Capitolo 5

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Strinsi i denti e continuai così. Erano un continuo. I botti, i respiri, le urla.
Uno.
Due.
Tre.
I colpi al sacco si fecero più veloci, più violenti.
Continuai per ore.
Sentì la rabbia impadronirsi nuovamente dentro di me e continuai a calciare e a stringere i pugni più violentemente.
Ricominciai, continuai fino a quando un urlo disperato proruppe dalle mie labbra.

Un dolore al petto inspiegabile. La bile continuava a salirmi in gola e l'odore di vomito e sangue si sprigionò nella mia bocca. Vedevo solo nero. La sagoma del sacco da boxe divenne più sfocata e in un lampo mi ritrovai a terra.
Sentivo ancora la rabbia ribollire nelle vene.

Come avevo potuto? Mi vergognai di aver pianto anche solo una lacrima per quell'essere che non meritava niente. Se n'era andato e per quattro lunghi anni avevo sperato in un suo ritorno. Solo alla fine del terzo anno avevo perso il senno.
Mi era venuta la voglia di sfogarmi e urlare fino a non sentire più niente.
Avevo provato persino a porre fine alla mia vita ma il ricordo di mio fratello che se ne andava, veniva ogni notte più insistente.
Ed è stato in quel momento che avevo deciso di lasciarmi affogare nello sport.
Mia madre mi aveva allenato per anni a boxe e io non avevo mai smesso. Il sacco era diventato una salvezza per me ma non bastava. Così mi ero iscritta a nuoto. Lo avevo praticato per anni ma non avevo mai svolto il corso agonistico.

Dopo un pò la rabbia era scemata e la voglia di nuotare era divenuta sempre più alta. Avevo smesso di provare dolore, avevo smesso di piangere promettendomi che non sarebbe mai più successo. E così era da un anno. Ma due sere prima mi ero lasciata andare con uno sconosciuto. Mi ero ripromessa di non farlo mai più e invece mi ero ritrovata a frignare come una bambina tra le braccia del primo passante.

Provai ancora più odio verso quella mia reazione tanto infantile e i colpi al sacco divennero ancora più violenti, una volta rialzata. Il respiro irregolare, il cuore minacciava di scoppiarmi nel petto e il sudore colava sulla mia fronte.

Ero sola nella palestra e mi andava più che bene. Avevo prenotato la stanza poichè quella mattina avevo fatto lo stesso sogno e avevo subito avuto voglia di sfogarmi. Mi ero cambiata velocemente e alle 5 ero già fuori casa.

Continuai a tirare pugni ancora per dieci minuti fino a quando non sentì la porta sbattere.
Mi voltai di scatto e lo vidi. Capelli tirati indietro da una fascia rossa. Indossava una canottiera e dei pantaloncini blu. Le mani tenevano un paio di guantoni da boxe anch'essi rossi e i suoi occhi verdi mi scrutavano attentamente.

"Ragazzina, lo vuoi ammazzare quel povero sacco?" Sorrise sornione e puntò con il dito l'oggetto appeso al mio fianco.

"Non sono affari tuoi." Risposi acida.
Raccolsi velocemente le mie cose e mi diressi a passo rapido verso gli spogliatoi. Ero in ritardo e non volevo di certo fate conversazione, se così si poteva chiamare, con quel ragazzo.

"Ehi aspetta! Non mi hai detto il tuo nome." Mi prese il polso e mi voltò verso di lui.

"Io sono Tyler." Aggiunse. "E tu..?"

"Non ti interessa."

"Brava così! Fatti valere!"

Mi voltai nuovamente e arrivai allo spogliatoio sana e salva.

Dopo una doccia veloce, corsi fino alla fermata del pullman e andai a casa, recuperando lo zaino.
Trovai Giulia che faceva colazione.

"Alla buon'ora! Ti davo per dispersa! Non vorrai fare tardi il primo giorno di scuola a New York, vero?" Replicò Giulia non appena mi vide entrare.

"Non era mia intenzione tranquilla. Mi sono allenata un pò e indovina chi ho incontrato?"

"Ehi, ragazzina, come va? Tutto bene dolcezza?" Scoppiai a ridere quando sentì l'imitazione squallida di Tyler che Giulia aveva appena fatto.

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