento aspettavano che il giorno passasse, intenti a badare ai fucili che prendevano polvere sopra i tavoli -o contro le pareti- con gli occhi assonnati che non potevano chiudersi. Della pioggia inglese, che batteva lenta sulla finestra panoramica che dava sul giardino spoglio del rifugio militare. Delle bende insanguinate, delle gambe amputate, delle mani che piangevano le falangi perdute. Delle urla deliranti dei padri, dei figli, degli zii, dei medici da campo che vivevano tra le bestemmie, il rum e la vita che se ne va. Della morte, cruda, che incombe su ogni cosa, su ogni foglia, su ogni medaglia, su ogni granello di polvere da sparo, con lo stesso grigiore pallido e malinconico che ricopre tutti i quadri di Orozco.

Qualche volta nonno Arthur piangeva, mentre ne parlava, soprattutto quando confessava di aver pensato di non essere più inglese. Aveva smesso di essere parte della sua Inghilterra, per un po'. Se ne vergognava, qualche volta. Specie quando un soldato tedesco di 18 anni cadeva per colpa di un proiettile londinese, lasciando in Germania una vedova di guerra.

Il nonno diceva sempre che niente ha valore finché se ne assaggia il sapore acre della perdita. Lui aveva gustato quello della sua famiglia, della sua Birmingham, della sua donna. Mentre varcava la porta di casa, aveva assaggiato anche il gusto del suo essere inglese: non sentiva più niente, niente più gli apparteneva. Lui era niente: era il grigiore riflettente del suo fucile e tanfo di cadavere. La guerra aveva anestetizzato tutto.

Sfilo le cuffiette e le caccio in tasca, sapendo che tanto, c'è sempre qualcuno che le annoda per me.

Un anziano signore con la coppola mi sorride tenero, quasi voglia offrirmi il suo ombrello gigante per ripararmi dalla pioggia, dalla vita che scorre davanti a me e dietro di lui.

Che strano scherzo der destino.
C'hai li stessi denti storti der nonno.

Ricambio la cortesia e aggiusto la custodia del basso sulla spalla, corricchiando verso il portone di Thomas. Busso tre volte, come mi ha insegnato a fare il papá da piccola per sapere che stavo rincasando.

Da quanto tempo n'o vedevi così vicino?

Samuele mi apre la porta lentamente, cauto e premuroso come l'ho lasciato, e mi sorride con la testa storta.

Che strano, Samuè.
Ce semo scontrati su sto pianerottolo c'a speranza de potè aggiustá tutto meno de quattro mesi fa.
E qui se ritrovamo ancora.
Ma ora sappiamo che finge è inutile: n'c'è più nulla da aggiustá.

"Ciao."

Gli sono cresciuti i capelli e ha tagliato la barba di netto. Adesso ha una chioma folta di finti ricci carbone e gli si vede persino il mento liscio con quel simpatico buco in mezzo.

"Ciao." -raddrizza la schiena alla ventata di ricordi, prima di tornare a sorridermi- "Entri?"

Soffio tra le mani mentre Sam richiude la porta: ha lo stesso profumo forte di sempre.

un bacio al tabacco. | måneskinDove le storie prendono vita. Scoprilo ora